Kluivert contro Kluivert

Da attaccante talentuoso ma scapestrato ad allenatore umile e faticatore: le doppie capriole di Patrick Kluivert, che dalla sua Curaçao sogna di rivedere il Camp Nou

Kluivert

A Curaçao dicono che Ergilio Hato fosse il miglior portiere del continente americano. Talmente forte da aver ricevuto offerte da Real Madrid, Ajax e Feyenoord, respingendole tutte al mittente in quanto non voleva lasciare la sua isola, né trasformare la passione per il calcio, trasmessagli dai monaci della scuola primaria romano-cattolica di Willemstad, in una professione a tempo pieno. Un lavoro lo aveva già, come assistente aeroportuale per la ALM Antillean Airlines, e il pallone poteva tranquillamente rimanere confinato nella sezione hobby, da praticare con una squadra locale chiamata CRKSV Jong Holland. Difficile separare il mito dalla realtà in una storia proveniente dai Caraibi degli anni ’50. Hato però un bel giocatore doveva proprio esserlo, perché nel decennio in cui ha difeso i pali delle Antille Olandesi (all’epoca Curaçao si chiamava così), queste centrarono i risultati più significativi della propria storia, qualificandosi alle Olimpiadi di Helsinki del 1952 e arrivando quarte ai Giochi Panamericani del ’55. Oggi lo stadio della capitale di Curaçao, Willemstad, porta il suo nome ed è diventato la casa di Patrick Kluivert, commissario tecnico di Curaçao dallo scorso marzo. Tre partite, due vittorie e un pareggio, con all’orizzonte la doppia sfida contro Cuba valida per il secondo turno delle qualificazioni CONCACAF al Mondiale 2018. Sessant’anni dopo Ergilio Hato, l’isola caraibica prova a tornare sulle mappe calcistiche.

Curaçao, 150.000 abitanti in 444 chilometri quadrati

Per Patrick Kluivert non è stato facile essere Patrick Kluivert. Ma non lo sarebbe stato per il 99% dei giocatori che, all’età di 18 anni e 327 giorni, si fossero trovati a festeggiare la Champions League grazie a un proprio guizzo, diventando il più giovane marcatore – record tutt’ora imbattuto – in una finale del massimo trofeo continentale. Perché quella sera del 24 maggio 1995 all’Ernst Happel Stadion di Vienna, contro il Milan di Capello che solo dodici mesi prima aveva polverizzato il Barcellona di Cruijff, la carriera di Kluivert era già al suo apice, sebbene fosse cominciata da meno di un anno. Campione d’Europa, da protagonista, al primo colpo: impossibile chiedere di più, a livello di club. Kluivert era l’ultimo arrivato di quella fucina di talenti cresciuti nel Mercatorbuurt di Amsterdam Ovest, il rione del mercato che si affaccia sulla Balboaplein, dove hanno tirato i primi calci al pallone Frank Rijkaard, Edgard Davids e Clarence Seedorf. Tutti figli delle colonie olandesi, con radici sparse tra Suriname, Aruba, Curaçao e Sint Maarten, che nella seconda metà degli anni Novanta avrebbero addirittura sopravanzato i loro connazionali neerlandesi in nazionale (13 dicembre 1995, Olanda-Irlanda 2-0, per la prima volta nella storia l’undici oranje era più zwart, nero, che wit, bianco). La famiglia Kluivert era un crocevia di culture nella quale l’America Latina del padre, nato nella Guyana Olandese (o Suriname che dir si voglia) incontrava i Caraibi della madre, originaria di Curaçao, per sublimarsi nella Amsterdam multiculturale e liberal di fine anni 70 nella quale era cresciuto Patrick. E in campo quel meltin’ pot era perfettamente rappresentato da un giocatore che coniugava tecnica e fisicità, classe ed esplosività, istinto e visione di gioco. Solo che il tutto è durato troppo poco, una decina scarsa di stagioni, perché a 28 anni, l’età della maturità e del pieno sviluppo delle potenzialità di un campione, Patrick Kluivert era un giocatore finito. Per troppa indolenza, per scarsa applicazione, perché – come Oscar Wilde – sapeva resistere a tutto tranne che alle tentazioni. O forse perché, come ha scritto nella sua autobiografia, «in Olanda ti insegnano a diventare un campione, ma nessuno ti spiega come deve vivere un campione».

