La caduta

Milan e Inter, come siamo arrivati fino a qui? Ricapitoliamo le gestioni societarie, i cambi in panchina, i nuovi e meno nuovi acquisti non proprio di spicco.

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La partita più vista di questo campionato è stata Milan-Inter: 79.173 spettatori. La seconda, Inter-Milan di domenica: 74.022. Due certezze per farne una: il derby conserva integro il fascino della stracittadina, la partita esiste ancora, se vista come sfida secca in cui in palio c’è la possibilità almeno di far valere le proprie ragioni sull’amico che sta dall’altra parte, sul collega che tifa per l’altra metà, sull’odiato vicino di casa che urla così tanto a ogni partita che non è quella della mia squadra. Non fosse per il dettaglio che oltre Milan-Inter e ritorno ci sono altre trentadue partite avremmo le due regine del campionato. Invece combattono per stare nella fascia sinistra della classifica, cercano l’onore delle armi in una stagione che ha già un verdetto: hanno perso entrambe. E se gli esercizi dirigenziali portano attraverso complesse formule aritmetiche a pensare che un posto in Europa potrebbe ancora essere possibile è chiaro che no: gli obiettivi sono tutti andati, l’anno prossimo si starà solo in Italia, non ci sono coppe per nessuna. Come l’Empoli di Sarri, che però ha giocato meglio e si è pure divertito, anche se il totale degli spettatori della sua stagione è pari alla somma dei due derby.

Il confronto del pubblico serve a far capire da che altezza sono precipitate Milan e Inter, perdendo pezzi, credibilità, certezze, e pure un po’ di futuro, perché il campionato che sta per finire male non è comunque costato poco, senza più le casse piene di una volta e dunque con una rifondazione inevitabile e senza troppo da spendere.

 

Le rose sfiorite

Il giorno in cui Inzaghi si è ritirato la Milano del pallone stava cominciando a cedere le armi: era il 2012 e negli anni precedenti il Milan aveva vinto due scudetti (l’ultimo la stagione prima) e l’Inter quattro sul campo e uno a tavolino. Tre anni fa, non una vita: nel Milan (finito secondo) giocavano Gattuso, Nesta, Seedorf, Zambrotta e soprattutto Ibrahimovic, c’erano Cassano e Thiago Silva. Nell’Inter c’erano molti eroi del Triplete: Córdoba, Stankovic, Lúcio, Sneijder, Júlio César, Maicon, Cambiasso, Milito, Samuel. A confrontare questo elenco di mostri con le formazioni scese in campo domenica si hanno molte risposte, perché passare da avere Ibrahimovic a citofonare a casa di Destro come un venditore di Folletto qualsiasi è un’immagine del declino, così come lo è passare da una difesa Maicon-Lúcio-Samuel-Zanetti a D’Ambrosio-Ranocchia-Vidic-Juan Jesus. Quell’anno i derby furono vinti entrambi dall’Inter e finirono 1-0 e 4-2, che è differente da una partita con solo un autogol e per giunta annullato (che a pensarci bene è il massimo della doppia goffaggine: di chi si fa un autogol così e di chi nemmeno riesce a farselo validare).

Sneijder, Gattuso e Backham. Era il 24 gennaio 2010. Michael Steele/Getty Images
Sneijder, Gattuso e Backham. Era il 24 gennaio 2010. Michael Steele/Getty Images

La sfida tra nona e decima del campionato, questo è il derby che abbiamo appena visto. Solo tre anni fa San Siro, per la stessa partita, era il red carpet attraversato da un discreto numero di stelle, ieri il teatro sgarrupato di periferia. Sempre con un bel parterre, perché il pubblico e le coreografie erano da tempi migliori, ma sgarrupato. In periferia.

Sono sfiorite le rose, a Milano. Non sono mai arrivati ricambi all’altezza. E non basta il valore economico di un organico intero a migliorare la considerazione: se si guardano i dati del sito specializzato Transfermakt, i giocatori dell’Inter (228,40 milioni di euro) e quelli del Milan (210,40), sono dietro soltanto alla Juve, alla Roma e al Napoli, ma in campionato si sono aggiunte, nella truppa davanti, Lazio, Sampdoria, Genoa e pure il Torino, il cui intero parco giocatori vale 57,70 milioni. Ma quanto valeva la rosa dell’Inter nel 2012? 375,50 milioni. E quella del Milan 289,70 milioni. Erano, ovviamente, prima e seconda.

 

Che confusione

Scegliere il 2012 come punto di decadenza è come fare una fotografia a Inzaghi in panchina. Quel momento in cui Pippo smette di giocare e la Milano del pallone va contemporaneamente nel panico, non facendo più comprendere le proprie intenzioni, i progetti, le idee. Il Milan ha ad esempio tenuto Allegri a bagnomaria fino al suo esonero dell’inverno 2013 (stropicciando l’allenatore che sta portando la Juve al trionfo in campionato, che l’ha fatta arrivare alla finale di Coppa Italia e la tiene vicina alla semifinale di Champions), è passato dall’interregno di Tassotti al regno brevissimo di Seedorf per poi lanciare senza paracadute Inzaghi, con i rischi noti e le figuracce annotate. Paradossalmente confermare, a parole, Inzaghi anche per l’anno prossimo è un primo straccio di programmazione, dopo aver vissuto un po’ a orecchio. L’Inter, proprio nel 2012, aveva fatto una tale confusione in panchina passando da Gasperini a Ranieri fino a Stramaccioni, per poi dare l’anno dopo la panchina a Strama, arrivato dalla Primavera come Inzaghi. Che è una mossa che accomuna non perché entrambe investano su allenatori giovani, ma perché dà l’idea di chi pesca dal bussolotto e spera che la fortuna gliela mandi buona, dell’ansia di trovare una Guardiola della Madunina e risolvere le incongruenze di rose mediocri. Poi, però, l’Inter ha riscelto Mancini a campionato in corso e non aver cambiato passo è l’esatta sintesi della decisione di aver preso un allenatore che ha bisogno di supporto professionale e l’assenza un po’ diffusa di queste capacità nel mondo nerazzurro.

