Flavia Pennetta e oltre

La brindisina è in semifinale agli Us Open, per la seconda volta in carriera, e insegue la prima finale Slam. Una lunga rincorsa, tra delusioni e l'incessante ricerca di un equilibrio.

La vita di Flavia Pennetta è tutta in quella fuga negli spogliatoi dopo il primo set, perso 6-3 contro Maria Sharapova. «Sentivo tanto le aspettative e mi sono fatta sopraffare. Sono dovuta uscire dal campo, mi sono sfogata e ho ripreso il controllo di me stessa». Era il 18 marzo, ottavi di Indian Wells. Semplificando: c’è una vecchia e una nuova Pennetta. In quell’attimo, la vecchia Flavia era ritornata, in qualche modo: la ragazzina che urta i suoi obiettivi e li fa rompere in mille pezzi. Toccava all’altra, la nuova, decidere cosa fare di quel passato che ritornava di colpo. A 33 anni, si può, si deve. Quando la Pennetta si ripresenta contro Sharapova, non è più quella del primo set: non ha più paura, eleva il livello del suo gioco e non fallisce gli appuntamenti cruciali del match. Domina l’avversaria, la scoraggia punto dopo punto. Chiude la partita. Vince.

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Spesso si è parlato di “rinascita” di Flavia Pennetta, se ne parlerà ancora ora che la brindisina è in semifinale agli Us Open, traguardo raggiunto anche nel 2013. Ha già compiuto un percorso notevole, buttando fuori Sam Stosur, che sul cemento americano si impose nel 2011, e Petra Kvitova, due volte campionessa di Wimbledon. Adesso insegue la prima finale Slam in singolare della sua carriera, e a 33 anni non è una questione scontata, quando le tue avversarie hanno dieci, persino quindici, anni meno di te. «We are old, I know – I mean, old for tennis», vecchia per il tennis, ammette Flavia. «But for life we are young». Giovane per la vita, perché in tutta la parabola di Pennetta il percorso sportivo e quello personale procedono di pari passo, molto di più rispetto alla media dei colleghi. Così la second life tennistica di Flavia si interpreta come un prolungamento di una second life privata. In mezzo alla vecchia e alla nuova Pennetta c’è una linea di confine: una corsa metaforica verso lo spogliatoio della sua vita, a rimuginare sulle paure e sulle delusioni. Prima di tornare in campo.

La vittoria nei quarti di Flushing Meadows contro Petra Kvitova.

Nel 2012, la sua carriera rischia di arenarsi, forse di concludersi, schiacciata sotto il peso di troppi punti interrogativi. Per tutto l’anno, Flavia era stata tormentata da dolori al polso destro, tanto che ad agosto fu costretta a sottoporsi a un intervento. Lontano dal campo per settimane, mesi, una lunga discesa che la trascina nelle profondità del ranking. Un numero che vale per tutti: 166. «Se non torno subito tra le prime cento, smetto», prometteva Flavia, e tutto faceva intendere che dicesse sul serio.

Dietro quell’accenno di resa, c’era molto di più del semplice timore di non competere più ad alti livelli. A un certo punto, le delusioni le piombavano addosso una dietro l’altra. Come se a lanciarle fosse una macchina spara-palline, il “drago”, come lo chiama Agassi. Nel 2007, la brindisina si reca a Bastad, per fare una sorpresa al suo fidanzato Carlos Moyá, anche lui tennista. Lo scopre con un’altra, e tanto basta per farla precipitare in uno stato catalettico. «Il pensiero mi consumava come un’erbaccia. La gente provava pietà per me e io non riuscivo a difendermi neanche da questo. Era come se avessi perso il “gusto” delle cose. Cercavo di anestetizzarmi nei confronti della vita, per non avvertire dolore. Non sentivo neanche quello fisico. Un esempio stupido: persino quando facevo la ceretta, non sentivo niente». Flavia ci rimase talmente male da perdere dieci chili. Pochi mesi dopo, nel 2008, la morte dell’amico Federico Luzzi fu un altro colpo terribile: «Era il mio fratello maggiore». Fino al 2012, l’anno dei tormenti al polso, con un altro amaro di contorno, il ritiro dal circuito della grande amica Gisela Dulko, con cui l’anno prima aveva vinto il primo Slam della sua carriera, il doppio agli Australian Open.

«Cercavo di anestetizzarmi nei confronti della vita, per non avvertire dolore»

A questo punto Flavia scappa. Scappa da qualcosa che la insegue, e non la gratifica. «Per Carlos mi sono allontanata dall’Italia, dalla mia famiglia, dai miei amici. La mia passione è stata lui, mi sono data totalmente, e ho perso l’equilibrio. Devo ritrovarlo. Devo ripartire da lì. Sono senza fidanzato, senza casa, senza sogni, senza progetti». Va a New York. Gli States. «Vado in America a riprendermi la mia vita». Sarà davvero il territorio della sua “rinascita”: le semifinali degli Us Open, ma anche il torneo di Indian Wells vinto nel 2014, il più importante della sua carriera. «It’s up to you, New York». In un anno Flavia passa dalle retrovie del ranking fino al numero 31. È tornata diversa: «Da giovane, vivevo le partite con troppa ansia. Adesso voglio godermi la vita e divertirmi, anche in campo». E si vede: Flavia non stecca più nei momenti decisivi. Fino a due anni prima diceva: «In campo mi sento una meteora, mentalmente reggo fino a un certo punto». Ora è proprio la forza mentale, unita al talento, a fare la differenza con le avversarie. Ha una tranquillità che prima non era in grado di abbracciare: è coinvolta, non condizionata dal gioco. Dice: «Guardo le cose da un’altra prospettiva».

2015 U.S. Open - Day 8

Oggi ha un nuovo amore, Fabio Fognini, e un nuovo coach, lo spagnolo Salva Navarro. «Dirò la verità, non avrei mai pensato di tornare ad alti livelli». Di colpo, tutto si è alleggerito, anche certi pensieri che gravitano stabilmente nelle teste degli atleti: «Ho pensato di ritirarmi tante volte durante la carriera. Arriverà un momento in cui mi fermerò, ma non so dire quando».

 

Nell’immagine in evidenza, Flavia Pennetta agli Us Open. Al Bello/Getty Images