Comandante Alex

Dai successi in Brasile ai fallimenti in Italia, per diventare idolo al Fenerbahçe. A un anno dal ritiro, la storia di Alex, il numero dieci più amato a Istanbul.

Il pellegrinaggio comincia diverse ore prima della partita, secondo il cielo di Istanbul. Se non piove, il parco Yoğurtçu, storico ritrovo della sinistra turca, si riempie di tifosi del Fenerbahçe che chiacchierano e bevono birra guardando il loro stadio, proprio lì di fronte. Attraversando la strada, attorno a un triangolo d’erba, si fa la fila per un selfie anche tra le macchina in corsa. Quasi come fosse ancora qui, anche se ormai è un po’ che se n’è andato. Più di tre anni, si scopre guardando indietro. Ma l’immagine di Alexsandro de Souza, il “comandante” Alex, è rimasta lo stesso. Letteralmente. Una statua di metallo, lo sguardo rivolto avanti e il suo sinistro pronto a calciare, per ricordare a tutti quelli che vanno alla partita, tifosi e giocatori, chi è stato qui.

 

12 notti senza sonno

L’ironia della storia, come a volte accade, è che due settimane dopo aver inaugurato con gli occhi gonfi di lacrime la statua che lo ha reso immortale, voluta e pagata dai suoi tifosi, Alex se n’è andato. E non era previsto. Ma nel travaglio della decisione, frutto di un contrasto con l’allenatore da cui il 10 del Fenerbahçe è uscito perdente per la sorpresa – e l’amarezza – di tanti, non è rimasto solo. Sotto casa sua, per 12 giorni e 12 notti, si accampa un gruppo di tifosi, decisi a non lasciarlo nel momento di un addio forse inevitabile ma non per questo meno doloroso. Lo accompagnano fino in aeroporto, in una festa di cuori spezzati. Con il capitano, sempre.

I tifosi del Fenerbahçe scortano Alex fino sulla pista di decollo

L’astro nascente

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Ataturk e Alex

Prima di incontrare il suo destino in Turchia, Alex ambiva a una carriera nelle grandi d’Europa. In Brasile aveva allevato il suo talento sognando il grande salto, con pazienza e tenacia. Del resto era quello, per lui come per tanti, il passaporto per uscire dalla povertà. Da ragazzo, lo descrivevano come uno dei migliori della sua generazione. Nel 1999, a 22 anni, mostrava già un «estro ammirevole», notava la Gazzetta nel commento della finale di Coppa Intercontinentale, persa allora dal suo Palmeiras contro il Manchester United. Di più. In quel momento, Alex era «la stella nascente della nazionale brasiliana, con 6 gol in 13 presenze». Un trequartista di quelli difficili da collocare per gli allenatori ma anche per questo difficili da fermare per gli avversari. Mancino, di gol ne faceva tanti anche con il destro. Specialista delle punizioni e con grande visione di gioco. E pure, sempre opportunista. Sui palloni vaganti in area, una cattiveria che quelli coi piedi come i suoi difficilmente mettono in campo. Un’altra specialità di Alex sono le rovesciate: eleganti, rapide, precise. Letali. Un 10 di qualità ma concreto, dal tiro secco. Anche se poi è sempre un brasiliano, e a volte, per fare un gol, ha bisogno di mandare l’avversario più volte fuori giri, prima di superare il portiere con un tocco morbido. Ed è anche un rigorista quasi perfetto, freddo e tecnico. Al Fenerbahçe, per guardare le statistiche significative, sono stati alla fine 27 su 30.

9 stagioni (e 175 gol) in 9 minuti

Un Mondiale non visto, neanche in tv

Per sfondare, insomma, Alex ha tutto. Ma non subito. Inizia al Coritiba, la squadra della sua città. Poi Palmeiras, Flamengo e Cruzeiro. Nel salto in Europa però scivola. I pochi mesi al Parma dei tempi d’oro, nel 2001/02, sono la sua sciagura. A gennaio torna in Brasile praticamente senza giocare. Sono i prodromi di quello che accadrà di lì a poco: la gioia negata del Mondiale asiatico. Che, nel bene e nel male, sarà il suo giro di boa. Nella spedizione in Giappone e Corea del Sud Felipe Scolari lo lascia a casa, dopo averlo sempre chiamato durante le qualificazioni. Una decisione di cui ancora oggi, a dispetto dei successi, non si smette di discutere. Lo fa per esempio la sua biografia appena uscita in Brasile (intitolata semplicemente Alex), a firma del giornalista Marcos Eduardo Neves. Dove si racconta il segno lasciato da quella decisione del ct, che pure ne aveva fatto una delle sue colonne nel Palmeiras vincitore della sua unica Libertadores, nel ’99. «Non ero uno che beveva, ma cominciai a bere birra e vino. Passai 40 o 50 giorni di vera e propria pazzia – ricorda e rivela adesso – La stampa continuava a parlare della Coppa del Mondo, e io non sapevo cosa stesse succedendo. Non guardai una partita, dato che le partite si giocavano all’alba, e in quell’orario o dormivo o ero ubriaco». Alla soglia dei 25 anni, Alex rischia il baratro. A costargli la spedizione asiatica è stata soprattutto la fugace e quasi invisibile esperienza italiana. In quel momento Scolari lo vedeva così poco che a ridargli una chance non servì nemmeno l’infortunio di Emerson, alla vigilia – guarda un po’ la vita – di una partita contro la Turchia. Al Mondiale ci andò Ricardinho. Alla fine della sua carriera, con la Seleçao Alex si fregerà comunque di 2 coppe America, e del Brasile indosserà anche la fascia di capitano. Dodici gol in 48 partite fino al 2005, tutt’altro che un comprimario. E in quella squadra aveva compagni come Rivaldo e Ronaldinho, gente a cui non era facile togliere il posto e la 10. Ma quel Mondiale mancato resterà per lui una ferita sanguinante.

