Underdog

Il West Ham di Slaven Bilic è terzo in classifica dopo aver battuto in trasferta Arsenal, City e Liverpool. Eppure, dalle parti di Upton Park, nessuno riesce ad abbandonarsi alle illusioni.

«Vincere è come entrare in un pub e scoprire che è pieno di donne: una cosa che fa piacere a tutti». Slaven Bilic al West Ham c’era già stato da giocatore nel ‘96/’97, e in effetti in quegli anni un tifoso degli Hammers aveva più possibilità di trovare eserciti di veline al Boleyn o al Queen’s piuttosto che di battere Arsenal, Liverpool e Manchester City in trasferta. E di certo non perché i pub di Green Street, rudi fucine di feroci hooligans, brulicassero di fauna femminile. Quasi vent’anni dopo, invece, l’aforisma dell’allenatore croato dipinge una situazione completamente nuova per i supporter claret and blue: quest’anno chissenefrega delle donne al pub, quest’anno è l’ultimo anno all’Upton Park prima di traslocare allo Stadio Olimpico, quest’anno si vince in casa dei mostri sacri.

Già, perché l’inizio di stagione, nel popolare e passionale East End di Londra, è stato memorabile. Quattro vittorie in sette turni, terzo posto in classifica, 2-0 all’Emirates Stadium nel derby coi Gunners, 3-0 ad Anfield Road e 2-1 a domicilio al City fino a quel momento a punteggio pieno. Per dire, lo scorso giugno nel negozio ufficiale si vendeva la maglietta commemorativa del tris di vittorie contro l’odiato Tottenham, quindi per quest’anno di materiale per una nuova t-shirt ce n’è già a sufficienza dopo un solo mese di Premier League.

Il successo sul Crystal Palace.

Eppure l’estate era stata drammatica, con l’addio del mister Sam Allardyce (il protagonista della promozione dalla Championship nel 2011) e una serie di rifiuti di potenziali allenatori, da Moyes ad Ancelotti, e di potenziali nuovi acquisti, da Zaza a Negredo a Matri e Chicharito Hernandez. Una compilation di due di picche che l’arrivo in sordina di Bilic, vecchia conoscenza di Upton Park e reduce da due convincenti terzi posti in Super Lig turca alla guida del Besiktas, non aveva reso meno amara. Anzi, l’eliminazione al preliminare di Europa League per mano dei carneadi rumeni dell’Astra Giurgiu lasciava presagire una delle solite stagioni di lotta, polvere e bassifondi che dal 1895 costituiscono il principale patrimonio genetico del West Ham United Football Club. Invece, come d’incanto e in barba al buon senso che di norma vorrebbe una campagna acquisti farraginosa tramutarsi presto in un fallimento, l’ultimo giorno sono arrivati Moses dal Chelsea e Song dal Barça (rinnovo del prestito), Jelavic dall’Hull City e Antonio dal Nottingham Forest. E la squadra si è trasformata.

Il merito, concordano tutti, è di due persone. Una suona la chitarra nel gruppo hard rock dei Rawbau, porta l’orecchino e siede in panchina con una laurea in legge in tasca. L’altra sfoggia un look mohicano alla Vidal ed è il più talentuoso giocatore ad aver suscitato i cori di approvazione della Bobby Moore Stand dai tempi di Carlos Tévez. Il primo è Slaven Bilic, l’uomo che ha donato un’identità immediata alla squadra dopo averle donato il cuore nel ’97, quando da difensore centrale ritardò il suo trasferimento all’Everton per contribuire alla salvezza degli Hammers che lo avevano pescato al Karlsruhe. Il secondo è Dimitri Payet, l’uomo che ha acceso la luce in campo. E il risultato è quella che i commentatori definiscono «una squadra divertente come quella in cui giocavano Lampard, Carrick, Joe Cole, Rio Ferdinand e Di Canio» e «un West Ham diverso da tutti gli altri».

