Un tal Lucas

Un cognome importante, Gatti, come Hugo detto “el loco”, portiere icona del calcio argentino negli anni ’70; un secondo nome altisonante, Cassius, in onore del pugile Mohamed Alì. Una vita spesa tra calcio giocato, tango e il sogno d’allenare. Con l’Italia un po’ nel cuore, e un po’ no. Un incontro poco ordinario.

Veduta romantica del Fútbol Club di Roma
Veduta romantica del Fútbol Club di Roma

Dal campo centrale del Fútbol Club si intravedono i pinnacoli liberty dei lampioni di Corso Francia. È il primo dettaglio che mi salta agli occhi quando mi siedo in tribuna. Sono arrivato con mezz’ora d’anticipo all’appuntamento. Sul prato sintetico, è mezzogiorno e mezzo, si sfidano corpi che trasudano benessere; li immagino emanare profumi da classe dirigente. Chi gioca a calciotto di mercoledì all’ora di pranzo?

Nessuno porta la barba; vola qualche bestemmia. Non devono essere operatori dell’industria culturale. Li vedo benissimo in scene da fine estate, a tavola, in certi giardini di certe ville di Capalbio. Gira voce che sotto le panchine, nel campo da calciotto, ci siano i carica-batterie per gli iPhone. Ma non so se è vero. Il bar del circolo è qualcosa a metà tra una bottega bio e un locale glam. In consultazione ci sono copie di Mentors & Protegés, la rivista di Rolex. Lampadari con grosse lampadine dalla resistenza a vista, tavoli bassi e panche, tutto wengé. Piante esotiche e sedie Kartell. L’appuntamento è per pranzo davanti allo Stadio Olimpico, che sarebbe il campo di calcetto n.3. Tutti i prati di gioco, al Fútbol Club, portano i nomi di stadi veri, forse per favorire il processo di immedesimazione.

Quando stringo la mano a Lucas Cassius Gatti non posso fare a meno di notare una certa somiglianza con Miralem Pjanić. Lucas è un ex calciatore ormai da dieci anni. Durante la sua carriera ha giocato in Argentina, Scozia, Spagna. In Italia mai, ma scientemente; anche se alla fine in un modo o nell’altro ha scelto il nostro paese. Per viverci.

Durante un matrimonio molto frequentato da argentini mi è capitato di parlare con un’invitata, Chiara S., di un pezzo che stavo scrivendo per il nuovo numero di Undici, un pezzo sul rapporto calcistico tra Italia e Argentina, che mi sembrava un argomento molto in tema con il mood della cerimonia, e lei mi ha detto «ma sai che conosco il figlio di Hugo Gatti?» (il motivo per cui i due si conoscono è ancora troppo presto per svelarlo). Un’ora dopo la consegna delle bomboniere mi ero già scambiato due mail con Lucas, e avevamo fissato un appuntamento. Al Fútbol Club, di mercoledì, per pranzo.

Hugo Gatti era (ed è) soprannominato el loco. È stato uno dei personaggi fútbolistici più interessanti, controversi e pittoreschi del calcio argentino nelle decadi ’60-’70-’80. Loco, “pazzo”, quando è un’etichetta che viene affibbiata a un portiere fa sempre rima con uscite palla al piede, interventi avventati, colpi a sorpresa: si usa per gente come Higuita, Chilavert, Jorge Campos. Oggi non si dice più, di un portiere che gioca con i piedi, quasi da libero, che è loco: si fa subito il paragone con Neuer.

 


814 partite nel calcio argentino: ancora oggi un record. Nel video ci sono un paio di giocate a sensazione, certe addirittura suicide, e in generale si nota la predisposizione di Hugo al ruolo di anchorman. Lucas mi ha detto di non ricordare se il ragazzino che bacia nell’ultimo fotogramma, con una maglia gialla, sia lui o suo fratello Federico, anche lui ex calciatore con un passato nelle giovanili del River Plate. «Io volevo giocare al calcio», dice Lucas «perché… ero figlio di chi ero figlio, ed era tutto quasi un’ovvietà, giocare al calcio».

