The stars of track and field

Una lunga intervista con Alessia Trost, medaglia d'argento nel salto in alto agli Europei Indoor di Praga, la speranza dell'atletica italiana in vista di Rio 2016.

“The Stars of Track and Field” è una canzone della band scozzese Belle and Sebastian, uscita nel 1996 e contenuta nell’album If you’re feeling sinister. Per inciso, è uno dei miei dischi preferiti. Non saprei dire se quella è una delle mie canzoni preferite dell’album, perché sono tutte belle, senza esclusioni. La canzone non si decifra semplicemente: sembra che si parli di una ragazza che fa atletica, una ragazza molto brava sul campo ma meno brava negli studi. Poi sembra che parli di un giornalista, o uno scrittore, che chiede alla ragazza: «Could I write a piece about you now that you’ve made it?», ora che ce l’ha fatta, che ha sfondato. Mi immagino che la ragazza sia bella, ma non è detto. È colpa della dolcezza delle immagini che passano dalla voce e dalla melodia dei Belle and Sebastian, un immaginario vintage di pelli bianche e lentiggini e tute di velour, forse un immaginario anche scontato ma di cui è facile innamorarsi.

Pochi giorni fa mi è successa una delle cose che (forse) dice la canzone: ho intervistato una “star of track and field”, e l’ho intervistata “now that she’s made it”. Non avevo mai intervistato un’atleta (dell’atletica), né conosco molto di atletica. Come molti, guardo le Olimpiadi, e poco altro. Ci sono specialità che mi piacciono di più (il salto in lungo, il salto in alto, il salto con l’asta, i 100 e i 400 metri) e altre che mi piacciono di meno (tutti i lanci, di peso, disco, giavellotto, e le corse più lente e lunghe: ma senza un motivo preciso). Ma quando mi hanno proposto di intervistare Alessia Trost ho detto: perché no? L’ho fatto principalmente per una questione stupida: perché mi ha fatto pensare a quella canzone dei Belle and Sebastian.

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Alessia Trost è una ragazza molto alta e giovane, quasi un metro e novanta e ventidue anni, e ha appena vinto la medaglia d’argento nel salto in alto femminile ai Campionato Europei indoor di atletica leggera in Repubblica Ceca. Non è sulla prima pagina dei quotidiani sportivi come se fosse un derby di Milano o Roma qualunque, ma nell’atletica leggera è un risultato notevole, uno di quei risultati che portano Alessia a diventare una “promessa” dell’atletica italiana. Alessia infatti lo è diventata.

Ho guardato il video del salto. Mentre lo speaker annuncia il suo nome, Alessia è inquadrata in un piano americano e sta disegnando con le mani il salto. Significa che sta simulando i passi, lo fa con le mani dritte davanti agli occhi, che poi, dopo i primi quattro passi, si inclinano in diagonale, e lei inclina un po’ la schiena e il collo e la testa, e poi scatta, sono gli ultimi due passi. Sembra che dica “ta-tà”. La telecamera si allarga, poi si stringe in un primo piano. Il pubblico sta applaudendo con quel ritmo, quel clap-clap che accelera sempre di più che si sente sempre nelle gare di atletica, Alessia porta ancora le mani davanti agli occhi, mi sembra che questa volta disegni solo i passi prima dello stacco, ha gli occhi spalancati, sembra quasi una danza sperimentale. Poi parte, fa quegli otto passi con le falcate lunghe un metro o forse di più, si inarca sulla sua sinistra e salta, supera l’asticella, il giudice alza la bandiera bianca. Rimbalza sul materasso, si rialza. Non si sente, ma urla. Dietro di lei mi sembra di vedere l’avversaria russa, Mariya Kuchina, che allarga le braccia in un gesto di delusione. Alessia ha appena saltato un metro e novantasette centimetri.

