Le ragioni di uno sport d’élite

Perché il rugby, diversamente dal calcio, è dominato costantemente dalle stesse nazionali, nonostante il successo, a sorpresa, del Giappone sul Sudafrica.

Il rugby è uno sport elitario, perché è nato nel college di Rugby nel 1823 quando un ragazzino snob decise di fare ciò che nessuno dei suoi compagni faceva: raccogliere il pallone tra le mani e correre senza calciarlo. Il rugby è uno sport elitario perché giocato storicamente dalle upperclass britanniche e delle colonie, ma anche francesi e argentine. Ma non è solo questo.

Cosa hanno in comune Nuova Zelanda, Australia, Sudafrica e Inghilterra? Sono le quattro formazioni che sono salite sul tetto del mondo ovale, cioè le quattro nazioni che hanno vinto una Coppa del Mondo. Con le tre dell’Emisfero Sud ad aver portato a casa due trofei. Aggiungendo la Francia, ecco che abbiamo elencato tutte le finaliste delle prime sette edizioni della Rugby World Cup. Cinque squadre che, dal 1987 a oggi, si sono spartite i quattordici posti a disposizione per contendersi il titolo mondiale. Una cerchia ristrettissima. Che non si allarga molto se ampliamo l’orizzonte e guardiamo cosa è successo nelle semifinali. Alle prime possiamo aggiungere il Galles, due volte in semifinale, l’Argentina e la Scozia, che ne hanno giocata una sola.

newzealand

Il rugby è da sempre considerato uno sport di nicchia e i risultati della Coppa del Mondo sembrano confermare questa vulgata. È un affare per pochi. A ben vedere, potremmo dire per i soliti noti. Le tre formazioni più rappresentative dell’emisfero Sud — cui si aggiunge l’Argentina, entrata da poco nel Rugby Championship, torneo un tempo conosciuto come delle Tre Nazioni —, e quattro delle sei squadre che partecipano al Sei Nazioni. Con Italia e Irlanda staremmo parlando dell’élite più nobile del rugby mondiale.

Qui iniziano le polemiche: in tanti da anni si chiedono perché il rugby non sappia aprirsi ad altre realtà, perché alla fine siano sempre le stesse a vincere. In Inghilterra, quest’anno, diciannove squadre su venti sono le stesse che hanno disputato la Coppa del Mondo di quattro anni fa, con il solo Uruguay ad aver preso il posto della Russia. Per fare, però, la parte della comparsa, del comprimario senza speranze. Nel rugby è (quasi) impossibile immaginare di imbattersi in una Corea o un Costa Rica, giusto per rivangare due momenti dolorosi della storia azzurra del calcio. Nel rugby la squadra più forte vince (quasi) sempre, con le dovute eccezioni a confermare la regola. In questo caso emerse pochi giorni fa, quando il Giappone, nella prima partita del girone B, ha battuto il Sudafrica.

La sorprendente vittoria del Giappone sul Sudafrica per 34-32.

La favola della piccola nazionale che da anni sognava l’élite mondiale si è compiuta a Brighton. Una vittoria voluta, arrivata a tempo scaduto, miracolo di una Cenerentola che sorprende la matrigna cattiva. Un’eccezione, appunto. Di fronte a un Sudafrica pieno di problemi che ha sottovalutato una squadra orgogliosa, cresciuta moltissimo a piccoli passi, nella sordina internazionale. Una vittoria che smentisce quello detto fino a ora? Forse. Ma va ricordato che il Sudafrica resta in corsa per i quarti di finale, mentre il Giappone avrà altri due scogli durissimi chiamati Samoa e Scozia davanti a sé. Nella partita secca tutto può succedere, ma se si pensa a un torneo lungo un mese e mezzo le sorprese sono rarissime.

Anche guardando ai quarti di finale, quelli cui l’Italia sogna di arrivare da ventotto anni, le Cenerentole sono ridotte all’osso. L’Irlanda ci è capitata cinque volte, due volte le Fiji e Samoa e, ecco la sorpresa, una volta ci è arrivato il Canada, ma più di vent’anni fa. Eccezioni, perché per il resto tutto appare già scritto alla vigilia. E qui torna il paragone con il calcio. Cosa succede nei mondiali di calcio?

Guardiamo solo alle edizioni dal 1986 al 2010, quindi sette tornei, come quelli giocati dal rugby nello stesso periodo di tempo: le vincitrici (nel rugby sono quattro) sono state Brasile, Germania, Italia, Argentina, Francia e Spagna (cioè sei). Le finaliste (cinque nel rugby) sono state sette (Olanda). Ma la grande differenza con la palla ovale appare chiara guardando alle semifinali. Se nel rugby solo otto squadre hanno raggiunto questo traguardo, nei Mondiali di calcio il numero raddoppia. Dalla Svezia all’Uruguay, dalla Corea del Sud al Belgio, sono tanti gli outsider che sono riusciti a entrare nella top quattro mondiale. La domanda è: il rugby ha un problema di esclusività?