Lucas ha iniziato nelle giovanili dell’Argentinos Juniors: una fucina che ha forgiato, a ritroso nel tempo, Biglia, Redondo, Riquelme, ma soprattutto Diego Armando Maradona. Giocava sulla fascia sinistra, a centrocampo; con il tempo, mi racconta, avrebbe arretrato la sua zona d’influenza fino a trasformarsi in quello che oggi chiamiamo esterno di difesa, o terzino, dipende dal fascio di connotazioni che vogliamo sprigionare. «Eravamo una categoria… io penso che dopo quella di Maradona, la successiva squadra più forte che l’Argentinos Juniors abbia avuto fosse quella: c’eravamo io, Riquelme, La Paglia, Herrón, Cristian Ledesma. È stata una categoria unica».

È ai tempi dell’Argentinos Jrs che Lucas, per la prima volta, viene in Italia: «A Gradisca, vicino Venezia. Sono venuto per giocare un Mundial per club U-17. Certo che abbiamo vinto. Abbiamo giocato contro il Parma, l’Everton, in finale contro il Borussia Dortmund. L’arbitro della finale (era il 1994, nda) era Collina. Hai presente, il pelato. Sette lingue, parla. Non potevamo insultarlo in nessuno lingua. Mi ricordo che a un certo punto gli ho detto “pelado, la concha de tu madre”. E lui: “La concha de quién?”. Collina…».

Sulla Bombonera aleggiava lo spirito mitico del padre, foriero di grandi aspettative; e nello spogliatoio, come compagni, Lucas aveva Caniggia, Palermo, Maradona.

Lucas Cassius Gatti
Non sarebbe stato facile (per nessuno) trovare spazio in quel Boca

Ovviamente durante quel torneo viene approcciato, come gli altri compagni di squadra, da scout e osservatori. Ma Lucas aveva un’idea molto precisa del tracciato che avrebbe dovuto seguire la sua carriera. «Tutto mi spingeva a giocare al calcio; solo che dopo mi sono trovato di fronte al fatto che il calcio che io volevo non era quello all’interno del quale mi sono trovato come professionista». Va detto che il salto di categoria, dalle giovanili dell’Argentinos alla prima squadra del Boca (Lucas è rientrato nel trasferimento di massa di giovani calciatori dell’Argentinos al Boca voluto da Bilardo, nda), sarebbe stato annichilente per tutti. Sulla Bombonera aleggiava lo spirito mitico del padre, foriero di grandi aspettative; e nello spogliatoio, come compagni di squadra, Lucas aveva Claudio Caniggia, Martin Palermo, e Diego Armando Maradona nella sua ultima stagione.

«A me il fatto di Hugo m’ha giocato contro: mio padre parla di tutto e tutti senza peli sulla lingua. Ma l’unico colpevole sono stato io: devi stare all’altezza mentalmente, e io fino a vent’anni lo soffrivo, questo fatto di giocare da professionista, non ero all’altezza. Mi rodevano molte cose, non me lo godevo così tanto. Ero condizionato, psicologicamente forse proprio non lo capivo il calcio. E nel professionismo cominci a vedere cose che… per me è stata una rottura di palle».

Per comprendere il Lucas calciatore è fondamentale capire il contesto in cui è cresciuto. Quello fuori dal campo, intendo dire. Che ha finito per impostare in altezza le asticelle delle aspettative riposte in lui, ma anche a cristallizzare opinioni.

