Tifo / Un cuore granata

Una personalissima dichiarazione d'amore al Toro di uno che a Torino non ci è nato né ci ha vissuto. Come nasce una fede, come si mantiene nonostante le sconfitte, come si aggrappa alle radici familiari.

 

Inizia oggi una serie di articoli sul tifo e le sue sfaccettature. Soggettivi, spudorati, partigiani, come è il tifo da sempre. Parleremo di squadre, ma anche di genitori, di provincia e di estero. 

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Tifosi del Torino nella partita contro il Parma, ottobre 2012. Claudio Villa/Getty Images
Tifosi del Torino nella partita contro il Parma, ottobre 2012. Claudio Villa/Getty Images

Quando ho iniziato a tifare il Torino? Non c’è una risposta, perché è una domanda sull’origine. E io non so da dove vengo. La memoria può spingersi come una torcia fino ad un certo punto. Fino a quando la luce diventa intermittente. Poi non c’è più nulla. Solo buio. Il Torino è la squadra che tifava mio fratello, più grande di me di cinque anni. Questo lo so. Ma quando è iniziato? E chi ero io, prima, in quella pappa morbida, senza tempo, quando ancora non avevo cominciato a parlare, a contare con le dita, a formarmi, a diventare, fra tante cose, anche un tifoso? Prima di radicare nella polpa del cuore l’affezione determinata per un colore e una squadra? Un lunedì mattina di effervescenza, dopo la vittoria col Bilbao e il Napoli, dopo dodici risultati utili in campionato, ho scritto a mio fratello. Gli ho chiesto: ma tu ti ricordi, Massimo? Eccetera eccetera. Tu lo sai quando o perché hai iniziato a tenere per il Toro? Mi ha risposto che dev’essere stato non per via dello scudetto del 1976 – l’ultimo vinto – ma, stranamente, per il secondo posto in campionato dell’anno successivo. Dietro la Juventus. Un punto di distacco. Quando ho letto nel testo della mail la cifra “1977”, ho provato un breve straniamento. Io e mio fratello esistevamo già, nel 1977? Non mi sembrava vero. Ma è tutto documentato da un certo numero di fotografie. Da quel mondo di cose obsoleto e affettuoso in cui ci facciamo scaldare dalle braccia di nostro padre e nostra madre. Quanto avrà ruotato la Terra, dal 1977 ad oggi, sbocciando e sfiorendo ad ogni giro?

Sono nato in una piccola città dell’alta Toscana, non sono per niente alto, sono miope e ho gli occhi verdi, sto perdendo i capelli, ho una cicatrice vicino all’ombelico, mi piace leggere, mi piace scrivere, mi piace ascoltare la musica – specie la colonna sonora de Il petroliere mi piacciono le gambe delle donne, penso alla pizza ogni giorno, detesto Jimmy Fallon, sono spesso molto infelice, incline alla dipendenza affettiva, ma non estraneo al mondo che ruota, ai volti delle persone che incontro per strada. E in mezzo a questi dati che mischiati mi formano, sopra queste scaglie, si rifrange sempre un po’ la luce, almeno un piccolo lampo, della mia fede: il Toro, chiodo piantato nella testa. Da qualche anno un po’ sul punto di uscire dal buco.

Nelle scuole, nelle piazze dove sono cresciuto, nessuno tifava per il Torino. Eccetto pochissimi che ho finito per conoscere e reputare, dentro di me, affiliati ad una religione abbastanza esotica ed arcana. Come gli yazidi.

Due episodi. Il primo è ambientato in una strada secondaria, una domenica pomeriggio in autunno. Avevo sei o sette anni e attraversavo la strada, deserta, seguendo alla radiolina la partita del Torino. Il boato dello stadio nell’orecchio. Passa una macchina, con un uomo e una donna a bordo, e m’investe. Un mese e mezzo di gesso, coccole e la ricalcificazione di una tibia e di un perone. Nello stesso periodo il maggiolino Volkswagen di mio padre aveva incollato sul lunotto un adesivo Forza Toro. Il secondo episodio si svolge in una gastronomia. A rammentarlo, oggi, mi ricorda i negozi e i bottegai di Newark descritti in Pastorale americana. Era un posto dove mi portava ogni tanto mio nonno. In fondo non aveva niente a che fare con Philip Roth. Il proprietario della gastronomia si chiamava Mannuccio. Era un amico di mio nonno. Entrambi erano commercianti e avevano un piccolo ruolo nel Partito Comunista locale. La gastronomia era anche la sede di un club granata e nel civico accanto, per combinazione, c’era una sede della Toro Assicurazioni, sormontata da un’insegna decorata con un disegno del bue con le corna. Il club gastronomia e gli uffici dell’Assicurazione erano per me due proiezioni stereometriche di una stessa deità. Quando entravo, Mannuccio mi chiamava dietro il bancone, mi appoggiava la testa sul tagliere, tenendola per un ciuffo e schiacciandola di fronte alla vetrina con i salami e i prosciutti. Poi alzava il coltello sporco di grasso e me lo puntava all’orecchio, che con il pollice teneva steso come una striscia di pasta sopra il legno del tagliere. Quindi mi chiedeva, col sigaro spento in bocca, di recitargli la formazione del Torino. «Martina, Danova, Francini, Galbiati, Leo Junior…». Allora posava il coltello, apriva e chiudeva una porta a soffietto e tornava con un gagliardetto e la foto della squadra autografata. Perciò uscivo dalla gastronomia comunicato. Mannuccio aveva fortificato il cromosoma e innervato in profondità la mia sessualità calcistica. C’è un terzo episodio. O meglio: una serie di episodi che si ripetono nell’infanzia. Giravo per le strade vicino alla casa dove sono nato. Giocavo a calcio in una piazza, con i miei amici di un tempo. E ogni tanto vedevamo spuntare Dante Bertoneri, col borsone e vestito in tuta d’acetato: lo fissavamo, col pallone sotto la punta delle scarpe, e lui ci ricambiava un sorriso sincero. Bertoneri era una grande promessa del Toro. Abitava proprio vicino a casa mia. Con una sua storia particolare, forse troppo emotivo, inadatto al mercato: una vittima di Luciano Moggi –  ha detto di sé Bertoneri – all’epoca in cui Moggi era un dirigente del Torino.

