La vendetta di Hope Solo

Le controversie, le polemiche e le rivincite di Hope Solo, campionessa del mondo, miglior portiere femminile in attività.

Hope Solo si è appena vendicata di molte cose. Campionessa del mondo, miglior portiere del Mondiale, record di presenze per un portiere nella storia della Nazionale americana di pallone. È la storia di questa Coppa appena finita. Perché prima che cominciasse il torneo e nei primi giorni dei gironi l’America ha parlato soltanto di lei. È cominciato tutto con il senatore Richard Blumenthal che ha attaccato la Federazione calcio americana perché Hope è stata convocata e addirittura ha giocato. Blumenthal ha scritto una lettera al numero uno del calcio americano, Sunil Gulati, dicendo che è uno scandalo, che è disdicevole, riprovevole, imbarazzante e sbagliato, profondamente sbagliato, che un tipo come la signora Solo rappresenti gli Stati Uniti d’America in una competizione internazionale. Perché la signora Solo è violenta. L’ha detto un giudice e l’ha detto più recentemente la tv. Perché il giorno prima dell’esordio degli Stati Uniti al Mondiale in Canada, Espn ha mandato in onda un’inchiesta che rivela particolari molto forti e gravi della storia che già un anno fa sconvolse il mondo dello sport americano. Una notte la polizia entrò a casa di Hope Solo, a Seattle, e la arrestò: l’accusa era violenze e maltrattamenti alla sorella e al nipote. Hope, dicevano i resoconti dei primi minuti, fu trovata ubriaca, alterata e sia sua sorella, sia suo nipote avevano evidenti segni di violenza sul corpo. Lei finì in carcere, pur dichiarandosi innocente. Ne uscì dopo poco, senza cauzione.

È stato questo l’argomento, ed è questo che c’entra con la Coppa del Mondo e con la vendetta che si porta appresso. Questo e Brianna Scurry, ovvero il portiere che prima di Hope aveva il record di presenze. Brianna che a un certo punto è entrata di traverso nella vita di Hope. Punto di volta di una storia. Amici-nemici, perché l’esistenza intera di Hope è così: famiglia, calcio, poi di nuovo famiglia, è tutto un incrocio di strani rapporti di amori che diventano odi, di affetti che si trasformano in crudeltà. Ha dato e ricevuto del bene, Solo. Ha dato e ricevuto del male. Un gioco contorto, strano, perverso, al tempo stesso epico, folle, smisurato, emozionante. Bene e male, sempre, appunto.

Un po’ di parate del 2015, con la maglia Usa e quella di club

Piena la vita di Hope, che poi vuol dire speranza e allora molto, se non tutto, torna. Speranza Solitaria se gli aggiungi quel cognome italiano che la vita gliel’ha segnata comunque. Gliel’ha dato il padre, malandrino italoamericano cresciuto nel Bronx, veterano della guerra in Vietnam, brigante al rientro, sbattuto in galera per un tot di reati. Jeffrey, detto Johnny o Gerry, Solo, un giorno chiese un colloquio matrimoniale in carcere. La moglie arrivò, gli parlò, lo amò e lì concepirono Hope. In galera.

Lei adesso ha 33 anni, ha giocato e vinto in Canada la Coppa del Mondo. L’America gioca sempre per vincere, tra le donne. Con la Germania, il Brasile, il Giappone e ora la Francia era tra le Nazionali che potevano portarsi a casa la Coppa. È anche il paese che ne ha vinti di più di Mondiali, tre adesso, uno più della Germania. Una volta nel 2007 è arrivato il secondo posto, e c’entra molto con lei e Brianna Scurry e la vendetta. Poi, però, sono arrivati anche due ori olimpici, nel 2008 e nel 2012, e anche questo c’entra con Hope e la vendetta.

USA v Japan: Final - FIFA Women's World Cup 2015

Ecco, ma adesso la storia è un’altra. La storia è che mentre si giocava, mentre l’America ha fatto 7 punti in tre partite nel girone, poi tra ottavi e finale ha battuto Colombia, Cina, Germania e infine Giappone, Hope ha preso solo 3 gol in tutto, mentre il Mondiale era combattuto, bello, televisivo, ricco più di quanto sia mai stato ricco prima, è sembrato che non si parlasse di calcio, ma di altro: morale incrociata alla cronaca giudiziaria. Quindi di Hope Solo e del senatore del Connecticut e del resto.

