The Others

In NBA, Golden State continua a battere tutti gli avversari; e poi c'è Philadelphia, che invece le perde tutte. Cosa succede e perché la sconfitta può diventare strategica.

C’è solo una squadra, nella storia dell’NBA, che può “vantarsi” d’aver eguagliato il peggior starting record della stagione regolare NBA, lo 0-18 dei New Jersey Nets nel 2010: Philadelphia 76ers, i terzi della gestione Brett Brow. «Again?» si chiedono nella città dell’amore fraterno, dove si è assistito a due 0-16 consecutivi, altro record negativo nella storia dell’NBA, difficilmente ripetibile. Così, mentre Golden State si diverte ed entra nella storia con una partenza mai vista, l’ormai noto 22-0, Philadelphia combina l’esatto contrario: contando anche le ultime gare della stagione passata, fanno 28 sconfitte di fila.

Tra le trenta squadre in NBA, Philly risulta ultima in quasi tutte le statistiche: peggior numero di punti per partita (90 di media), peggior differenziale di punti, ultimi per efficienza offensiva e per percentuali dal campo (sotto il 40%). Senza considerare il rapporto tra assist e palle perse, uno dei peggiori di sempre e le palle perse, 21 a partita di media, vera piaga della squadra, che ha assunto anche contorni tragicomici come nei casi di Noel e di Okafor, dovuti probabilmente alla scarsa attenzione. Proprio quest’ultimo sembra produrre gli unici highlight interessanti, nel bene e nel male. Il miglior rookie dell’NBA finora non ha ancora vinto una partita tra i professionisti: la sua squadra di college ha vinto il campionato più recentemente di quanto i 76ers abbiamo raggiunto una doppia V. Forse anche per questo i suoi nervi stanno cominciando a saltare, come dimostra la scazzottata della scorsa notte in un locale di Boston dopo l’ennesima sconfitta. Verrà squalificato e tornerà a piovere sul bagnato per i poveri Philadelphia 76ers, che se non riusciranno a vincere una partita entro novembre entreranno nella storia dalla parte sbagliata.

Okafor nei guai all’uscita di un locale. Come se non bastassero i guai del campo.

Perderle tutte is a big shame, ma, visto che non ci sono né retrocessioni né penalità, potrebbe anche tornare utile. Nel massimo campionato di basket, infatti, la squadra che arriva ultima aumenta le sue probabilità di poter avere la prima scelta al Draft dell’anno seguente. In breve: quel meccanismo che permette ai giocatori del college (o che vengono da Paesi non USA) di iscriversi al campionato professionistico americano. Come ultima in classifica non si ha automaticamente la prima scelta, ma il 25% di possibilità (fatto cento il totale delle peggiori 14 squadre) di averla. Una delle conseguenze più spiacevoli di questa regola è il tanking, quel processo secondo cui i team potrebbero deliberatamente decidere di perdere per poter avere l’occasione di rifondare l’anno dopo puntando sui più splendenti talenti collegiali.

Non per forza il tanking deve essere considerato come qualcosa di negativo,  soprattutto non sempre deve assumere quel nome. Piuttosto: una stagione di transizione nella quale si cerca di sviluppare il potenziale della propria squadra. I Philadelphia 76ers dovrebbero star facendo proprio questo. «Non guardi le partite dei 76ers 2015 per vedere una squadra vincere, la guardi per lo sviluppo dei giocatori. Lo fai per vedere che movimenti ha imparato Noel, se migliora il suo tiro dalla media. Vuoi vedere i tuoi giocatori migliorare, non ottenere vittorie che alla fine dell’anno non avranno comunque nessuna utilità», ha detto Ronald AngSiy, uno studente che ha iniziato un crowdfounding per comprare un regalo per il suo allenatore. Un pensiero che lo aiuti a scaricare lo stress, così i pensieri dei tifosi – espressi su un subreddit – viaggiano tra i pacchetti relax e incomprensibili cesti di frutta.

Shaqtin a Fool, il punto di Shaq sugli epic fail dell’NBA: la prima nomination, manco a dirla, è per Philadelphia con Noel.

L’umore tra i tifosi non è così basso come si potrebbe pensare, semplicemente perché non contrario alle aspettative. Certo è che il progetto stenta a decollare, e che le ultime stagioni sono state parecchio deludenti sotto tutti i punti di vista. Se tre anni fa la scelta di Nerlens Noel era considerata futuribile, date le precarie condizioni del prodotto di Kentucky, quella del 2014, Joel Embiid, è stata costretta a saltare tutta la passata stagione e non ha ancora messo piede sul parquet in quella attuale. C’hanno riprovato ancora, quest’anno, con un altro centro, Jahil Okafor, che ha iniziato molto bene la stagione, ma che poi, come detto, è rimasto coinvolto in una spiacevole scazzottata.

Un processo di svecchiamento che ha portato i Sixers ad avere un roster di giocatori tutti nati (con la sola esclusione di Carl Landry) dal 1990 in poi. Un processo iniziato con la mega-trade che aveva portato Andrew Bynum, un altro centro disgraziato, a Phila in cerca di consacrazione. In quella stessa trade lo storico capitano Iguodala finiva ai Denver Nuggets. L’età media della squadra è stato poi il motivo principale per cui la direzione è stata affidata a Brett Brown nel 2013, uno che fino all’anno precedente era direttore dello sviluppo dei giocatori e assistente nella fucina di San Antonio. Coltivare il potenziale era quindi l’obiettivo dichiarato della dirigenza Sixers, se poi si riesce ad avere un’altra prima scelta alta (diciamo tra le prime tre) tanto meglio.

