Il progetto: la squadra su cui non tramonta mai il sole

Seconda puntata della stagione di Football Manager 2015: il mercato entra nel vivo, bisogna comprare, tra vezzi di esotismo e necessità reali. Continuano le amichevoli e si avvicina la prima partita di Serie A, con le prime polemiche.

Una delle paure principali che ho avuto nei miei primi giorni da allenatore della Roma riguardava lo stress, il coinvolgimento mentale, la dipendenza e il tempo. Un po’ come Arrigo Sacchi, mi sono promesso di non farmi coinvolgere eccessivamente nel gioco, cioè di non lasciare che le partite, i trasferimenti, le istruzioni ai giocatori, i litigi con gli allenatori avversari e le conferenze stampa si prendessero troppo tempo della mia vita. Io non ho mai voluto fare l’allenatore! Non ho mai voluto lavorare con il calcio, né essere etichettato come “qualcosa” sportivo o “qualcosa” calcistico. E quindi ho aspettato, prima di tornare a Trigoria. Mentre aspettavo le giornate sono cambiate, novembre ha iniziato a vestirsi da novembre e ha smesso di essere una propaggine piovosa di un’estate mai esistita. Ho letto molto: Spillover di David Quammen, che mi ha istruito sulle zoonosi e sulla catastrofe inevitabile a cui andrà incontro l’umanità, ebola o non ebola; ho riletto Le città invisibili; una lunga intervista a Elon Musk uscita su Aeon Magazine; ho progettato un’idea di un lungo articolo sulle piante da appartamento. Ho anche comprato altre piante da appartamento, le ennesime.

Devo provare tutti gli schemi che mi passano per la testa? Devo insistere su uno schema sperando che prima o poi i giocatori lo capiscano, si adattino e lo interpretino bene? E se nessuno avrà la pazienza di aspettarmi?

Con la coscienza pulita per aver sbrigato i miei doveri intellettuali e casalinghi posso sedermi, aprire una birra e tornare a Trigoria. Dove sono rimasto? Tornato da una fallimentare tournée negli Stati Uniti, nei primi giorni di agosto, devo acquistare attaccanti. Due attaccanti, forse tre. Ho voglia che questo agosto passi nel tempo di una sigaretta: non so come schierare una squadra che non sento ancora mia, non so chi comprare visto un budget che non mi permette di raggiungere i miei sogni meno obiettivi (Tevez, Ocampos, Paco Alcácer, Deulofeu). Non so come iniziare a vincere: devo provare tutti gli schemi che mi passano per la testa? Devo insistere su uno schema sperando che prima o poi i giocatori lo capiscano, si adattino e lo interpretino bene? E se nessuno avrà la pazienza di aspettarmi? Come spiegare alla dirigenza che un progetto richiede tempo? Ma se questo agosto passasse e io arrivassi al campionato, all’inizio della Serie A, i problemi rimarrebbero.

Mando un osservatore in Argentina, un altro in Brasile. La sera prima, in un’enoteca di Brera, ho letto in un momento di noia un’enciclopedia Garzanti di letteratura. Qualche pagina aperta a caso, qualche nome letto a caso. Jorge Luis Borges, ricordo. Nato a Buenos Aires, cresciuto in Svizzera, collaboratore della rivista Martín Fierro. Martín Fierro, il poema nazionale argentino di José Hernández che a un certo punto (un punto citato sulla copertina rivista omonima a ogni numero) dice: «De naides sigo el ejemplo / neide a dirigirme viene / yo digo cuanto conviene», di nessuno seguo l’esempio, nessuno a dirigermi viene, io dico quel che conviene. Potrebbe essere il motto di questa Roma, subissato come sono da domande di noiosi e petulanti giornalisti sportivi, più reali della realtà, conferenze stampa che regolarmente abbandono alzandomi dalla mia postazione per guadagnarmi dopo un solo mese di attività la fama di nemico della stampa, da allenatori in seconda e massaggiatori e fisioterapisti troppo pieni di buoni consigli che non ho voglia di ascoltare. Cerco, per curiosità, se ci sono calciatori che si chiamano “Fierro”. Ne trovo uno messicano, si chiama Carlos Fierro e lo faccio subito visionare. Gioca nel Chivas de Guadalajara, è nato nel 1994, un ragazzino dalla carnagione chiara, i capelli lunghi fino al collo, la faccia da popstar americana, e sembra promettente. Carlos Fierro, il mio nuovo gaucho?