«Tu devi pensare che il mio mondo, la mia vita di tutti i giorni, era fatto di cene con persone di calcio: veniva Passarella e mi raccontava com’è l’Italia. Non è che lo seguissi solo in tv: avevo testimonianze dirette. E Passarella mi raccontava qual era la mentalità, come si giocava, la tattica (nel pronunciare la parola “tattica” la sua voce si alza di tono, nda): per me non è mai stata attraente, l’Italia, dal punto di vista calcistico». «E quindi no: non mi sarebbe piaciuto venire a giocare qua. Io l’Italia la amo, intendiamoci: ma per viverci. Per giocare al calcio no. La mentalità calcistica italiana, per me, è corta. Non è solo per via del catenaccio, ma proprio per tutta una maniera di intendere il calcio». «Il calcio, per me, è il pallone, il gioco: qua è il risultato. Sono due punti di vista diversi. Tutti, che c’entra, alla fine vogliono vincere: ma qua si tratta di vincere a tutti i costi». «La mia cultura calcistica diceva che per forza non si vince: si vince giocando bene. Qua conta il risultato, non quello che ti fa arrivare al risultato. E allora io in questi contesti non ho nulla da dare, e loro non hanno nulla da dare a me».

Dopo l’esperienza non proprio esaltante al Boca, Lucas sceglie di cambiare aria. Con l’unica certezza di non voler venire in Italia. «Avevo offerte per rimanere in Argentina, qualcosa dal Messico: ma io volevo l’Europa». «Sono stato un mese al Bolton, mi sono allenato con loro ma niente; poi, tramite Claudio Caniggia, che mi ha detto “prova là”, sono andato al Dundee United». Che all’epoca era allenato da Ivano Bonetti. «In Europa era tutto diverso: mio padre nessuno sapeva chi fosse, è cominciato un altro processo. Dovevo sviluppare un modo di capire il calcio a livello psicologico: nel calcio vero devi essere all’altezza per capire cosa fa per te e cosa no. Io non ci sono riuscito». Nel tavolo dietro al nostro ci sono, tra gli altri, Sebastiano Somma (che ho visto arrivare con un trolley della Nazionale Italiana Attori) e Enzo Decaro. A turno leggono a voce alta poesie per Massimo Troisi, che proprio il giorno in cui ci incontriamo Lucas e io avrebbe festeggiato il compleanno. «Ah, Ricomincio da tre», dice Lucas. «Quante volte l’avrò visto? Almeno dieci. L’italiano l’ho imparato là, da quel film».

Però, di venire a giocare in Italia, neppure un’unghia di voglia. E quindi, dopo la Scozia, Lucas sceglie la Spagna: l’Extremadura, più precisamente, dove gioca per una stagione al Badajóz, prima di chiudere la carriera al Don Benito. «In Spagna ho giocato al massimo in Segunda, mai nella Liga. In Segunda e in Segunda B. Ma anche là, la mentalità della squadra in cui stavo io era molto povera». A questo punto mi sono fatto un’idea della visione calcistica di Lucas: utopica, la definirei con un solo aggettivo, tranciante. «Ho avuto allenatori molto scarsi. Avevano paura. È anche per questo che ho perso entusiasmo: per via della mentalità. Io litigavo con gli allenatori: se devo giocare così faccio un’altra cosa. Il calcio te lo devi godere, non puoi soffrire in allenamento, non si può. Non puoi vederlo come un lavoro, è un gioco». «Quello che lo fa diventare un lavoro è il fatto che ti pagano. Però non è davvero un lavoro. Se quello che fai ti piace, non lo fai per obbligo. È una scelta».

Ora però ci sono dei punti che non mi tornano: Lucas, è innegabile, è stato iniziato al calcio dal padre, dal contesto in cui si è trovato immerso. Quindi non era vera vocazione? «La vocazione se non ce l’hai te la mettono». «Io, per esempio, me ne sono accorto tardi quanto mi piaceva: ho cominciato perché ero figlio di chi ero figlio, i piedi erano a posto… che fai non giochi? Tu devi giocare! Però avrei voluto giocare al calcio essendo consapevole di quanto mi piacesse, non perché dovevo». Insomma: è una scelta oppure no?