È una storia molto americana, questa. Perché la figlia concepita in carcere, poi rapita dal padre e quindi cresciuta solo con un genitore, diventa qualcuno: giocatrice professionista di calcio. Un giorno incontra per caso suo padre in un parco. Lui è tornato a Seattle, racconterà lei a Newsweek, senza dire nulla, ma seguendo ogni partita della figlia, muovendosi il più possibile per raggiungerla, guardarla, osservarla. Vicino, lontano. Quel giorno nel parco Hope lo riconosce dai tatuaggi. Parlano, imbarazzanti, mangiano un panino insieme. Invece di allontanarlo da sé recupera un rapporto senza fare domande e senza avere risposte. Poi Jeffrey, detto Johnny o anche Gerry, viene accusato di un omicidio: è stato ucciso un agente immobiliare e non si sa come accusano lui, che però viene prosciolto perché il suo alibi tiene. Figlia e padre continuano a vedersi, si danno anche un appuntamento, a New York: Hope ha  procurato a Jeffrey, detto Johnny o anche Gerry, un biglietto aereo e uno per lo stadio di una partita di preparazione al Mondiale del 2007. Lei è a Cleveland per le finali Nba, lo cerca, lui non risponde; lo ricerca, lui non risponde. Lei pensa: che bastardo. Il giorno dopo scopre: lui è morto. Un infarto, pare.

Forse la sua miglior parata di sempre, nel 2012 contro il Canada

È il destino, racconta Hope nell’autobiografia. È la vita. Amore, odio, normalità, perversione, follia. Non ci si ferma, dice Solo, che parla, parla, parla. Una che non si tiene niente. Impertinente, l’hanno definita. Abrasiva, anche. C’entra per forza l’altra cosa accaduta quell’anno, il 2007. In quel Mondiale per il quale si stava preparando quando invitò il padre a guardarla. Era la sua prima Coppa del Mondo. Stati Uniti in finale, contro il Brasile. Hope va in panchina, l’allenatore le preferisce Brianna Scurry: è la veterana del gruppo, una cresciuta proprio con Mia Hamm e Brandi Chastain. L’America perde 4-0 e Hope parla: «Se ci fossi stata io», dice. E aggiunge veleno. Impertinente, appunto. Abrasiva, anche. Finisce fuori rosa, indesiderata dall’allenatore e odiata dalle compagne. Perché ha infranto un codice, quel patto segreto che dice che in uno sport di squadra non si parla di sé, neanche quando vieni escluso. Gioca in campionato, però. Ed è il miglior portiere della Lega: bella, alta, ricca. Ha sponsor che la supportano, guadagna più di dieci milioni di dollari a stagione. È forte e questo sconfigge anche i codici di comportamento: la convocano per le Olimpiadi di Pechino 2008 e l’America vince il primo oro olimpico del calcio della sua storia. Hope da allora diventa una delle stelle, continuando a essere malsopportata dall’ambiente, ma amata dalle ragazzine.

Perché è bella e perché è matta. Posa nuda per una rivista quando la Lega americana fallisce e le giocatrici restano senza stipendi: «Devo mangiare, io». Capace di infilarsi in una polemica via l’altra. Quando è stata tra le concorrenti di Ballando con le stelle ha accusato il suo compagno di ballo di maltrattamenti: «Mi spintona, mi fa male, ma non fa niente». Caos dei movimenti femministi: «Hope Solo legittima gli abusi degli uomini». È stata anche il centro delle polemiche sul sesso nel villaggio olimpico, perché è stata lei a rivelare, dopo Pechino, che gli atleti e le atlete si divertono parecchio: «Al Villaggio Olimpico si fa sesso ovunque. Alle Olimpiadi succede di tutto. Gli atleti, se si allenano, sono super concentrati, ma se escono a bere un drink, finisce che se ne scolino venti e potete immaginare cosa succede dopo… Si fa molto sesso perché l’Olimpiade è l’esperienza di una vita e si vogliono creare ricordi indelebili. Ho visto persone fare sesso all’aperto, tra i prati o gli edifici. La gente ci va giù di brutto. A Pechino nel 2008, quando finimmo di festeggiare la medaglia d’oro, ci togliemmo i vestiti da sera, indossammo di nuovo gli abiti sportivi e alle 7 di mattina, senza andare a dormire, ci presentammo al Today Show ubriache. Non c’è bisogno di dirlo, avevamo un pessimo aspetto. Dopo i festeggiamenti, tornando al Villaggio, incontrammo due celebrità come Vince Vaughn e Steve Byrne. Decidemmo di continuare la festa, iniziammo a parlare agli addetti alla sicurezza, mostrando le medaglie d’oro, e riuscimmo a far entrare il nostro gruppo senza i pass, cosa mai vista prima. E quando tornai in camera mia, non è detto che fossi sola. Ma questo è il mio segreto olimpico».