 

Le società, ferme o in incomprensibile movimento

Nulla di confuso è tale per caso. Non si può avere un progetto tecnico chiaro se non c’è un piano nitido da parte delle società. Partendo dai numeri e sempre dal 2012: in quella stagione il Milan ha avuto 256,9 milioni di fatturato e l’Inter 185,9. Nell’ultima (e quella in corso minaccia di essere peggiore) il Milan ha 249,7 milioni di ricavi e l’Inter 164. Se il calcio, in questi anni, almeno nei suoi top club è stato in controtendenza rispetto alla crisi mondiale, continuando a vedere crescere i fatturati delle società, le milanesi sono in controtendenza rispetto alla controtendenza. Loro perdono soldi, incassi, e non hanno più presidenti che aprono il portafoglio come è stato negli anni della grandeur.

Ibrahimovic e Cordoba nel derby del novembre 2010. Valerio Pennicino/Getty Images
Ibrahimovic e Cordoba nel derby del novembre 2010. Valerio Pennicino/Getty Images

L’Inter ha vissuto gli ultimi anni della gestione Moratti come quella di un romantico che non poteva esserlo più, che non è riuscito a rendere la società azienda nel senso stretto del termine e ha accumulato ritardi fino a dover vendere a Thohir il settanta per cento a 250 milioni di euro, che a sua volta a gennaio scorso ha alzato la posta sperando di dare a Mancini una squadra in grado di rimontare, andare in Champions e dunque riprendere fiato anche dal punto di vista economico e invece ha visto proprio nell’ultimo derby tutti i giocatori su cui aveva puntato seduti in panchina (da Podolsky e Shaqiri). E già a febbraio Piero Ausilio, d.t. del club, aveva detto che «senza la Champions, è normale che qualcuno dovrà partire», che ora sembra la condanna a una nuova transizione dopo il folle gennaio.

Il Milan, invece, si è trascinato in lotte intestine, tra Barbara Berlusconi scalpitante e Andriano Galliani piuttosto sfinito, fino al punto da creare la figura del doppio amministratore delegato, che non trova molti riscontri nella realtà. Il progetto societario del Milan è così schizofrenico da portare a grossi investimenti nella sede (casa Milan) polifunzionale, progetti faraonici di un nuovo stadio e l’incertezza di domani, l’idea antica di Berlusconi che possa bastare arrivare il venerdì agli allenamenti per far rendere il gruppo, che basta la battuta e un momento di socialità a rendere il brocco un campione, mentre il resto affonda e i conti sono fermi, la società non cresce.

Tutte situazioni che non riportano mai una verità unica: dell’Inter è stato scritto che potrebbe anche tornare nei pensieri di Moratti, con l’idea di un azionariato d’élite per ventimila investitori, che non sembra concretamente realizzabile ma contribuisce a creare confusione e anche spaccature, tra chi è nostalgico delle interviste sul marciapiede della Saras e chi invece vuole andare oltre la stagione dell’oro, in grado però di seccare le casse del club fino a costringerlo a vendere, appena finisce il campionato. Del Milan, invece, se ne parla per i tanti investitori accostati a un ipotetico dopo-Berlusconi: mesi di acquirenti improbabili e ora due offerte pubbliche: quella del thailandese Bee Taechaubol (mr. Bee, meglio) e quella da Hong Kong di Richard Lee. Mr. Bee sarò in Italia domenica e avrebbe messo sul tavolo 500 milioni per il sessanta per cento. Ma ogni volta che qualcuno si avvicina così tanto al Milan, Berlusconi si rivitalizza e Barbara riduce l’interessamento, le cifre, le offerte, fino a far diventare potenziale partner chi invece vorrebbe diventare proprietario. Perché la famiglia non si vede senza squadra e allora prova a resistere, in quegli eterni ritorni che sono un po’ come quelli di Moratti, tanto per tenere ancora il paragone in piedi.

Ora, se i campioni sono andati via e non sono stati sostituiti, se sulle panchine si è ballato a lungo fino a confondere le idee anche ai prescelti, se le società perdono soldi e non vendono oppure vendono senza troppa convinzione restando come zanzare a dar fastidio ai nuovi, se un’idea di calcio nuovo appare lontana e quello vecchio non regge più, cosa ci sarebbe di ingiusto nel crollo di Milan e Inter? Niente, infatti sono nona e decima, hanno giocato il derby più triste, non sanno da che parte andare e con chi. Peraltro, non siamo più nel 2012. Ce ne siamo accorti.