Il progetto: la riscossa, forse

Quarta puntata del racconto di Football Manager. Dopo la serie quasi interminabile di sconfitte consecutive, uno spiraglio di luce: le prime vittorie, la Champions League che si raddrizza, i piccoli ma significativi cambiamenti tattici, i ritorni dagli infortuni, l’amore dei giocatori.

Quando le giornate sono grigie e il lavoro va male non hai molta voglia di uscire dal letto, appoggiare i piedi sul parquet freddo, e poi sulle piastrelle ancora più fredde del bagno, uscire, prendere la metropolitana, andare a lavorare. Lo devi fare, ma vorresti non farlo. Quando la tua squadra ha persona contro il Milan e contro la Juventus, e soprattutto se la tua squadra – inteso come squadra che alleni, di cui sei il faro, il riferimento, il traghettatore – si chiama Roma, è più o meno la stessa situazione. Solo che non posso scegliere di fermare il tempo (sì, potrei, ma non si fa, e poi c’è la rubrica da portare avanti) e a malincuore e pieno di paure devo tornare nello stargate a cristalli liquidi del mio lentissimo MacBook, e materializzarmi di nuovo a Trigoria, Roma, in questo autunno dello scontento nostro, ma anche loro, dei giocatori, dei tifosi, della dirigenza che mi ha chiesto promesse che non sto mantenendo.

La scorsa settimana un lettore ha commentato la terza puntata del progetto dicendo qualcosa come: “certo che sì, Football Manager fiuta la paura”. Io ho sempre avuto ancora più paura delle cose che fiutano la paura, tipo i cani, e quindi quando entro a Trigoria e capisco che mi aspetta una partita contro la Fiorentina mi tremano ancora di più le gambe: se andasse male sarebbe la terza sconfitta consecutiva, ma soprattutto c’è lo spettro di una difesa che non riesce a rimanere imbattuta, di un attacco che non segna, di un centrocampo che non fa possesso, insomma di una squadra che non gira, confusa, allo sbando. Chi dovrebbe rimediare a tutto questo? Io, certo.

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Mi dico: la squadra deve imparare a giocare con questo modulo, quindi non cambierò. Lascio però Pjanic sull’ala destra, anziché arretrerlo a mezzala come alcuni mi hanno detto, e metto Iturbe su quella sinistra. Prima della partita scelgo di usare un tono appassionato e di dire alla squadra di andare là fuori e giocare con serenità, ma so di essere poco convincente perché mi tremano le gambe, e la tifoseria mi ha detto chiaramente (attraverso tale Mattia, evidentemente deputato a comunicare con la società, chissà che faccia ha Mattia, sembra un nome così pacifico, tutti i Mattia che conosco sono persone buone e raffinate) che la doppia sconfitta con Milan e Juventus ha fatto arrabbiare tutti. La partita inizia bene: al minuto 13 Pjanic stampa una punizione sulla traversa, e sulla respinta c’è Yanga-Mbiwa che, con un tap-in in spaccata, porta la Roma in vantaggio. Uno a zero in trasferta, dico alla squadra di giocare in contropiede, sono teso ma sento fiducia. Succede poco e anche se la Fiorentina spinge molto, la Roma non si chiude del tutto e riparte bene (ma tira malissimo, come al solito). Al 44°, però, subiamo un gol molto stupido: due colpi di testa in area piccola, un terzo colpo di testa (di Rodríguez) che fa 1-1. Cinque difensori a guardare un pallone volante senza fare niente, mi metto le mani nei capelli e so di essere impotente, vorrei dire a Mattia e alla curva «vedete? Cosa ci posso fare io se sono tutti idioti?». Ma va bene, al 46° segna Iturbe di testa su cross di Maicon, mi dico che ci siamo. Invece dopo un minuto pareggia Savic (tap in su parata di De Sanctis), dopo altri dieci minuti segna Gomez su cross di Alonso, e al 58° Gomez ancora fa il 4-2 dopo una mischia in area. Al 62° Totti servito da Iturbe segna il 4-3, all’82° andiamo sotto 5-3 dopo l’ennesimo cross girato in porta da Gomez. Ancora Iturbe, all’ultimo secondo, segna il 5-4.

Subire 5 gol quando ne riesci a segnare 4 non va bene, eppure una sconfitta così mi dà fiducia: sappiamo giocare in attacco. Resta da capire come si può giocare in difesa. È il 30 settembre e c’è la partita contro il Borussia Dortmund, seconda giornata di Champions League. Per farla breve: perdiamo, ma è un’altra scarica di fiducia. Finisce 2-3, se c’è un problema chiamato Huntelaar, sempre titolare e sempre a secco, c’è una certezza che si chiama Francesco Totti, che entra e segna, sempre. Si può perdere con il Borussia? A inizio stagione avrei detto di no, che si deve sempre vincere. Ora penso che sia una tappa necessaria verso la costruzione di una nuova Roma.

