La nuova vita di Siena

Dai giorni del fallimento alla nuova corsa in Serie D per raggiungere la Lega Pro, una città che ha ritrovato l'entusiasmo dei bei tempi.

Il guaio non è che la vita promette cose che non ci darà mai. Il guaio è che la vita le dà sempre e sempre smette di darle. Al Siena erano già state tolte tutte quando affidarono a Massimo Morgia la panchina della Serie D. Era un bel pomeriggio d’agosto. Lui, ex Pistoiese, si presentò con una camicia bianca e luminosa arrotolata fino al gomito, aperta sul petto. Chiarì immediatamente che non era il caso di fare promesse: a Siena le avevano già sentite tutte, e nessuna era più stata mantenuta. Ecco perché adesso erano tutti in Serie D. Quello di quarta serie può essere un campionato spietato e terribilmente bugiardo, se non lo affronti come si deve. Morgia prese fiato, fece scivolare il pollice e l’indice lungo la linea arruffata e spugnosa dei baffi e da uomo forgiato nella durezza del reale avvertì: «Tutti dovremo abituarci: qui i campi sono sterrati e piccoli, non sono come quelli della Serie A».

Da quel pomeriggio sono trascorsi molti giorni e oggi il Siena è a tanto così dalla promozione in Lega Pro. Mancano tre giornate alla fine, la squadra di Morgia è prima nel suo girone e al momento conserva quattro punti di vantaggio sulla seconda, l’agguerrito Poggibonsi. C’è chi dice che la nuova società non sia pronta per andare su e ovviamente c’è anche chi dice il contrario: il calcio è un meraviglioso dibattito illogico, sembra un’invenzione di Beckett. Ma è proprio dentro a questa assurda opera che stanno rotolando il Siena e il suo tifo. A un anno dalla messa in liquidazione del club, com’è cambiato il rapporto della gente con il calcio? Cosa possono insegnarci le illusioni spezzate del Siena? Cosa resta dei fantasmi del vecchio club?

Fine corsa

"The Door to Heaven" Press PreviewFebbraio 2014. Al campo di Colle Val d’Elsa, dove il Siena fa allenamento, hanno dato l’ordine di non far passare nessuno. Chi gestisce il campo non incassa un euro da settimane, e questa volta, diamine, si sono proprio impuntati: calciatori, allenatori, dirigenti, tutti i tesserati del Siena vadano pure da un’altra parte, anche al diavolo, se vogliono. Ovunque, ma non qui. Infatti quando Mario Beretta e suoi i giocatori arrivano davanti ai cancelli non c’è niente da fare: restano fuori. Beretta lo hanno ingaggiato a luglio, con la società che aveva fatto i salti mortali per iscriversi al campionato di Serie B in tempo, con i giocatori che si erano ridotti lo stipendio per sopperire a buona parte delle spese e con la gente che in città ancora una volta si era dovuta turare il naso. E va bene, il calcio prima di tutto, tant’è che a luglio, in un modo o nell’altro, Siena aveva avuto il suo bel campionato davanti ai sogni. «Ci dicevano che era tutto a posto, promettevano, assicuravano che anche i punti di penalizzazione sarebbero stati due, al massimo tre» racconta Beretta, «e invece». Invece alla fine i punti saranno otto.

Una mattina di aprile il presidente del Siena, Massimo Mezzaroma, convoca i veterani della squadra per mangiare un boccone. Un pranzo informale, niente di preoccupante. Sono in sei, c’è anche Simone Vergassola. A tavola si discute della stagione, di come le cose stiano procedendo con ordine nonostante le nuvole nere e qualche brutta grandinata passata sopra alle teste. «Comunque niente che lasciasse presagire il peggio», ricorda Vergassola. Il peggio, invece, tuona il 16 aprile. La squadra ha appena fatto la rifinitura ed è ancora riunita negli spogliatoi. È il giorno prima della partita contro lo Spezia, una gara importantissima perché tre punti possono consolidare la zona che conta, la zona play-off. Mezzaroma è il primo a entrare, lo accompagna il suo avvocato. Ha l’aria stropicciata, gli occhiali scuri appiccicati al naso: dev’essere stata una notte molto lunga.