Humam Tariq è nato nel 1996 a Baghdad, gioca in Nazionale iraqena da quando ha 16 anni, ha segnato quasi ogni 180 minuti (in 46 partite) con l’Al-Quwa Al-Jawiya, poi è andato all’Al-Ahli.

Nel frattempo arrivano le prime notizie dall’Argentina: mi viene consigliato Lucas Romero, un ventenne del Vélez che assomiglia a Iturbe, i tratti indios, la faccia da duro, e gioca da centrocampista. Sembra promettente, sembra un ottimo incontrista, anche in grado di giocare più avanzato. Il Vélez accetta i miei 9 milioni. Mi muovo anche su un altro fronte: Humam Tariq è nato nel 1996 a Baghdad, gioca in Nazionale iraqena da quando ha 16 anni, ha segnato quasi ogni 180 minuti (in 46 partite) con l’Al-Quwa Al-Jawiya, poi è andato all’Al-Ahli. Riesco a prenderlo per 700 mila euro, poi parto per il Portogallo: ho un’amichevole fissata con il Gil Vicente, e non vedo l’ora di schierare Romero. Humam, che sogno di far giocare in coppia con Salih Uçan in una Roma di piedi delicatissimi e fascino orientale, rimane in Iraq, o a Roma, non lo so, non lo posso sapere. Penso che se la Roma prendesse davvero un giocatore come Tariq, e lo facesse giocare con Uçan, scriverei un articolo lunghissimo su di loro. Comprerei anche la maglietta, di uno o dell’altro. Se Undici me lo permettesse, andrei in Iraq con Tariq a fare un reportage dal calcio iraqeno. Guardo le sue foto su Google Images: assomiglia un sacco a Ronnie Wood dei Rolling Stones. Sento che sta diventando il mio giocatore preferito, ma lo faccio giocare con la Primavera, per il momento.

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Contro il Gil Vicente provo un 4-2-4, con la difesa classica che schiererò sempre (a parte Castán, Manolas, Yanga e Astori si equivalgono), Romero e De Rossi a centrocampo, Pjanic e Florenzi ali, Totti e Ljajic davanti. La Roma gioca finalmente a calcio: vado sul 2-0 grazie a Yanga Mbiwa e Florenzi, poi, al novantesimo, segna il Gil Vicente. Chi se ne frega, ho fatto 24 tiri contro 9 (ho detto alla squadra “tirate appena possibile”), più possesso palla e un gioco iper-offensivo che ha schiacciato gli avversari. Forse 7 tiri in porta su 24 sono un po’ pochini, e forse subire gol anche dal Gil Vicente potrebbe essere preoccupante. Ma sono abbastanza felice della vittoria, e non penso ai problemi, con un po’ di incoscienza e liberazione. Il giorno dopo, domenica 10 agosto, arriva un’altra buona notizia: Aritz Aduriz è pronto a firmare. Trentatré anni, pagato 2 milioni, viene dall’Athetic Bilbao e può fare la riserva dell’attaccante che prenderò per sostituire Destro. Finora sono arrivati un argentino, un iraqeno e un basco, e la distribuzione geografica dei miei calciatori, che voglio varia ed eclettica, mi piace. Ora il problema più grande: chi sarà il vero titolare? Provo con Icardi: niente. Ma Icardi dice chiaramente che avrebbe sperato di trasferirsi, il che mi fa ben sperare per il futuro. Provo con Raúl Garcia: niente. Provo con Paco Alcácer: niente. Provo – molto meno entusiasta che all’inizio – con Klaas-Jan Huntelaar: va bene. Arriva dallo Shalke 04 per una decina di milioni, e la prima domanda a cui devo rispondere è del tipo: non pensi che pagare così tanto un trentenne sia controproducente? Che stronzi, i giornalisti.

