Steinar Nilsen, a nord di tutto

A tu per tu con l'ultimo norvegese nella storia del Milan, ex anche del Napoli: la sua devozione per il Tromsø, il suo mondo, la sua parentesi italiana.

Tutto è nord a Tromsø. Anche se in inverno la colonnina del mercurio scende raramente sotto i -5° e il mare non ghiaccia mai. Il resto sono montagne innevate, vento tagliente e luci del nord, di quelle che ti riconciliano con il mondo, non importa quando pesante sia il fardello che ti grava sulle spalle. La città più a nord del mondo, con l’università più a nord del mondo – la UiT Norges Arktiske Universitet, tutto quello che vi hanno raccontato sulla perfezione scandinava in termini organizzativi, gestionali e metodologici lo trovate qui – e anche il goleador più nordico nella storia del derby di Milano, Steinar Nilsen. L’incipit del romanzo “Che ne è stato di te, Buzz Aldrin?” del novelist norvegese Johan Harstad sembra sia stato scritto apposta per lui. «Certe persone non vogliono il mondo intero, anche se potrebbero averlo. Certe persone non vogliono un paese tutto per loro. Certi vogliono solo essere una parte del tutto. Utile, anche se modesta. Non tutti hanno bisogno del mondo intero».

Sicuramente non Nilsen né Tromsø, città e squadra, piccole ruote nell’ingranaggio del grande calcio, persino la Norvegia con i suoi 2500 chilometri di costa è troppo grande per loro. Nilsen ha frequentato il TIL (acronimo di Tromsø Idrettslag) due volte da giocatore e tre da allenatore. L’ultima si è conclusa pochi giorni fa, il 18 agosto, con l’esonero, a nove mesi di distanza dalla festa per la promozione in Tippeliga, la massima divisione norvegese. Ma contro aspettative e ritmi schizofrenici del calcio moderno non esiste nord che tenga. Due salvezze-miracolo (nel 2005 con 16 punti totalizzati nelle ultime 6 partite, nel 2006 con 3 vittorie nelle ultime 4 giornate), il primo accesso nella storia del club alla fase a gironi dell’allora Coppa Uefa e la già citata promozione non sono state ritenute una garanzia sufficiente.

Lo erano invece quelle presentate nell’autunno del 1997 ad Adriano Galliani da Per Bredesen, ex rossonero nonché unico giocatore norvegese ad aver vinto il campionato in Italia. «Avevo un bel destro», ricorda Nilsen, «fisicamente non temevo rivali e di testa sapevo farmi valere». YouTube, Wyscout e prodotti affini erano solo parole senza senso, così il giudizio di uomini fidati risultava ancora più fondamentale. E Bredesen lo aveva visto parecchie volte quel giovanotto che diceva di ispirarsi a Franco Baresi (sempre la stessa storia, ieri come oggi, e per fortuna non è mai spuntato il tema delle elementari nel quale Nilsen sognava un futuro in rossonero), ma forse si era perso la sua prestazione migliore, l’11 novembre ’97 in Coppa delle Coppe contro il Chelsea di Ruud Gullit. Non perché non fosse presente in tribuna, ma per oggettiva impossibilità di vedere quanto stava accadendo in campo a causa di una gigantesca bufera di neve che si era abbattuta su Tromsø. E mentre Gullit si sgolava contro l’arbitro gridando che quello non era calcio, Nilsen segnava con uno splendido tiro al volo, Frode Fermann raddoppiava e Ole Martin Årst portava a tre le reti dei Gutan. Nel mezzo, una doppietta targata Gianluca Vialli, che davanti a sé poteva avere la Cattedrale Artica, la Nordlys in partenza per Hammerfest o semplicemente la porta dell’Alfheim Stadion, lui tirò lo stesso perché non si vedeva ad un metro e perciò tanto valeva provarci. Poi i norvegesi ne presero 7 al ritorno a Stamford Bridge, ma un pezzo di storia l’avevano scritta. Perché per squadre così i successi saranno sempre singole partite, mai trofei.

Il 3-2 con cui il Tromsø piegò il Chelsea, poi vincitore del trofeo, nella Coppa delle Coppe 1997/1998. Il primo gol lo segna Nilsen.