Quando risponde alla mia chiamata su Skype Alessia Trost abilita la videocamera. È una piccola cosa, ma non ci sono abituato: le interviste via Skype, di solito, funzionano come un’intervista normale, telefonica. Mi fa piacere. Vedo la sua giacca Nike bianca e viola e delle travi a vista sul soffitto e il sole che entra da una finestra a sinistra che non riesco a vedere. Alessia ha i capelli lunghi raccolti in una coda come a Praga prima del salto. Per prima cosa le chiedo del mese appena trascorso dall’argento europeo. Dice: «È stato un mese diverso rispetto a quelli precedenti, ho fatto poco l’atleta e più l’altro, quello che è legato al risultato, servizi fotografici, PR, però è stato un mese diverso, emozionante, bello. Sei abituato a una routine molto serrata, e all’improvviso torna questa banalità… mangi quello che vuoi, stai sveglio quanto vuoi, dormi quanto vuoi».

Avevo “studiato” i profili Facebook e Instagram di Alessia Trost, tra le foto di allenamento in cui si vedono i piedi infilati nelle ultime Nike Free, un video in cui solleva un bilanciere enorme e la cui sola idea del peso mi fa paura e mi ricorda l’ernia, un selfie sulla pista rossa di Praga. È una comunicazione attenta che mi fa pensare ad Alessia come a una ragazza smaliziata e matura, anche se poi c’è una frase che mi piace molto, e la vedo come una frase sincera, certo un bel copy, ma è un sincero status da ventunenne. Dice «cari sogni, stiamo lavorando per voi», e sotto c’è un video in bianco e nero di ragazzi che immagino anche loro ventenni che si allenano, corrono, saltano, atterrano. Non c’è musica, ma solo le voci e i rumori del girato. Penso che starebbe bene una colonna sonora da comedy-drama mumblecore, come “The stars of track and field”. Alessia mi dice: «Ho avuto la fortuna o la sfortuna di andare molto bene anche quando ero piccola, per cui questo mi ha un po’ buttato in mezzo al mondo mediatico da allora».

small_flat_04_0085Ho letto su un sito di atletica che ha cambiato la sua rincorsa, da 7 a 8 passi prima dello stacco. Onestamente non so cosa voglia dire: otto passi danno più slancio? Probabile, ma allora perché non utilizzarli da subito? Le chiedo di spiegarmelo. «Immagina il salto in alto come una serie di informazioni motorie per cui nel corso del tempo più salti, più automatizzi. Tanto che dovresti arrivare alla gara senza pensare» mi dice. Con 8 passi, mi spiega, aumenta la velocità. E come succede con un aereo che deve decollare (un Concorde, mi immagino, visto il fisico di Alessia) la velocità deve essere accompagnata da una spinta a sollevarsi, quindi un salto più potente, o il rischio è quello di colpire in pieno la sbarra, di decollare troppo orizzontali. «Andando a cambiare la velocità d’entrata allo stacco, o alcune dinamiche come l’inclinazione nella corsa in curva vai a modificare un movimento che era automatizzato e che devi riautomatizzare. Bisogna ripetere quel movimento duecento trecento volte, mille diecimila per farlo funzionare». Poi dice: «Abbiamo fatto il passo in avanti pensando a Rio». Cioè Rio de Janeiro, cioè le Olimpiadi 2016. Le chiedo se si rende conto di essere forte, insomma, di avere delle responsabilità, di essere guardata più o meno in tutto il mondo. Dice: «Tempo fa ti avrei detto assolutamente no. Adesso, sapendo che devo ancora lavorare un sacco, sì. Cioè: ho fatto il risultato, sono riuscita a esserci in quella gara, voglio riprovare quella sensazione, voglio tornare a essere lì, ad ammazzarmi per essere lì, se ci arrivi non ci arrivi per caso». Parlare con gli sportivi mi ha sempre affascinato e inquietato per questo motivo: hanno fatto un percorso, sanno quali sono le tappe che hanno raggiunto e quali sono le tappe che dovranno raggiungere. È il contrario di chi vuole lavorare con la scrittura e con le parole, che sono una piccola o grande truffa. È una sensazione che mi fa dimenticare che Alessia Trost ha appena ventidue anni.