«Per me la cosa più importante, alla fine, sono i valori: e come sei fatto giochi». È interessante: una frase del genere, «Si gioca come si vive», l’ha detta anche Burdisso, una volta, a Ranieri. Comincia a farsi largo, in me, il dubbio che sia una frase già detta da qualcuno di molto carismatico prima di loro, e di molto sconosciuto in Italia. Per quanto ne so io potrebbe averla detta anche Hugo el loco Gatti. «Per questo la cosa davvero importante è puntare sulla formazione dei bambini. Io da bambino sono stato formato. Lì in Argentina non è che abbiamo istruttori, allenatori con l’iPad: abbiamo i vecchietti che ti guardano giocare e ti dicono tu sai giocare e tu no. Magari non sanno scrivere né leggere, ma sono uomini di calcio. Il calcio soffre questo cambio di tempi, ragazzi tutti belli con l’iPad che li vedi insegnare calcio a ragazzini di 12-13 anni: gli insegnano a perseguire un risultato che non è il loro, ma quello degli allenatori».

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Una foto dal Facebook di Lucas scattata al termine del corso per allenatori UEFA B

Quando il discorso fluisce verso il mestiere dell’allenatore, a Lucas si illuminano gli occhi. Ha superato l’esame per prendere il patentino UEFA B: ora può allenare fino alla quarta serie. Però mi dice che il suo progetto è quello di prendere anche l’UEFA A, e poi l’UEFA Pro. Vuole diventare allenatore perché nella sua concezione del calcio è al mister che spetta in primis il ruolo di formatore: di dettami tattici, ma prima ancora di valori. Si confessa bielsista e zemaniano: dei tecnici ammira la coerenza, l’avere un’idea di fondo, da perseguire. «I calciatori sono sempre più importanti degli allenatori: se l’allenatore è bravo a fare il suo mestiere, la domenica può anche rimanere a casa, non andarci allo stadio, se è riuscito a trasmettere la sua idea». Un’altra fonte di ispirazione? El Flaco Menotti: casualità, un altro che in Italia non si è trovato poi così bene.

(Quando Menotti fa capolino nel discorso non riesco a resistere alla tentazione di chiedergli se è vero, poi, che l’esclusione di suo padre dalla rosa del Mundial ’78 fosse davvero per motivi politici: si diceva che le idee di Gatti cozzassero con quelle del regime di Videla, e che a Menotti sia stato imposto di scegliere Fillol, più connivente, come titolare tra i pali. «No, ma Menotti aveva un rapporto buono con papà. Mentre Bilardo, invece… Però si è davvero rotto il menisco. Per come giocava Menotti, aveva bisogno di un portiere-giocatore. Mio padre in quel momento non si esponeva. Era peggio Menotti, per dire. Mio padre non si esprimeva. Dopo, sì. Ma prima no, e Menotti lo dice pure: il portiere titolare sarebbe stato lui, se non si fosse rotto il ginocchio». Devo dire che sono rimasto un po’ deluso).

La storia di come Lucas sia stato folgorato sulla via di Damasco, di come abbia capito che la sua strada era allenare, formare, ha del poetico. Nel 2005, quando ha smesso di giocare, è diventato agente FIFA: «Sì ma la mia carriera come procuratore è durata poco: pensavo di poter dare qualcosa, di metterci del mio, ma alla fine sei un venditore. Di persone, peraltro. Volevo curare bambini, giovani, crescergli, stargli vicino: trovargli squadre, piazzarli, ma non con brutalità, tipo “tu giochi bene, ok; tu giochi male, vaffanculo”. E poi non si può parlare di calcio con presidenti, direttivi, con te che hai comprato un club ma non sai un cazzo di come funziona il pallone». Poi si è separato dalla moglie, ha avuto un po’ di casini familiari: aveva bisogno di cambiamento. E allora si è messo a insegnare tango.

