Il progetto: gli inizi sono sempre in salita

Una nuova rubrica: la stagione di Football Manager 2015 di Davide Coppo alla guida della Roma, raccontata da lui stesso, l’allenatore. In questa prima puntata, i primi difficili giorni, tra sconfitte, cessioni, ricatti e ansia da prestazione.

Quando sono diventato il nuovo allenatore della Roma pioveva una pioggia molto fine e continua, che faceva un rumore lieve e rassicurante. Il mio gatto James stava sul divano davanti alla mia poltrona. Fumavo una sigaretta e bevevo una birra. Perché la Roma? Perché la allenai già nel 2001, quattordici anni fa, e vinsi uno Scudetto con Batistuta e insieme Cufré, con le aggiunte di un iraniano di nome Mahdavikia, un nigeriano di nome Babangida e un ragazzino olandese scovato nel Groningen, una piccola squadra dei Paesi Bassi settentrionali, graziosa e con una vita culturale – dicono le guide – molto attiva. Si chiamava, e si chiama ancora, Arjen Robben.

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Sono soltanto da pochi minuti il nuovo allenatore della Roma, fuori continua a piovere e James continua a dormire. Guardo la rosa della squadra, cerco di capire con che modulo vorrò giocare, da scegliere in base ai giocatori, da scegliere in base a quello che faceva Rudi Garcia, l’allenatore che mi precedeva, per non confondere la squadra, non stravolgere le loro certezze. Sono soltanto da pochi minuti il nuovo allenatore della Roma e mi chiama Italo Zanzi, il CEO della squadra, che vuole salutarmi, interrogarmi, conoscermi. Accetto il colloquio con un po’ di ansia. Zanzi mi comunica che la squadra vuole arrivare a qualificarsi alla Champions League, cosa che immaginavo. Mi sembra che utilizzi un tono duro, anche se non sento davvero la sua voce. Mi comunica che in Champions League, invece, vuole che porti la Roma almeno agli ottavi di finale. Questo non lo immaginavo, ma scelgo un tono calmo, e gli dico che ce la faremo. Mi comunica che il budget messo a disposizione dalla dirigenza è di 8 milioni di Euro. Sono un po’ pochi, penso, ma non lo dico a Italo. Sono soltanto da pochi minuti il nuovo allenatore della Roma, d’altronde.

Ci sono molti giocatori alla Roma che mi piacciono. Mi piacciono calcisticamente e mi piacciono umanamente, almeno mi piace l’idea che mi sono fatto della loro umanità in base alle loro movenze atletiche, o in base ai loro sorrisi quando esultano, ai loro abbracci reciproci o a qualche interazione su Twitter, ma in realtà non li conosco affatto. Tra i miei preferiti ci sono Gervinho e Florenzi. Per il resto, la squadra è stata costruita da Garcia e non da me: ci sono i nuovi arrivi Manolas, Holebas, Salih Uçan, Keita, Iturbe, e in teoria la squadra è pronta a partire. Guardo la rosa e abbozzo l’idea di un 4-4-2 con il centrocampo a diamante, che non mi convince del tutto. Ma con 8 milioni non posso comprare nessuno. E più guardo la rosa, più penso che non sarà una passeggiata arrivare secondi in campionato, e sarà ancora più difficile arrivare agli ottavi di finale di Champions League. E poi l’ombra di Garcia, che pesa e si allunga, o minaccia di farlo, ai primi passi falsi.

