La squadra araba più forte d’Israele

Storia, problemi e controversie del Bnei Sakhnin, l’unica squadra a maggioranza araba a giocare nel campionato di Israele (con, però, un presidente israeliano). La storica vittoria in Coppa nel 2004, la prima volta in Uefa, la rivalità con il Beitar.

Il nome di battesimo della Premier League israeliana è Ligat ha’al. È il massimo campionato professionistico dello Stato e di recente istituzione: nasce nel 1999, quando l’allora prima divisione, la Liga Leumit, viene trasformata nella nostra Serie B. Tra i quattordici partecipanti, c’è un club molto diverso dagli altri: si chiama Bnei Sakhnin, si allena e gioca nella storica regione della Galilea, ha un presidente israeliano, dirigenti israeliani, ma la formazione è prevalentemente formata da calciatori arabi. La squadra, che in italiano letteralmente diventa “Figli di Sakhnin Uniti”, è l’unica di matrice musulmana nel campionato dello Stato di Israele. La chiamano “arcobaleno”: in rosa ci sono arabi ed ebrei, ma anche il difensore spagnolo Paz, il centrale di centrocampo greco Papadopoulos e il centravanti servo Bojovic. Un caleidoscopio.

La città di Sakhnin si trova a nord di Acri, in una bella valle con circa venticinquemila abitanti. Il Maccabi e l’Hapoel, le due squadre della città, nel 1996 si fondono e danno inizio alla storia del principale club arabo-israeliano del Paese. Il Bnei in otto anni ha già fatto storia: nel 2004 pone una pietra miliare per una società araba, vincendo la Coppa dello Stato di Israele; è il primo e unico club non al 100% israeliano a vincere questo torneo.

Il Bnei è la prima società araba a disputare una delle due maggiori competizioni europee.

La finale della competizione si gioca al National Stadium di Ramat Gan, che ospita 38.000 spettatori, ed è subito in salita per il Bnei: gli avversari dell’Hapoel Haifa vanno in vantaggio grazie a un colpo di testa pallonetto imparabile sul secondo palo; un altro colpo di testa, stavolta in sospensione e arretrando, vale il pareggio del Bnei, che approfitta dell’uscita scriteriata del portiere e del difensore sulla linea che litiga con la traversa. La partita è riaperta, dopodiché non c’è più partita. Quelli di Sakhnin trovano il 2-1 in contropiede: una palla sparata via dalla linea difensiva finisce all’unico attaccante sulla trequarti, questo la addomestica mentre il portiere dell’Hapoel dimostra di essere né più né meno quello “ammirato” prima: esce, non esce, esce, intanto la palla entra. Da qui, è solo Bnei: arriva il terzo gol su diagonale rasoterra da destra e il quarto su calcio di rigore. È finita. La coppa israeliana è araba.

Questo trionfo dà la facoltà di partecipare alla Coppa UEFA, ma il Bnei viene eliminato al primo turno dal molto più forte Newcastle United: gli inglesi vincono 2-0 con doppietta di Patrick Kluivert, ai tempi già lontano dai livelli di Barcellona; a un certo punto dell’incontro l’olandese subisce fallo, Nicky Butt gli fa giustizia e finisce sotto la doccia a mezz’ora dalla fine. Comunque sia, il Bnei è la prima società araba a disputare una delle due maggiori competizioni europee. La seconda e ultima apparizione fuori Israele avviene quattro anni dopo: grazie al piazzamento in campionato, il Bnei è ammesso al secondo turno della coppa Intertoto. Nel luglio del 2008 si sbarazza del Renova, 3-1 in Macedonia e 1-0 a Sakhnin; il terzo turno è proibitivo, il Deportivo La Corunña vince 3-1 in Israele e 1-0 in Galizia, e anche questa bella esperienza con sfondo UEFA finisce.

Tornando alla storica Coppa di Stato del 2004, allora e ancora oggi, per molti tifosi rivali (e israeliani) il titolo del Bnei è come uno smacco, una schiaffo al calcio nazionale; il club è spesso oggetto di insulti e aggressioni da parte dei tifosi delle altre squadre, principalmente per il Dna arabo(e “peggio” ancora perché vincente dieci anni fa). Ogni match lontano da Sakhnin diventa un derby dei livelli più bassi: non è raro che i calciatori arabi siano presi di mira con cori e striscioni anti-musulmani.

L’odio religioso prevale su quello sportivo, tant’è che i più acerrimi antagonisti del Bnei non sono concittadini. Il nemico numero risponde al nome di Beitar Jerusalem: il centro sportivo dista più di centocinquanta chilometri dalla Galilea, la connotazione politica è vicina alla destra sionista e ultranazionalista e mai i loro dirigenti hanno ingaggiato un calciatore arabo. Per le posizioni razziste e anti-islamiche della tifoseria, il Beitar ha ricevuto penalizzazioni sportive (sottrazione punti in classifica, incontri da giocare a porte chiuse e sanzioni pecuniarie) da parte della Commissione Disciplinare della Federazione israeliana. Un episodio su tutti: il 26 gennaio 2013, a meno uno dal Giorno della Memoria, si gioca Beitar – Bnei Yehuda e i tifosi di casa intonano cori razzisti ed espongono striscioni simili per protestare contro l’ingaggio di giocatori arabi.

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«Beitar puro per sempre»

Quel che accade quando il Bnei Sakhnin fa visita al Teddy Stadium di Gerusalemme è impressionante: nulla a che vedere con le italiane discriminazioni territoriali, qui gli insulti sono pesantemente razzisti, prendono il via al calcio d’inizio e non terminano prima del novantesimo minuto; quando le cose vanno peggio, la violenza diventa protagonista contro persone e cose. Nell’ultimo scontro diretto del 23 novembre scorso , la battaglia prende il via tra i calciatori: durante una sostituzione, spintoni, scontri e sciocche perdite di tempo dei protagonisti di fatto impediscono all’arbitro e agli assistenti di far disputare la gara dal minuto 86 al minuto 96; il clima accende i tifosi sugli spalti e tutto sommato impedisce la ripresa del gioco.