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Mi rendo conto, mentre aspetto ora sì con un’ansia costruttiva, arrabbiata e determinata la partita contro l’Atalanta (terza in Serie A, mentre noi siamo diciassettesimi, e quindi terzultimi, con 4 punti in 5 partite), che non sto più parlando con Frédéric Bompard, il mio secondo, né con la stampa, cui rispondo sempre più spesso “no comment” o cose simili, perché le domande sono stupite, pretestuose, terribilmente reali e deprimenti. Però Stefano Colantuono, allenatore che trovavo sinceramente simpatico, decide di chiamrmi in causa in conferenza stampa. Dice: «Coppo sta pagando il prezzo del suo pressapochismo. La dirigenza della Roma ha tutto il diritto di mandarlo a casa». Poi aggiunge che la mia Roma ha troppi pochi italiani in rosa. Vorrei rispondergli «fascista!», ma non si può, e allora lo ringrazio, con calma e ironia, per le motivazioni che sta dando ai miei giocatori.

Le cose, però, iniziano malissimo. È passato un minuto (e sei secondi) quando Gómez, indisturbato, parte dalla destra e si accentra, poi tira, De Sanctis si allunga ma non ci arriva. Uno a zero all’Olimpico. La parola “esonero” diventa una paura concreta. Al 36° pareggiamo: è il primo gol della stagione di Huntelaar, è un gran gol di testa. Esulta, fa una capriola. Finisce il primo tempo, inizia il secondo, e inizia come il primo: con Gómez che si accentra, De Rossi che lo guarda, lo lascia tirare, lo lascia segnare e affondare la Roma. Passa un minuto: verticalizzazione di Cole per Iturbe in area, tocco di prima per Huntelaar sul dischetto del rigore, ancora di prima il tiro, gol, pareggio, finisce così, cinque punti in sei partite, però (forse) un attaccante in più, finalmente Huntelaar, finalmente quello che mi piace chiamare «Hunter!» nella mia cucina con i piatti da lavare e ordinare.

Il momento di riflessione arriva quando capisco di non avere ancora vinto una partita: è un nuovo record negativo per la Roma? Se mi esonerano, che ne sarà di questa rubrica? Chi vorrà assumere un allenatore giovane, inesperto e perdente? Soprattutto visto che c’è già Stramaccioni prima di me.

Giochiamo al Manuzzi di Cesena ed è una partita che si deve vincere. Andiamo subito in vantaggio, con Romero, che tira da fuori area dopo un appoggio di Torosidis da destra, poi dopo cinque minuti (siamo ancora all’undicesimo) Pjanic fa bene il lavoro di ala destra e di prima gira in porta un cross da sinistra di Ashley Cole. A cinque dalla fine riesco a far entrare Kevin Strootman, in un momento che voglio immaginare commovente: la prima vittoria, il ritorno del guerriero.

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Ora, con la prima vittoria, la paura scompare. La partita del 21 ottobre in casa contro il Porto è decisiva per passare il turno e avere una possibilità di qualificarsi agli ottavi, come richiesto dalla dirigenza. 67.000 spettatori, dieci gradi, la città ci crede. Mi rendo conto che schiero ancora una formazione diversa, non capisco chi sia il centrale migliore tra Astori, Yanga-Mbiwa e Manolas (Castan è inamovibile), mentre a sinistra continuo a preferire Cole a Holebas ma non ne sono pienamente convinto. A centrocampo inizio con Romero e Strootman, coppia inedita, mentre decido di lasciare Pjanic in panchina per far giocare Iturbe come ala destra, Florenzi a sinistra e sperare in Huntelaar punta centrale, ma – a parte la doppietta all’Atalanta – le cose per l’olandese non funzionano bene.

Giochiamo la palla più di prima e con il gioco più allargato sulle fasce, Iturbe, lo si vede subito, è molto più adatto di Pjanic a quel ruolo, e già dai primi minuti taglia il campo da destra a sinistra per tirare di pochi centimetri a lato, imprendibile. Dopo trenta minuti di dominio guadagniamo un rigore, un fallo di Martins Indi su Strootman in mischia da calcio d’angolo. Lo batte Huntelaar e siamo sopra uno a zero. Giochiamo bene, facciamo possesso palla e passaggi precisi, siamo un’altra squadra rispetto all’inizio. Il Porto non è mai pericoloso, o quasi mai, non fino all’ottantacinquesimo quando Jordão si fa parare un tap-in da De Sanctis, in area piccola e uno contro uno, ma a quel punto siamo già 2-0, Iturbe ha segnato venti minuti prima su assist di Florenzi, è un trionfo. L’uomo partita è Kevin Strootman, che poi mi elogia «per averlo sostenuto durante i periodi difficili». Mi sento un uomo migliore, non solo calcisticamente, e penso che nessuno potrà mai esonerarmi dopo queste parole d’amore.

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La vittoria contro il Sassuolo, 4-1 in casa con doppietta ancora di Iturbe (3 gol in 6 partite di campionato), Pjanic (ormai centrocampista) e Aduriz, è quasi una conseguenza naturale. Una cosa curiosa: dopo il 2-0, mentre tutti abbracciano Iturbe, Maicon cammina da solo verso la difesa muovendo le mani e le braccia come per dire “calma, calma”. Posso guardare la classifica che non guardavo da giorni: 11 punti in 8 partite, nono posto, sopra la Lazio. In testa il Cagliari, che affronterò al prossimo turno.

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