Per il Milan Nilsen rifiutò il West Ham. Scelta logica in qualsiasi parte del mondo che non sia l’East End londinese o la Norvegia, paese cresciuto a pane e calcio inglese, tanto che ancora oggi girando per Oslo un sabato pomeriggio si vedono più zaini e maglie di Arsenal o Liverpool che foto di re Harald V (tifosissimo del Tottenham, oltretutto). «La nostra percezione del calcio inglese», commenta Nilsen, «equivale a quella di un tifoso di un piccolo club locale che segue anche la squadra della metropoli vicina. C’è deferenza, ammirazione, tentativo di emulazione». Facile immaginare come il diretto interessato accolse, una volta sbarcato in Italia, la proposta di un prestito al Monza. «Non avevo certo detto no all’Inghilterra per finire in un piccolo club, e lo feci presente con molta determinazione».

La stessa che riscontrò in Fabio Capello al primo allenamento. «Mi fece capire subito come funzionavano le cose in Italia. Dopo il primo allenamento parlò bene del sottoscritto alla stampa, invece in privato mi affrontò a muso duro dicendomi che dovevo dimagrire. Imparai cosa significava gestire i media. Lassù al Circolo Polare Artico non funzionava certo così». Un’ora di allenamento extra in palestra al giorno, e dieta rigorosa. «Chiesi cosa avrei potuto mangiare, Capello replicò: quello che troverai nel piatto».  È un Milan da fine impero, che finirà decimo in campionato, e bisognerà attendere la gestione Inzaghi per trovare il Diavolo di nuovo così in basso. Nilsen visse i suoi quindici minuti di celebrità di warholiana memoria la sera dell’8 gennaio 1998, andata dei quarti di finale di Coppa Italia. Titolare al posto dell’infortunato Cruz, fissò il punteggio sul 5-0 con una punizione rasoterra che Pagliuca si limitò a guardare. «Dopo, però, un’entrata dura di Ronaldo mi procurò una lesione al menisco. Penso di essere stato uno dei rari giocatori al mondo, se non l’unico, a finire in infermeria per colpa del Fenomeno». Rientrò due mesi dopo contro la Juventus, in una linea difensiva a quattro (come le reti segnate dai bianconeri) Nilsen-Smoje-Maldini-Daino. Trovate l’intruso.

8 gennaio 1998, derby della Madonnina di Coppa Italia: il Milan strapazza l’Inter, il 5-0 lo sigla Nilsen con una gran botta.

«Gli infortuni sono stati una costante della mia carriera, a causa loro ho perso anche il Mondiale ’98, il miglior torneo mai disputato dalla Norvegia». Al Milan chiuse con 7 presenze stagionali e un gol – quel gol. Bottino identico a quello di un altro nordico arrivato a Milano in quella stagione, Andreas Andersson, che però di professione faceva l’attaccante. Nilsen scese quindi in B con il Napoli, «e lì mi accorsi davvero di essere in Italia, o quantomeno, di ciò che noi dall’esterno percepivamo come Italia. Milano è molto, troppo internazionale». Prestazioni oneste, i soliti infortuni, l’ultimo dei quali particolarmente grave. «Dovetti sottopormi a un trapianto di cartilagine, litigai con la società e rescissi il contratto». A 29 anni, ma con gambe da 40enne, per Nilsen esisteva una sola strada da percorrere, e portava dritto verso nord. A Tromsø, più a nord di tutto. Ancora giocatore, poi allenatore, anche se la voglia scivolava lentamente via, soprattutto dopo una non felice esperienza da tecnico del Brann Bergen. «Andai a lavorare in un albergo, e mi offrirono un contratto come commentatore televisivo. Il calcio visto dall’altra parte della barricata, una bella esperienza. Allenavo i ragazzini, dissi a mia moglie che non avrei più accettato una panchina. Tranne una. E quando il telefono è squillato, ho dovuto andare, e lo farò ogni volta che ci sarà bisogno». A quelle latitudini funziona così. Che il mondo intero se lo prenda pure qualcun altro.