Le parole le sentono tutti, rimbombano come tuoni. Il presidente dice che i soldi sono finiti, non ce ne sono più, che da lì in poi le cose prenderanno un’altra piega. I giocatori rimangono increduli, cala un silenzio infelice. «Ci siamo sentiti presi in giro, io mi sono sentito preso in giro» dice Vergassola. Ventiquattrore prima, sui giornali, era circolata la notizia che il Montepaschi si preparava a chiedere 3 miliardi di euro al mercato finanziario per cominciare a ripagare i debiti. Conti, soldi, risanamenti. C’era da coprire una voragine, e tutto quello che veniva ritenuto superfluo non andava più finanziato. Già un anno prima la banca aveva smesso di mettere soldi nello sport, e ovviamente anche nel calcio. Funzionava che, tra sponsor e aperture di credito, ogni anno il Monte finanziava i soci del Progetto Siena, la società controllante, con almeno una decina di milioni. A loro volta, i soci alimentavano il Siena. Alla guida del club ruotavano galantuomini e non, ma questo era sempre stato un fattore secondario purché si vincesse. Quando il Monte chiude i rubinetti, Mezzaroma è già presidente del Siena. A quel punto, gestire un club senza il supporto della banca è impossibile. C’è sempre un punto di non ritorno, il 16 aprile è quello del Siena. La partita contro lo Spezia finisce 1-0 per i liguri. A 7′ dalla fine la decide Bellomo. Ma la picchiata è solo all’inizio.

Varese 2-0 Siena, con il gol sbagliato di Rosina

Il 30 maggio, a Varese, gli ultimi novanta minuti della stagione sono un’agonia. Se vince va ai play-off, altrimenti. È l’ultima speranza di salvare il club e chi non può vedersela in Tv rispolvera le radioline dimenticate in fondo al comò. La città freme. Sull’1-0 per il Varese Rosina va a battere un calcio di rigore. Il numero dieci aveva già conosciuto lo spettro del fallimento quando giocava nelle giovanili del Parma. Raccontano che il giorno in cui Stefano Tanzi andò negli spogliatoi a dire che i soldi erano finiti, Rosina si era messo a piangere: con i soldi del primo contratto da professionista aveva comprato una casa ai suoi genitori e non sapeva più come pagarlo. Tiene le mani sui fianchi. La rincorsa è breve. Il tiro non è molto angolato e Bastianoni, il portiere del Varese, riesce a toccarla. L’incredibile è che il pallone vada a sbattere sul palo, poi sulla faccia del portiere, prima che venga allontanato per sempre. La partita finirà 2-0.

Al triplice fischio qualcuno si era messo a piangere. Senza farsi vedere c’era chi dava certi pugni nel muro, e chi meditava già sul prossimo trasloco da sobbarcarsi per andare a giocare da chissà quale parte. Ma prima di abbandonare ogni speranza, racconta Beretta, «abbiamo aspettato e aspettato, ci abbiamo creduto fino all’ultimo». Come tutti a Siena, anche Vergassola passa l’estate al telefonino, lui che non lo può sopportare. «È stato un continuo di chiamate. Era già successo un anno prima, ma poi si era risolto tutto», aggiunge. La squadra si riunisce un paio di volte per andare a cena. Solo i giocatori e lo staff tecnico, niente dirigenti, di quelli non si fida più nessuno. La speranza c’è. Ma il 15 luglio l’iscrizione al campionato di B non arriva. Quel giorno, Mezzaroma telefona al team manager. C’è da fare un comunicato, gli dice. È il breve epitaffio su una storia di 110 anni.