Guardando al calcio la risposta sembrerebbe ovvia. Ma pensando ad altri sport di squadra, la faccenda cambia. Nel basket, per esempio, dal 1986 a oggi la vittoria mondiale è stata una questione a due tra USA e Jugoslavia, con la sola Spagna a imporsi nel 2006. Le finaliste sono state otto e le semifinaliste quindici; per quanto riguarda la pallavolo, negli stessi anni ci sono state quattro vincitrici, otto finaliste e tredici semifinaliste, anche se — va detto — il crollo sovietico e la frantumazione delle nazioni dell’URSS e dei Balcani falsano leggermente i dati.

In sintesi, in tutti gli sport, le nazioni vincenti sono poche, sempre le stesse. Che sia calcio, rugby o pallacanestro le cose non cambiano molto, ma la grande differenza tra il rugby e gli altri sport riguarda gli outsider. Nel rugby sono pochi e sempre quelli, mentre le altre discipline regalano sorprese o novità a ogni edizione, con l’underdog di turno che riesce a raggiungere almeno le semifinali.

Anche a livello giovanile si registra lo stesso meccanismo: qui la finale dei Mondiali Under 20, vinta dalla Nuova Zelanda contro l’Inghilterra.

Il primo motivo a scatenare questo fenomeno è fondamentalmente sportivo. Nel rugby, a differenza delle altre discipline, i fuoriclasse sono essenziali, ma da soli non possono vincere. Nel calcio, dove i punteggi sono bassi, una prodezza di Cristiano Ronaldo o la tecnica di Maradona possono trasformare una buona squadra in una squadra vincente. Nel basket, dove sul parquet si è solo in cinque, un fenomeno come Gasol è riuscito a trascinare una Spagna non spettacolare fin sul trono d’Europa, proprio pochi giorni fa. Nel rugby non basta un Sergio Parisse — cioè un giocatore che sarebbe titolare in qualsiasi nazionale al mondo — per trasformare l’Italia. I campionissimi sono fondamentali, ma per arrivare sul tetto del mondo serve ben più di un solo protagonista.

Il secondo motivo è organizzativo. Nel calcio, ma anche negli altri sport di squadra, le nazionali più forti si confrontano con quelle minori costantemente. Non solo i tornei continentali, dagli Europei alla Coppa America, ma anche le gare di qualificazione obbligano le nazionali più forti a giocare con tutti e quelle minori a confrontarsi costantemente con i migliori. Nel rugby è tutto diverso. Non ci sono tornei continentali, mentre ai Mondiali sono qualificate di diritto ben dodici nazionali, vale a dire le migliori tre di ogni girone della Coppa del Mondo precedente. Quindi, le qualificazioni riguardano solamente gli outsider, che durante l’anno difficilmente si confrontano con i migliori e nel migliore dei casi arrivano al Mondiale motivati, ma non molto preparati.

Sei Nazioni e Rugby Championship sono spettacolari, ma sono tornei chiusi. Dieci nazioni che ogni anno si sfidano tra di loro e, quando non lo fanno nelle due competizioni, lo fanno nei test match estivi e autunnali. Sono rare, anzi rarissime, le occasioni per le nazionali in crescita come Georgia, USA e Giappone di confrontarsi con All Blacks, Inghilterra o Francia. Un sistema chiuso che, di fatto, continua a far migliorare le migliori, ampliando anno dopo anno il gap tra queste e i gradini più bassi del ranking mondiale.

South Africa v Japan - Group B: Rugby World Cup 2015

L’ultimo problema è sociale. Sembrerà banale, ma la verità è che a calcio giocano tutti. Il football è uno sport globale in tutti i sensi e in tantissimi Paesi è il primo a cui i bambini si avvicinano, fin da piccolissimi. Questo significa che anche nazioni meno nobili calcisticamente parlando possono pescare tra i giocatori fisicamente e tecnicamente più forti per costruire una nazionale comunque competitiva. Il basket e la pallavolo, invece, hanno la fortuna e il vantaggio di essere i più classici sport scolastici, quelli che si possono imparare in ogni palestra durante le ore di educazione fisica. Il rugby, tolto quel pugno di Paesi in cui è lo sport nazionale, è la terza, quarta, quinta scelta. Sei un ragazzino altissimo e robusto? Prima provi col basket, poi magari con la pallavolo e, infine, cedi al fascino ovale e ti ricicli seconda linea. Intanto però i più atletici sono già stati opzionati da altri sport. Forse una spiegazione banale, ma fondamentale per comprendere il gap tra le nazioni più ovali e quelle più tonde.

Il rugby è uno sport elitario, per pochi. La World Rugby — il governo della palla ovale mondiale — investe e lavora per ampliare la base in giro per il globo, ma se gli appassionati aumentano, non aumenta, invece, la competitività all’altissimo livello. Una Corea, nel rugby, non è all’orizzonte. Con la speranza che la nuova eccezione possa essere proprio l’Italia.

 

Nell’immagine in evidenza, il giapponese Ayumu Goromaru in una fase del match vinto contro il Sudafrica. Julian Finney/Getty Images