Ajax 1 – 0 Milan, 1995

Rapido passo indietro alla stagione 1994/95, un’annata (quasi) perfetta per una squadra ai limiti della perfezione. Se non fosse stato per Mike Obiku, misconosciuto attaccante nigeriano del Feyenoord in rete all’Olympisch Stadion ai supplementari del quarto di finale di Coppa d’Olanda, l’Ajax di Louis van Gaal avrebbe concluso la stagione senza aver perso un solo incontro ufficiale. Campioni nazionali e continentali da imbattuti: nemmeno l’Ajax di Rinus Michels e Johan Cruijff era arrivato a tanto. Una stagione aperta da una rete del debuttante Kluivert nella Supercoppa (vinta) contro il Feyenoord, e chiusa da un gol, infinitamente più importante, siglato dallo stesso nella finale di Coppa dei Campioni. Eppure al centro dell’attacco ajacide avrebbe dovuto esserci Ronaldo, il futuro Fenomeno, se non si fosse messo di mezzo Romario, ex Psv Eindhoven, che aveva convinto il giovane connazionale a optare per la squadra della Philips, lasciando l’Ajax con un pugno di mosche e, cosa ancora più grave, senza una prima punta titolare a poche settimane dall’inizio del campionato. Van Gaal però aveva fatto spallucce, dichiarando a bocce ancora ferme: «Il Psv ha Ronaldo, noi abbiamo Kluivert». È stato l’avvio di un sodalizio professionale ripropostosi più volte: a Barcellona, quando Kluivert non voleva saperne di lasciare il Milan nonostante una prima deludente stagione in Serie A, salvo cambiare idea non appena i blaugrana annunciarono l’ingaggio del tecnico oranje; ad Alkmaar, stagione 08-09, nella prima esperienza in assoluto di Kluivert dall’altra parte della barricata, in qualità di allenatore degli attaccanti dell’Az; e nell’Olanda biennio 2012-14, come vice di Van Gaal.


Al Milan non andò benissimo…

Il miglior Kluivert, quello della seconda metà degli anni 90 che Youri Mulder ha definito «il prossimo miglior attaccante del mondo (che all’epoca era Ronaldo, nda)», lo si è visto a Barcellona. Non solo per le 118 reti firmate in maglia blaugrana, con autentiche gemme come la rete di tacco al Maiorca o quella in Champions contro il Porto (controllo al volo di destro su lancio dalle retrovie e morbido sinistro a scavalcare il portiere, il tutto a velocità elevata e con un difensore incollato alla schiena), ma per la sua interpretazione totale del ruolo di attaccante, così diversa da altre illustri macchine da gol oranje quali Ruud van Nistelrooy o Roy Makaay. Non uno splendido finalizzatore, ma un attaccante che partecipava attivamente alla manovra, facendo salire la squadra o dando profondità all’azione secondo le esigenze. Basta guardare i numeri della sua prima stagione a Barcellona – 15 reti, 16 assist – oppure dare un’occhiata alle sue statistiche nell’Olanda, dove il 20% delle sue 40 reti le ha messe a segno nella fase finale di un Europeo o di un Mondiale. Robin van Persie e Klaas-Jan Huntelaar, rispettivamente primo (49 gol) e terzo (39) nella classifica dei marcatori all-time olandesi, vantano una percentuale del 18% e dell’8%. Nei grandi tornei Van Persie ha segnato una rete in più di Kluivert, ma per farlo ha dovuto giocare 11 partite in più, per una media di un gol ogni 2.67 partite, contro quella di 1.63 dell’ex Milan. Con un’altra testa, meno propensa «alle serate al casinò con gli amici e al sì incondizionato a tutti, perché ogni lasciata è persa» (la fonte è sempre l’autobiografia), chissà dove sarebbe arrivato. Ma Kluivert non è mai stato Arjen Robben, né Cristiano Ronaldo. E dopo Barcellona era già al crepuscolo della carriera. “Nightclub” Patrick a Newcastle, desaparecido a Valencia, cafèspeler (espressione olandese che indica un giocatore dotato di condizione fisica da dopolavoro e intensità da oratorio) nel Psv, panchinaro triste a Lille. Dove Claude Puel disse: «A volte in allenamento, più raramente in partita, capita quell’azione, o quel tocco, che ti fa capire come un tempo Kluivert sia stato un giocatore eccezionale». Ma non stava parlando di un 50enne, bensì di un calciatore di 31 anni.