Si riparte

"The Door to Heaven" Press PreviewL’orgoglio di Siena lo risveglia un uomo di sport che certi giorni di luglio porta il panama. È l’italo-svizzero Antonio Ponte. Ha i capelli grigi e gli occhiali sottili. Nato a Napoli, a dodici anni Ponte emigra in Svizzera con la famiglia. Aveva fatto parte del consiglio di amministrazione della squadra che nel 2000 aveva vinto la C1, un ritorno in Serie B che mancava da cinquantadue anni. Ha un fratello, Raimondo, che negli anni Settanta era stata la bandiera del Grasshoppers, aveva vinto gli scudetti e le coppe, aveva giocato persino in Nazionale, e poi c’è Luigi, l’altro fratello, che aveva fatto l’arbitro e oggi è il presidente dell’associazione in Svizzera. «La squadra mi è sempre rimasta nel cuore» dice Antonio, «non ce l’ho fatta a restare con le mani in mano». Così prende in mano tutto, il titolo sportivo glielo affida il sindaco, e senza starci a pensare troppo, Ponte mette in piedi l’avventura con la nuova società, la Robur Siena.

Lo schiaffo della mancata iscrizione sveglia tutta la città. Anche se si gioca in D, la campagna abbonamenti è un successo. Anzi, un record. Il Siena raggiunge quota 3.980 iscritti, e quando le partite si giocano in casa, al Franchi, allo stadio ci vanno in più di cinquemila. E in trasferta? Seicento non mancano mai. Anche se ha ceduto il posto a Morgia, il nuovo allenatore, Beretta è tra i primi a fare l’abbonamento. Lo invitano a vedere una partita in curva, e lui ovviamente ci va. «Si era creata una forte sintonia, abbiamo vissuto dei momenti molto intensi e allora mi sono fatto l’abbonamento anche io», sorride. E’ questo senso di nuova fedeltà che sta facendo la differenza a Siena. Un senso avvertito anche da Vergassola, rimasto «perché nonostante tutto mi hanno fatto sentire davvero importante». Simone era arrivato a Siena dieci anni fa e ancora Jacopo, il secondo figlio, non era nato. «Volevo chiudere la mia carriera qui, perché qui si vive bene. Quando i figli sono felici in un posto, dopo è così anche per i genitori».

12 minuti di cori dei tifosi della Robur a Civita Castellana

Per anni Siena è stata come il Gattopardo. Immobile, sempre uguale a se stessa, ammantata di quella signorilità un po’ snob, di chi ha il privilegio di passeggiare nella storia, sentendosi parte di tanta bellezza. Finché c’è stato il babbo Monte, Siena si è sempre bastata da sola, non ha mai voluto che altri ne contaminassero la nobiltà. Un fantasma che oggi vive relegato in un ufficio a via Achille Sclavo, tra scartoffie spiegazzate e muri bianchi. Una stanza che affaccia su uno stradone di cemento. È lì che si stanno preparando le carte per l’udienza del 29 maggio, il giorno in cui il vecchio, stanco Siena chiuderà per sempre. Dopo la messa in liquidazione, il concordato potrebbe mettere fine alla faccenda per 10, 12 milioni di euro. Il club era fortemente indebitato con la banca (51 milioni di euro), i fornitori (12) e l’Agenzia delle entrate (8.9). E pensare che alla fine del 2013, prima che tentassero di chiudere il calcio, Siena aveva un capitale di 30 milioni di euro. Era il valore dei giocatori, della rosa, un gruzzolo svanito nel nulla dopo la mancata iscrizione al campionato.

In un mondo globalizzato, l’atteggiamento gattopardesco ormai non paga più. “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi” è un concetto superato, ormai vecchio, e lo dimostra l’apertura della nuova proprietà a nuovi, lontani acquirenti. Domenica, dopo la vittoria sul Villabiagio, Ponte ha annunciato novità importanti. «Ma solo dopo le due vittorie che ci mancano per arrivare in Lega Pro», ha detto. All’orizzonte ci sono investitori stranieri. Però la gente ha ricominciato a sognare. A occhi aperti, questa volta. Lo spiega bene Lorenzo Mulinacci, il presidente dei Fedelissimi, il club dei tifosi: «Negli anni della Serie A questo fatto della Banca che sovvenzionava sia il calcio ci aveva fatto perdere la reale potenzialità della città. Si doveva stare in A, ma senza costruire nulla. Ora dobbiamo fare tutto con le nostre mani. Arrivando dove possiamo arrivare». Non è detto che sia un male.