Soprattutto quando le chiedo cosa pensa del ruolo dell’atletica nel discorso sportivo italiano. «Potrebbe esserci un pubblico più interessato se l’atletica avesse un vestito migliore», dice, «l’atletica in Italia dovrebbe essere più moderna. Forse essere demodé e poco fashion fa parte dell’atletica stessa, ma immagina l’atletica italiana: pensi a Mennea. Che è stato un grandissimo atleta, però… stiamo ancora parlando di Mennea. Io penso all’atletica nel mondo e mi viene in mente Bolt. Gli atleti sono delle icone, e noi stiamo parlando ancora di Mennea». Poi le faccio una domanda banale.

small_flat_04_0105«Cosa ti piace di più?»
«Saltare»
«…»
«Nel salto in alto si parla un sacco di volo. A me piace la rincorsa. Parti dritto, aumenti sempre di più la velocità e a un certo punto ti trovi in una posizione obliqua, hai la forza centrifuga da una parte e la forza centripeta dall’altra, e quello è il momento in cui carichi la molla. Sei proiettato. Sei forte, sei elastico, sei veloce. Sei in una posizione innaturale e in un momento schizzi su. Prendi tutto questo, lo metti dentro uno stadio, lo riempi di gente, c’è casino ma tu senti solo silenzio… penso sia questa la sensazione di cui ti dopi».

small_flat_04_0080Tra le altre cose interessanti che Alessia dice ci sono le strutture di allenamento e l’educazione atletica nelle scuole. Sulle prime: «Io sono fortunata perché in Friuli c’è tutto, però allenarsi a Milano è difficilissimo. Le strutture mancano soprattutto nelle grosse città, a Parigi hanno un centro indoor, una cosa folle, c’è tutto, tutto. C’è la pista, c’è la palestra, la foresteria per gli atleti. Non è pensabile che in una città come Roma o come Milano un atleta per andare ad allenarsi debba fare i chilometri. È difficile fare attività così». Sulla seconda: «Andrebbe fatta molta più atletica nelle scuole e andrebbe fatta bene, con persone competenti e non con gli insegnanti di italiano a cui fanno un corso di venti ore. Questo permetterebbe di abbassare i costi della sanità e cambierebbe radicalmente l’idea che le persone hanno dello sport e soprattutto avremmo delle persone molto più competenti dal punto di vista motorio, perché in determinate fasce d’età sviluppi certe caratteristiche fisiche che se non vengono sviluppate in quella fascia d’età non si sviluppano più. Per cui avremmo degli atleti migliori ma anche delle persone migliori, dal punto di vista fisico. Avremmo delle persone che si sanno muovere bene, che sanno cos’è l’attività fisica».

Nel 2016 Alessia avrà 23 anni. Forse avrà quasi finito gli esami all’università – sta studiando Mediazione Linguistica a Udine, vicino a Pordenone, casa sua. Dice che potrebbe cambiare: «Mi piacerebbe fare atletica per altri dieci anni, mi piacerebbe guardarmi indietro e dire non ho perso occasioni. Mi piacerebbe farlo cambiando le condizioni, pensando di quattro anni in quattro anni, noi ragioniamo in termini di cicli olimpici, guardo a Rio e dopo Rio mi piacerebbe cambiare qualcosa, magari posto in cui mi alleno, ma non lo so, vedremo». Dice «vedremo» e poi aggiunge che a vent’anni della vita «non ci capisco ancora niente, niente niente niente. Che succede se mi sveglio tra quindici anni e scopro che voglio fare altro?». Eh, che succede? Ci saranno movimenti che vanno riautomatizzati, penso. Bisognerà provarli duecento trecento volte, mille diecimila volte.

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Foto: Francesco Nazardo
Styling: Anna Carraro
Make-up: Sara Mencattelli
Post-produzione: Lorenzo Mascher
Assistente fotografo: Riccardo Ferri
Alessia indossa NikeLab X Sacai SP15, disponibile su nikelab.com e da NikeLab LNZ1 in via Lanza n.1, Milano.
Si ringrazia il Campo XXV Aprile di Milano per l’ospitalità.