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La Chastain e la foto più famosa nella storia del calcio femminile

Scoppiò un altro caos, con l’intera delegazione americana indignata con Solo. Altro codice infranto. Perché è così, lei. Anche quattro anni dopo, a Londra. La nazionale americana era sempre forte, ma arrivava non da favorita perché nel 2011 aveva perso i Mondiali. Giocò non benissimo le prime partite e a commentare i match c’era Brandi Chastain. Lei è un monumento. Come Mia Hamm. In più lei è una foto, anzi la foto. È l’immagine che ha cambiato per sempre il calcio femminile: una ragazza che alla fine della finale del Mondiale 1999 si toglie la maglia e si lascia scivolare con le ginocchia per terra in reggiseno. È Brandi. Ecco, lei in quell’Olimpiade cominciò a storcere il naso contro le ragazze della difesa e anche contro Hope. Che rispose su Twitter: «The game has changed from a decade ago». E poi in un’intervista: «Non credo sia un grande commentatore. Non c’è niente di personale. Vorrei solo i migliori commentatori. Il nostro sport merita questo, la nostra squadra merita questo. E oggi non è, a mio parere, così. Lei è stata una grande giocatrice. S’è tolta la maglietta dopo aver segnato il rigore della vittoria della coppa del Mondo 1999, ma questo non vuol dire che sia un grande commentatore e certamente non vuol dire che conosce il nostro gioco. Voglio sapere perché è importante per me avere un rapporto con le stelle del passato. Riconosco che hanno fatto tanto per il gioco, ci hanno agevolato. Ma questa è una nuova generazione di giocatrici. Stiamo giocando in maniera diversa rispetto a quando hanno giocato loro più di un decennio fa. Allora, perché c’è bisogno di essere paragonate?». Hope l’abrasiva.

Detestata in quei giorni dalla stampa, ancora una volta malvista dalle compagne, poi il rigore parato in semifinale con il Brasile. Lei che le porta tutte in finale, a Wembley. Lei, ovvero una capace di dire una frase così: «Bacio i sederi delle mie compagne, ma se necessario li prendo a calci». E lì a Wembley contro il Giappone, altre parate, tante, tutte. Suo il merito della seconda medaglia olimpica consecutiva degli Stati Uniti. Abbracciata dalle compagne tutte e dall’America intera perché se vinci sei comunque un mito.

La biografia uscita subito dopo Londra ha scatenato un altro codazzo di polemiche. Hope accompagnata dalla sua fama e dalla sua lingua, in lotta con molti e con tutte quelle cose da dire. La storia della famiglia, delle botte alla sorella e al nipote sembrava sparita. I giornali se ne erano occupati poco, il giusto in quei giorni. Sembrava una di quelle cose che accadono in America alle star: robe brutte, ma sempre un po’ sovradimensionate. Questo potrebbe essere l’ultimo Mondiale: ci era arrivata per una volta in silenzio s’è ritrovata in campo con il chiasso. Stavolta non ha parlato lei. S’è vendicata contro la Colombia, la Cina, la Germania, il Giappone. 177 presenze sono tante, soprattutto sono sufficienti a cancellare quella storia di Brianna Scurry, dei codici infranti, delle parole che non si dicono e che lei, Hope Solo ,dice sempre. Non si sa chi abbia ragione. Ma così c’è sempre un numero che alla fine può parlare più di te.

 

Una versione di questo articolo è stata pubblicata il 21 giugno su il Foglio.