Al suo fianco, mentre chiacchieriamo, c’è Daniela, la sua compagna. È bellissima, esile come un giunco e con uno sguardo semitico, esotico. «Nel tango ho trovato uno psicologo: mi fa bene per tutti i problemi. Il tango, poi, mi ha ricollegato un po’ con le radici, e mi ha fatto conoscere lei, mi ha fatto capire che l’Italia, per me, è il posto mio: dopo l’Argentina, l’Italia».

Lei si preoccupa che la registrazione stia andando per il verso giusto: forse ha capito che il climax sta per arrivare, ed in effetti è un po’ come se tutti i fili, qua, si reincontrassero. «E insomma in Spagna, smesso di giocare, sono diventato pazzo per il tango, e ho cominciato a capire, a voler capire questo ballo. Se c’è una cosa che mi ha insegnato è come insegnare. Anche quello, insegnare il tango, a tante persone, per cinque sei anni mi ha spinto a diventare allenatore: sono convinto di questa cosa. Il tango ha avuto questo ruolo nella mia vita: mi ha fatto conoscere lei, e poi mi ha fatto fare questo clic nel cervello di diventare allenatore».

Vorrei farlo parlare di Palermo, di Riquelme, di Maradona chiusi tutti insieme dentro uno spogliatoio. Ma sarebbe un peccato, perdermi questo volo d’aquila sulla sua Weltanschaaung calcistica. «Il ballo veicola un’emozione: ma l’epicentro è sempre trasmettere un’idea, un sentimento. Questo deve fare l’allenatore: deve convincere dal suo sapere i giocatori – che si sa, sono una razza bastarda. Ti devi mettere davanti a cinquanta persone e convincerli di un’idea. Insegnare tango mi ha aiutato a sviluppare la capacità di mettermi davanti a un gruppo e raccontare una storia».

Vuole diventare allenatore perché nella sua concezione del calcio è al mister che spetta il ruolo di formatore: di dettami tattici, ma prima ancora di valori.

Alle nostre spalle, Sebastiano Somma ha finito di leggere un testo molto lungo e molto partecipato di Massimo. Tutti lo applaudono, si alzano i calici. Noi continuiamo a parlare, ma mentre il discorso accarezza temi come l’eccessiva ingerenza del business nel gioco («Il calcio si divide tra calciatori, che è l’unica cosa che conta, è il resto, che è tutta ansia. È come la bistecca con l’insalata: la bistecca il calciatore, l’insalata il resto. Ma l’insalata non può mangiarsi la bistecca»), la brutalizzazione dei calendari-carnaio imposti dalla FIFA, la questione degli stadi vuoti per colpa delle televisioni («lo hai mai letto Esse est percipi, un racconto di Borges e Bioy Casares, che parla proprio di questo, solo che è del ’67?», gli chiedo; «Eh ma Borges è mooooooolto metaforico», riflette lui; poi dopo un po’ aggiunge «‘na rottura de palle, lègge Borges!»), ho come l’impressione che il nocciolo sia già fuoriuscito a metà della nostra conversazione, e che ora lo stiamo solo scarnificando.

Mi chiedo il perché di tutta questa acribia contro il calcio italiano, da parte di Lucas. Non sono proprio sicuro che il revanscismo delle sue idee, molto romantiche, molto argentine, molto Bei Tempi Andati™, non si adatti poi al nostro calcio, a tutti i tipi di calcio. Da quand’è che il concetto che ne fonda le basi, «Se tu formi, tu vinci. Ma se tu non formi, non vinci, perché vince chi ha un’idea» ci è diventato estraneo? Che le sue considerazioni portino all’amara constatazione che per chi professa le idee, nel calcio, in Italia, non ci sia più spazio?

Oggi Lucas è a Madrid. Si è trasferito due giorni dopo la nostra intervista. Ha una squadra da allenare, un settore giovanile, è molto felice, mi scrive in mail. Non riesco a non pensare a quanto questo Paese sia imbattibile nel mettere in fuga i cervelli. Anche quelli di importazione, anche quello di Lucas.

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