Il meglio di Dimitri Payet

Con 15 gol su 52 tiri in porta, nessuno è letale quanto il West Ham

Ma in cosa sono diversi questi Hammers, a parte la collezione da record di scalpi strappati alle big del campionato? Innanzitutto nella duttilità tattica e nella filosofia di gioco. Bilic ha cambiato già tre moduli, alternando le due punte (Zárate e Sakho) al solo Sakho centravanti, il cosiddetto albero di Natale a un quadratissimo 4-1-4-1. Lo ha fatto con una sapienza tattica da scafato stratega balcanico, adattandosi agli avversari come se li avesse studiati da decenni: con l’Arsenal ha dato le chiavi del centrocampo al sedicenne Oxford, prosciugando i calici del calcio-champagne di Wenger; con il Liverpool (già eliminato in Europa League l’anno scorso col Besiktas) ha sacrificato Payet e l’argentino Lanzini per stringere sui trequartisti dei Reds mettendo in campo anche un ottimo possesso, col Manchester City ha scelto la vecchia scuola del catenaccio e del “bus parcheggiato davanti alla porta, ma senza freno a mano tirato”, così da colpire quando possibile, ineluttabile come un pullman lanciato in discesa. E se a un allenatore bravo date anche l’arguzia di inventare frasi a effetto come queste, avrete un’idea del perché Bilic sia già un idolo e un potenziale erede del carisma di Mourinho.

Oltre all’ex marsigliese Payet, classe sopraffina nella visione nitida dell’ultimo passaggio e già tre gol all’attivo, i protagonisti del buon inizio sono il portiere Adrián, il centrocampista senegalese Kouyate e la vecchia conoscenza della Serie A Mauro Zárate, finalmente tornato decisivo. Decisivo almeno quanto la principale caratteristica della squadra finora: la precisione realizzativa. Con 15 gol su 52 tiri in porta, nessuno è letale quanto il West Ham. Eppure, nonostante questa nuova dimensione da ammazza-padroni che calza a pennello per una squadra così operaia da avere due martelli da cantiere nel proprio stemma, gli Hammers in fondo sono sempre un club “fuckin’ mental”, dannatamente pazzo. In campo picchiano sempre come se lavorassero in fonderia (già tre le espulsioni), nello spogliatoio c’è sempre qualche mela marcia (Amalfitano è stato messo fuori squadra in un nanosecondo) e dopo ogni successo con una grande arriva una puntuale doccia ghiacciata contro i vari Bournemouth o Leicester. Quasi che tutto funzionasse a meraviglia quando la squadra è data per vittima sacrificale, mentre quando è favorita rispuntassero le vecchie amnesie, in una involontaria e quasi marxista propensione per l’harakiri davanti ad avversari proletari.

Ma se si mette tra parentesi la politologia calcistica da strapazzo, qualche spiegazione razionale a questo West Ham dissociato ma sorprendente la si trova. C’è chi parla di squadra costruita per il contropiede manovrato e veloce, chi attribuisce l’ottimo stato di forma alla preparazione estiva iniziata in anticipo per preparare il preliminare europeo, chi mette l’accento sull’importanza del pieno recupero di Ogbonna dopo un autogol e un disastroso primo tempo contro il Bournemouth e chi maligna di successi “drogati” da una rosa strapagata di 27 giocatori e da un mercato chiuso con 50 milioni di passivo che costringerà i proprietari Sullivan e Gold a cedere qualche gioiello (Cresswell il più richiesto) già a gennaio. Per il resto, i limiti esistono e nessuno – neppure quei mattacchioni dei supporter che in casa del City cantavano ironicamente «We’re going to win the League» – si illude. La Claret and blue army è la tifoseria che sul 4-0 per gli avversari inscena esultanze fittizie al grido di “fingiamo di aver segnato almeno un gol”, figurarsi se sogna allori. Al massimo pinte. La vita dell’Hammer, alla faccia dell’inno, non è fatta di «pretty bubbles in the air», ma di tradimenti e dolori e nessuno è tanto scemo da credere di poter competere sul serio con United, Chelsea o City. Soprattutto dopo la scorsa stagione, chiusa con un girone d’andata da Champions League e un ritorno da campionato amatori. Meglio accontentarsi dunque di quel che arriva: un gol in mischia, il Millwall in terza divisione, qualche trionfante trasferta da ricordare, un’altra maglietta commemorativa. Lo ha detto anche l’ultimo match di Premier, finito 2-2 col Norwich con gol del pareggio – siglato da Kouyate – arrivato durante il recupero. La solita, mezza doccia fredda che riporta tutti sulla terra. Sperando almeno che sulla terra i pub siano pieni di donne.

 

Nelle immagini, momenti prima della partita contro il Norwich. Justin Setterfield/Getty Images