Il simbolo di queste “minima moralia” è l’arabo-israeliano del Bnei, Abbas Suan, tra l’altro il primo di questa etnia a finire sulle prestigiose pagine di Sport Illustrated: unanimemente considerato uno dei migliori calciatori dello Stato, quasi diventa eroe nazionale quando segna il gol del pareggio di Israele contro l’Irlanda, però non sufficiente per la qualificazione ai Mondiali di Germania 2006. L’evento gli porta in dote un importante contratto biennale col Maccabi Haifa; dopo una stagione, però, si trasferisce a Kiryat Shmona, la città dei caduti arabi nell’attacco del 1920 a Tel Hai; nel 2009 fa ritorno a casa, a Sakhnin. Quella rete non consegna alcun applauso israeliano a Suan: durante le partite di campionato, specie in Bnei contro Beitar, è il principale bersaglio razzista: «Suan, tu non ci rappresenti» e «Noi odiamo tutti gli arabi» sono gli striscioni esposti più comuni. Oggi Suan è il portavoce di Subaru Automobili nello Stato di Israele, è un musulmano devoto, non nega di vivere con difficoltà l’abbraccio della cultura ebraica nel suo Paese ed è un “ibrido”: «In realtà sono palestinese, ho molti fratelli e molti cugini che abitano i paesi arabi. Però sono israeliano, perché vivo qui e non voglio abbandonare la mia terra».

Suan, e non è il solo, rifiuta di cantare l’inno nazionale israeliano: il testo di “Hatikvah” esprime la speranza del popolo ebraico di tornare un giorno in Israele, come profetizzato nella Bibbia. La storia del calciatore è diventata parte di un film-documentario, After the Cup: Sons of Sakhnin United, che descrive la vittoria della coppa nazionale d’Israele da parte araba.

Il calcio non è a margine, ma è dentro la guerra tra Israele e Palestina. Quasi un anno fa, due giocatori palestinesi di diciannove e diciassette anni sono stati attaccati dalle truppe israeliane in Cisgiordania; colpiti ai piedi da alcuni proiettili e attaccati dai cani dell’esercito, hanno compromesso la propria carriera agonistica.

Durante un bombardamento nella Striscia di Gaza dell’agosto 2014 ha perso la vitaAhed Zaqout, una leggenda della Palestina come calciatore e da poco allenatore: ad agosto, mentre dorme, il suo appartamento viene colpito e salta in aria; negli ultimi tempi Zaqout è stato anche conduttore televisivo di un programma arabo a Gaza. Tornando ai tempi più recenti, quanto accade prima e soprattutto durante e dopo Beitar Jerusalem – Bnei Sakhni è tanto assurdo quanto ripetibile. Ogni stagione la domanda viene auto-posta: “Giocare o no questa partita?”. Alla fine, è sempre sì. Allo stadio di Gerusalemme entrano 5.000 tifosi: circa 600 sono gli ospiti del Bnei, comunque in minoranza rispetto ai 900 poliziotti (uno ogni cinque tifosi). Uno dei cori più cantati dalla curva del Beitar è “Maometto è morto”. Un paio di aneddoti per comprendere il livello di razzismo di questo gruppo di tifosi: nel 2013 hanno incendiato gli uffici del club che tifano, perché aveva acquistato due ceceni; nell’anno precedente, hanno distrutto un centro commerciale della città, picchiato i dipendenti arabi e sputato addosso ad alcune donne. Il primo ministro israeliano Netanyahu, tifoso dichiarato del Beitar, è intervenuto a riguardo: «Le ultime cose che vogliamo sono la violenza e il razzismo […] Abbiamo visto un estremismo che troviamo inaccettabile. Senza dubbio, tutto questo deve essere sradicato dal mondo dello sport».

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Tre mesi fa è iniziata la stagione 2014/15 del campionato israeliano e il Bnei resta l’unico club arabo contro i tredici israeliani. In ordine cronologico, l’ultimo incidente è stato causato dai tifosi musulmani di Sakhnin che sventolano ogni domenica bandiere palestinesi allo stadio; d’altra parte, il gruppo organizzato del Beitar “La Familia” strappa le pagine del Corano e le brucia.

Un paio di mesi fa il Bnei è finito nel caos per la cerimonia di ringraziamento adAzmi Bishara, ex deputato arabo-israeliano scappato in Qatar nel 2007 perché accusato di aver collaborato con Hezbollah. In Medio Oriente, Bishara ha persuaso l’emiro ottenendo due milioni di dollari per il Bnei: l’impianto di Sakhnin si chiama Doha Stadium non a caso. La cerimonia, già di per sé molto rilevante, è stata sottolineata dagli ultras del Bnei con una coreografia raffigurante la moschea di Al Aqsa, il terzo luogo più sacro dell’Islam.

Le dinamiche sportive arabo-israeliane sono queste, più (spesso) o meno; invero, il calcio è la faccia meno voluminosa della decennale questione storico-politico-religiosa. La FIFA ne è a conoscenza e si è espressa ufficialmente a riguardo: «I gravi problemi tra Israele e Palestina intercorrono da oltre cinquant’anni e per il nostro organismo è impossibile risolvere situazioni del genere in un anno o due».

Nell’ultima stagione il Bnei si è classificato al sesto posto, ma ogni anno al club tocca una battaglia supplementare oltre quella sul campo: da alcune parti, dare tutto e vincere le partite non è sempre cosa buona e accettata.