Potrei parlare con Frédéric Bompard, il mio allenatore in seconda logorroico e che continua a invitarmi a colloqui che non sono sicuro di voler fare, a consigliarmi metodi di allenamento che sono troppo pigro per prendere in considerazione seriamente. Frédéric è un francese, ex-portiere, cinquantenne con i capelli lunghi e le linee del viso che assomigliano in modo angosciante a quelle che probabilmente avrà Francesco Totti alla sua età. Io invece di parlare con lui, il mio aiutante alla Roma, apro la chat di Facebook e scrivo al mio amico Daniele: gli dico che sono diventato allenatore della Roma, ma che non so bene come farla giocare. Daniele è romanista e mi dice «non rovinare la mia Roma», scherzando. Io voglio trovare dei soldi perché con Iturbe, Destro, Gervinho e Totti non posso giocare facilmente con due punte. E io voglio giocare con due punte. La soluzione arriva, ma non è quella che mi aspettavo: il 13 luglio 2014, a tre ore dall’annuncio del mio nuovo incarico, Gervais Lombe Yao Kouassi mi chiede un colloquio. Quando un giocatore chiede un colloquio all’allenatore non c’è quasi mai nulla di buono all’orizzonte. Infatti Gervinho, uno dei giocatori su cui speravo di impostare il mio gioco, mi dice che ha saputo dell’interessamento del Real Madrid, mi dice che vuole andare via. Io gli dico di no, e lui insiste. Gli dico ancora «non sto negoziando, non te ne andrai dalla Roma». Lui, duro, risponde: «Scatenerò l’inferno per ottenere ciò che voglio». Non posso permettermi un inferno scatenato da Gervinho a tre ore dal mio arrivo, e gli dico che va bene, che può andarsene. Lui, tornato Dottor Jeckyll, dice «sono molte felice che tu abbia capito». Lo offro al Real Madrid per 32 milioni di Euro. Il Real Madrid accetta.

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Ho la prima conferenza stampa della mia carriera, e un giornalista di nome Lorenzo Di Simone, definito dal mio staff “subdolo”, mi chiede se c’è qualche area della rosa che vorrei rafforzare. Io, appena uscito dal colloquio con Gervinho, rispondo con una citazione, come se stessi parlando con Arturo Belano: «Che Dio, se esiste, abbia pietà di noi».

Nel frattempo la tournée americana è alle porte, io ho sondato qualche giocatore con esiti deludenti: Cuadrado, Lichsteiner, il giovane Ocampos del Monaco, Halilovic del Barcellona. Bisogna partire per gli Stati Uniti, senza Gervinho, o con Gervinho che in pochi giorni definirà il suo contratto con il Madrid. È il momento di provare il 4-4-2 con centrocampo a diamante. Frédéric Bompard mi dice che è un modulo nuovo, che i giocatori avranno difficoltà ad adattarvisi. Il mio amico Daniele mi dice di provare con la difesa a 3. Io non ascolto nessuno dei due. Poco prima dell’America, ho una partita con la Primavera: finisce uno a zero per la prima squadra, ma soltanto grazie a un autogol al novantesimo. Non va bene, ma luglio è appena iniziato.

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In America non vinco nemmeno una partita: schiero una difesa a quattro formata da Holebas (terzino sinistro), Castan e Manolas o Astori o Yanga Mbiwa, Torosidis o Maicon a destra; De Rossi mediano e regista arretrato, Nainggolan e Florenzi come mezzali, Pjanic dietro le punte; davanti, Destro e Iturbe. Perdo 2-1 contro i New England Revolution (segna Florenzi). Pareggio 1-1 contro i New York Red Bulls, ma il nostro gol arriva da calcio d’angolo ed è un colpo di testa di Astori. Giochiamo male e l’ombra di Rudi Garcia si allunga su di me. Mi sento Rafa Benitez che arriva all’Inter dopo i trionfi di Mourinho. Mi chiedo come spiegherò alla dirigenza il mancato raggiungimento della Champions League, mi chiedo come giocheremo contro la Juventus se non riusciamo a battere una squadra di Major League Soccer. La terza partita è contro i Philadelphia Union, una squadra mediocre arrivata quattordicesima nell’ultima MLS: riusciamo a perdere 3-0.

Torniamo in Europa: la notizia che trovo nella casella delle lettere è un’offerta del Chelsea per Mattia Destro di diciotto milioni di Euro. Scrivo a Daniele, gli comunico l’offerta e il mio rilancio a 22 milioni. Lui dice: «Ce lo porto io a piedi mano nella mano». Questa volta sono d’accordo. Ho subìto 6 gol in tre partite da squadre nordamericane, ne ho segnati 2, e mi trovo senza attaccanti ma con circa 40 milioni da spendere (altri arriveranno a rate nei prossimi mesi). È arrivato agosto, qui fuori invece piove sempre, sono passati pochi minuti o qualche ora. Sono triste ma eccitato per il futuro. Esco di casa senza ombrello, vado a una festa di compleanno in centro. Mi prometto di non parlare troppo ai miei amici di questo mio primo, velocissimo mese da allenatore della Roma.

Successivi:

2 – La squadra su cui non tramonta mai il sole