«Taconazo», la gemma dell’olandese segnata al Maiorca

Se risulta difficile immaginare un personaggio come Kluivert nelle vesti di allenatore è solo perché si è ancora legati all’immagine del Kluivert calciatore. Il tutto-e-subito però Kluivert lo ha già vissuto nella sua carriera precedente, che è l’esatto opposto di quella attuale, caratterizzata da percorsi alternativi, rotte non convenzionali, robuste dosi di gavetta. Assistente nelle giovanili del Psv, allenatore degli attaccanti in Australia con i Brisbane Roar (dove ha lavorato con Ange Postecoglu, straordinario motivatore che all’inizio di quest’anno ha portato la nazionale Aussie alla vittoria in Coppa d’Asia) e in Olanda nel Nec Nijmegen, quindi tecnico degli Allievi (categoria che in Olanda chiamano più ottimisticamente Beloften, ovvero Promesse) del Twente, con i quali nel 2013 ha vinto il campionato nazionale. Poi due anni da vice-Van Gaal con l’Olanda, fino al Mondiale 2014, prima di salutare il maestro partito per Manchester, dove non avrebbe potuto seguirlo perché Van Gaal cercava un secondo che conosceva bene il club dall’interno, e chi meglio di Ryan Giggs? Kluivert opta quindi per scendere di circa 140 posizioni nel ranking FIFA e sceglie Curaçao, le sue origini. Gli offrono un incarico come consulente tecnico, ma a livello organizzativo e strutturale manca tutto. E allora il consulente decide di consigliare… sé stesso, prendendo in mano le redini dell’intero progetto. Kluivert debutta battendo Montserrat 2-1, primo turno di qualificazione al Mondiale 2018, poi impatta 2-2 al ritorno. Il 20 maggio ad Almere vince 3-2 il derby personale contro il Suriname, in un’amichevole preparatoria per il doppio confronto con Cuba. La stragrande maggioranza dei giocatori in campo proviene dal campionato olandese, solo che se il Suriname è una sorta di Olanda di Lega Pro, Curaçao è di LND. Le stelle sono l’ex Swansea Kemy Agustien, il centrale del Twente Darryl Lachman e la punta Prince Rajcomar, un giramondo che ha giocato in Islanda, Ungheria e Tailandia. Questo passa il convento, in attesa del verdetto della FIFA su Vurnon Anita, sceso in campo anni fa in un match ufficiale con l’Olanda e quindi, a termini di regolamento e salvo deroghe, non convocabile da Kluivert.

Barcellona, la città che ammirò il miglior Kluivert

Dal Camp Nou al Pedro Marrero dell’Havana, da San Siro al Blakes Estate di Montserrat; esperienze calcistiche agli antipodi, eppure l’ambizione non ha mai abbandonato Patrick Kluivert. Il sogno rimane Barcellona. Il background c’è tutto e si chiama tarannà, espressione liberamente traducibile dal catalano come “modo di essere” e riferita a un rapido processo di adattamento che porta ad interiorizzare usi e costumi propri di un luogo in maniera così profonda da trasformare lo straniero in una sorta di cittadino onorario. Personaggi quali Johan Cruijff, Hristo Stoichkov, Laszlo Kubala, Terry Venables (che salutò i tifosi del Barcellona in catalano durante il suo primo allenamento), Vic Buckingham e Gary Lineker sono più catalani di tanti giocatori nati e cresciuti a Barcellona. Kluivert parla fluentemente catalano mentre Raúl Tamudo, originario della città e icona dell’Espanyol, si esprime solo in spagnolo. A livello linguistico, socio-culturale ed empirico (Kluivert ha giocato a fianco dei tre più grandi allenatori del Barça degli anni 2000, ovvero Rijkaard, Pep Guardiola e Luis Enrique), l’olandese sarebbe già pronto per quella panchina. «Ma anche tornare a San Siro non mi dispiacerebbe», ha dichiarato in tempi recenti. Fossimo in lui, una telefonata a Seedorf prima la faremmo.

 

Nell’immagine in evidenza, Patrick Kluivert osserva l’allenamento della Nazionale olandese ai Mondiali del 2014. Dean Mouhtaropoulos/Getty Images