Il dominio di Okafor sulla prima scelta del Draft 2015, Karl-Anthony Towns.

Non c’è altra spiegazione all’ennesima scelta di un centro al Draft se non nell’ottica di coltivare talento, in modo tale d’avere i migliori giocatori del futuro tutti insieme, da poter scambiare, utilizzare da specchietto per attirare qualche grande big quando arriverà l’occasione di combattere per il titolo, l’occasione d’avere soldi disponibili (i contratti dei giovani, dei rookie, sono vincolati verso il basso per i primi 2 anni, con opzione per altri due) per costruire un supporting cast – i 3 o 4 giocatori che accompagnano il giocatore franchigia – vincente.

L’occasione che ha avuto (e colto ) lo scorso anno Golden State, guidata sì dal talento smisurato e irripetibile di Steph Curry, ma anche – soprattutto nel momento finale della stagione, quello più decisivo – dall’esplosiva tranquillità di Andre Iguodala, MVP delle ultime Finals, lo stesso di cui i Sixers si erano affrettati a disfarsi. Il 16-0 di Warriors rappresenta il più classico “altro lato della medaglia” e la dimostrazione di come il funzionamento dell’NBA non permetta una formula scientifica per il successo. Perché non sempre il tanking può funzionare, e soprattutto perché serve fare scelte giuste ai Draft. Come chiamare alla numero 11 Klay Thomson. Il problema è che anche prendere il miglior giocatore su piazza potrebbe non bastare, perché magari la scelta numero 35 del 2012 (il primo anno in dirigenza per l’attuale GM di Golden State, Bob Myers) Draymon Green diventa parte del quintetto titolare che vince il titolo NBA. Non per forza, quindi, la scelta di privarsi di Iguodala deve essere giudicata negativamente, anche col senno di poi. Un esempio, per certi versi simile, è quello di Oklahoma che, sempre nel 2012, ha deciso di sacrificare Harden per far spazio all’adeguamento di contratto di Durant. Adesso Harden a Houston flirta costantemente con i 40 punti e lo scorso anno è stato fino all’ultimo in lizza per contestare a Curry il titolo di MVP, ma senza la sua dipartita magari non si sarebbe assistito all’esplosione di Russell Westbrook.

La sconfitta dei Sixers contro gli Hornets per 113-88.

Certo, qualche errore Phila sembra averlo fatto, come sottolineava Andrew Sharp su Grantland lo scorso marzo, prima ancora che l’ennesima stagione fallimentare cominciasse. Riportando le parole di una conferenza di Van Gundy, secondo cui costruire una squadra molto giovane è la chiave del successo (Golden State), mettere tanti giocatori inesperti senza inserire qualche veterano che guidi la nave è semplicemente controproducente. È la ragione principale per cui le squadre costruite per svilupparsi finiscono spesso con il ripetere infiniti cicli perdenti. L’altro esempio è quello dei Dallas Mavericks del 1993, che finirono col vincere solo 11 partite, ma che da quel ciclo tremendo vennero fuori con la seconda scelta del ’95 Jason Kidd e con l’arrivo di Dirk Nowtzki nel ’98. Tanti anni dopo, un nucleo che aveva come fondamenta il tedesco (ma anche un’altra proprietà, va detto) arrivò al primo storico anello NBA. È un esempio di quanto possa essere lungo il percorso che porta all’anello: i San Antonio Spurs ne sono un altro, che può tuttavia essere smentito dalla costruzione a tavolino di squadre come i Boston Celtics dei big three o i Miami Heat di LeBron James e soci.

Perché pur nel complicato e per certi versi machiavellico meccanismo del salary cap, nello scambio di giocatori e nella valutazione minuziosa di tutti i big data, non esiste il metodo infallibile per costruire un team vincente. In entrambe le direzioni. Lo scorso anno i Milwakee Bucks, costruiti, secondo la critica sportiva, per tankare, arrivarano addirittura ai playoff, spinti dall’organizzazione di Jason Kidd e da alcuni exploit individuali (quello di The Greek Freak fra tutti). Altre volte è la costruzione a non andare come previsto: due anni fa Phila ha raggiunto il record negativo di 26 sconfitte consecutive. Record negativo dell’intero sport americano, eguagliando i Cleveland Cavs delle macerie del post LeBron. Lo scorso anno come detto non andò meglio, avendo sfiorato il record del peggior inizio di sempre (0-18) che appartiene ai New Jersey Nets del 2010, team in pieno smantellamento di preparazione al trasferimento a Brooklyn. Il peggior record della storia dell’Nba per percentuale di sconfitte e per numero totali di vittore appartiene ai Charlotte Bobcats del 2012, con una squadra neanche troppo male che conteneva giocatori che avrebbero avuto un ottimo impatto come Carrol e Kemba Walker, altri dal talento cristallino e rinati in lidi più fertili, come Boris Diaw. Per tutti però la “peggior squadra di sempre”, appellativo quanto mai giornalistico, restano i Philadelphia 76ers della stagione 72/73 con le sole 9 vittorie a fronte di 73 sconfitte. Vicino, ma in direzione contraria, al 72-10 dei Chicago Bulls della stagione 95/96, un record che i Warriors di Curry hanno messo nel mirino. Altre storie, altre fortune.

 

Nell’immagine in evidenza, la disperazione di Jahlil Okafor nella sconfitta contro Utah. Mitchell Leff/Getty Images