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In questa estate schizofrenica che porta negli Usa e poi in Portogallo, mi tocca tornare in Canada: nell’amichevole contro i Vancouver Whitecaps schiero la squadra con lo stesso schema, ma con Aduriz e Huntelaar attaccanti. Dopo 21 minuti vado in vantaggio con Manolas su calcio d’angolo, dopo 41 raddoppia Pjanic da fuori area, dopo 43 ancora Pjanic, dopo che il portiere ha respinto un tiro di Aduriz. Ho fatto 19 tiri, 167 passaggi riusciti (su 225), e un possesso palla del 52 per cento. Al 71° segna il 4-0 Aduriz. Sono esaltato. Il giorno dopo vado da Pjanic e gli dico che è stato eccezionale. Lui risponde così: «Non credevo di aver giocato così bene, mi stupisce il tuo complimento. Sembra che i nostri standard di valutazione siano differenti». Ci rimango male. Vado da Maicon, che mi dicono essere mezzo matto ma simpatico (me lo ha detto uno che lo vede ogni giorno, più o meno), e gli dico la stessa cosa. Lui è di ottimo umore e mi dice «grazie mister». Nel frattempo sorteggiano la Champions League: sono in un girone durissimo, con Porto, Olympiakos e Dortmund. Il mercato non mi dà più soddisfazioni (e il Chivas non vuole mollare le pretese di circa 15 milioni per Carlos Fierro, almeno per ora), mentre passano i giorni e mi chiedo se dire ai giocatori di fare un altro sforzo e organizzare un’amichevole in qualche ora per giocare ancora, ma poi non lo faccio: devo potare l’alocasia, che sta mettendo una foglia nuova ma ne ha fatta morire una vecchia, e poi pulire i piatti della cena, uscire, bere, parlare, tornare a casa, dormire.

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Si avvicina la prima partita di campionato, contro la Sampdoria. Ho fiducia nel 4-2-4, dopo due belle vittorie nette. So che la Samp non è il Vancouver, tuttavia. Mihajlovic prima della partita si lamenta dei troppi calciatori stranieri a Roma, si lamenta di ciò che io considero il fiore all’occhiello del mio progetto, una squadra su cui non tramonta mai il sole, dall’Ellesponto al Rio de la Plata, dall’Eufrate a Timbuctu, da Sumatra a São Paulo. La partita inizia bene dal punto di vista del gioco, la Roma (un 4-2-4 con i quattro davanti formati da Florenzi, Aduriz, Huntelaar, Pjanic) tiene poco la palla ma tira molto verso la porta, eppure al minuto 39 Roberto Soriano, un italiano cresciuto in Germania, ne sarà felice Mihajlovic l’autarchico, il nazionalista, il protezionista (non vorrei dire di peggio), segna con un gol inaspettato da 30 metri. Piove e ci sono soltanto venti gradi a Genova, è una giornata triste che si è messa male. Nel secondo tempo insistiamo, e Florenzi pareggia tre minuti dopo l’inizio.

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Cambio Aduriz con Francesco Totti, le cose vanno sempre meglio e manca poco al gol. Poi lo stesso Totti si guadagna un rigore, lanciato in area da Pjanic. Esulto, ancora prima di vedere la palla in rete. E la palla in rete non ci va. Totti tira sul palo. Mancano trenta minuti, la Sampdoria cresce e noi ci involviamo, depressi e tristi per le opportunità sciupate, per una giornata di pioggia e di freddo in estate, per la mia alocasia che ha anche dei buchi su alcune foglie e dovrò chiamare di nuovo il fioraio. Nella conferenza stampa dichiaro che meritavamo la vittoria ed è stata soltanto sfortuna. Spero che i tifosi vadano in magazzino a riprendere quel vecchio striscione bellissimo che diceva: mai schiavi del risultato.

Precedenti:

1 – Gli inizi sono sempre in salita