Per varie ragioni, crescendo, mi sono disaffezionato al calcio. Fino a un certo punto ho continuato a sognarmi il derby a ogni vigilia. Poi sono diventato troppo grande. Ho seguito sempre meno il campionato, anche perché il Toro aveva cominciato a scomparire in Serie B e a risalire in A per fare dei tornei orrendi. Però non potevo passare la domenica senza informarmi sul risultato della partita. Quando il Toro vince, oggi come allora, provo una felicità – molto privata – che non comunico a nessuno: una specie di piccola fosforescente medusa che si gonfia sotto lo sterno. Se perdeva mi sentivo bastonato. Tantomeno ne facevo parola con qualcuno. Al bar sono sempre l’unico granata, quando ogni tanto, a Milano, vado a vedermi un incontro, con la birra che sgasa nel boccale, i pixel verdi dello schermo e sul tavolo la ciotola di patatine. Se pareggia mi sento improvvisamente vuoto. Esco dal bar, solo e impossibile da comprendere. Se perde mi sento peggio, illividito dai neon blu della saletta Mediaset Premium e con la lingua ingrassata dalle patatine. Come l’ultima volta, quando abbiamo perso con lo Zenit a San Pietroburgo.

Tifosi del Torino commemorano le vittime di Superga nel 65° anniversario,  maggio 2014.  Mario Carlini/Iguana Press/Getty Images
Tifosi del Torino commemorano le vittime di Superga nel 65° anniversario, maggio 2014. Mario Carlini/Iguana Press/Getty Images

Del Toro mi è rimasto questo, mescolato nei fondamenti: il piacere di perdere. La sconfitta come un fatto da rivendicare. L’aereo di Superga sbriciolato nelle ossa insieme al calcio. Anche in queste settimane, dopo la vittoria in Spagna col Bilbao e dopo i dodici risultati utili consecutivi in campionato, che mi hanno spinto a digitare quel messaggio a mio fratello. Questa cosa si è impastata al carattere, strutturalmente, e credo abbia deciso, in gran parte, la mia avversione epidermica per Matteo Renzi, uno a cui piace sventolare il 40,8% di una vittoria elettorale. Dentro di me lo categorizzo e calcolo come juventino. E chi sono da sempre gli juventini, giù, nel punto più umido e infossato della mia coscienza, dove i totem restano fissi e immobili come statue? Sono bambini viziati, che l’avvocato Agnelli porta ogni sabato in montagna a sciare. Non ho potuto che provare, per tutta la vita, una diffidenza invincibile, radicale. Lavorando in Tv, in un programma di La7, un giorno ho incontrato il proprietario della rete, il presidente del Torino Urbano Cairo. Ci siamo ritrovati dentro una piccola stanza per una sbicchierata, insieme a un mucchio di altra gente. Come in una pagina di copione firmato in basso Salce-Villaggio. Tappi di spumante contro un soffitto basso e il botto che ti entra nelle orecchie. Col velo giallo che si forma sull’occhio al terzo bicchiere, vedevo Cairo avvolto da una conchiglia di luce, tra quelle giacche che lo sfioravano e le mani che si tendevano per stringere la sua. Era il periodo magico di Alessio Cerci e Ciro Immobile. Lui era il mio capo. L’ho capito da animale. Nelle onde e nel magnetismo. Con il naso e l’olfatto. Era il superiore di Mannuccio. Gli ho detto «Grazie, Presidente», mentre tenevamo entrambi il bicchiere di plastica in mano. Mi ha rivolto un breve sorriso, nient’altro. Ero comunque entrato nel suo campo visivo. C’era stato un contatto. La mia immagine era caduta come un sassolino in fondo alla sua pupilla. Fino a diventare piccola come un quark. Ma la storia non finisce qui. Potrei un giorno anche smettere di tifare Toro e diventare una persona felice.