Solo nel campionato turco, 241 partite e 136 gol: più di una rete ogni due match giocati

Conquistare Istanbul

Lo sbarco in Turchia, nel 2004, gli cambia la carriera e la vita. Arriva al Fenerbahçe per cinque milioni di euro e ci resta per otto stagioni e mezzo: più di qualsiasi altro straniero nella storia del club. Dopo l’addio di Ümit Özat ne diventa il capitano e il “comandante”: 3 campionati, 1 coppa di Turchia e 2 supercoppe nazionali, 2 volte capocannoniere e per 4 eletto miglior giocatore del campionato turco. A chi non ama le sensazioni, Alex può mostrare i numeri. In campo, e nelle statistiche. Alla fine, 341 partite e 171 gol con la maglia gialloblù, senza dimenticare i 136 assist con cui fa segnare tanti compagni e sognare tanti tifosi. Solo nel campionato turco, 241 partite e 136 gol: una media di più di una rete ogni due match giocati. Il record nel 2010/11, 28 gol in 33 partite disputate. E comunque, mai sotto la doppia cifra. Ma a costruire la leggenda che lo accompagnerà fino alla statua eretta per lui a Kadiköy, il quartiere asiatico fortino del Fenerbahçe, non sono solo i numeri. Quelli rappresentano il corollario, magari servono a spiegarlo a chi non c’era. Ma chi invece lo ha in visto campo, Alex dice di ricordarselo prima di tutto per il carisma e l’umiltà, il talento unito a un gioco al servizio della squadra. Lo omaggia pure un tifoso d’eccezione, Recep Tayyip Erdoğan, che da ragazzo giocava a pallone e pare di calcio se ne intenda davvero. Di certo, uno che ne conosce il peso specifico nella società turca. In tv il presidente turco, allora premier, posa con il numero 10 e con il potente e controverso presidente del Fenerbahçe, Aziz Yıldırım. E poi, per suoi i tifosi, Alex è l’identità contro i nemici di sempre. Nei derby di Istanbul, nessuno come lui, nella storia recente, ha lasciato il segno: 22 gol e 7 assist. Se si considerano anche le sfide con l’unica big del calcio turco lontano dalle rive del Bosforo, il Trabzonspor, fanno 26 gol e 13 assist in 42 partite. Fargli una statua, probabilmente, era solo questione di tempo.

Lo speaker del Fenerbahçe e la costanza

Dirsi addio, su Twitter

«Per me adesso è un momento molto difficile. Grazie di tutto», dice Alex in turco affacciato alla finestra, commosso. È il primo ottobre del 2012, uno dei pochi giorni che davvero cambiano la vita. Forse un colpo così forte non lo viveva da quell’estate dal 2002 in cui toccò il fondo prima di ridarsi una spinta verso l’alto, verso Istanbul. Appena due settimane prima, all’inaugurazione della sua statua accanto allo stadio, erano state lacrime di gioia. Ma forse qualcosa già sapeva, o già sentiva. Del resto, per Alex sono i tempi più difficili al Fenerbahçe. Da un po’ Aykut Kocaman, l’iconoclasta, lo mette spesso in panchina. Lui risponde accusandolo di essere geloso del suo ruolo nel club. Si capisce che non potrà andare a finire bene. Passano quindici giorni e il brasiliano gioca la sua ultima partita con il Fenerbahçe: un tempo nel derby “minore” con il Kasımpaşa, perso 2-0. Il tecnico lo considera responsabile della disfatta, e dei cattivi risultati dell’ultimo periodo. Vuole metterlo addirittura fuori squadra, costringendolo ad allenarsi con la primavera. Alex non ci sta. Passano 48 ore e l’incubo dei suoi tifosi si trasforma in realtà, con un addio clamoroso e convulso annunciato su Twitter. Scrive in turco un messaggio in meno di 139 caratteri per finire una storia di otto anni e mille emozioni. Sarà quello più rilanciato nella storia (per la verità piuttosto travagliata) del social network in Turchia: «Ho rescisso il mio contratto. È stata la firma più triste della mia vita. Il Fenerbahçe ha perso un giocatore, ma ha guadagnato un tifoso. Grazie di tutto».

Come fosse una finale

Poi le due settimane di travaglio, quasi insonni. Neanche venti giorni dopo firma per il Coritiba, il club dove aveva cominciato la carriera e dove aveva detto di volerla terminare. E lì la finirà. Del ritorno in Brasile è comunque contento. «Voglio ringraziare mia moglie. Senza di lei sarebbe stato quasi impossibile vivere in un altro Paese», aveva detto solo poche settimane prima. Il 7 dicembre 2014 si ritira dal calcio tra le lacrime, uscendo dal campo al minuto 88 di un Coritiba-Bahia che terminerà 2-2. La tv turca trasmette la partita come fosse una finale. Il commentatore sembra emozionato, forse perché capisce che le sue parole verranno riascoltate migliaia e migliaia di volte su YouTube. Lo saluta come «un bravo calciatore, un brav’uomo, un buon giocatore, un buon padre di famiglia, un esempio per i giovani calciatori». Nell’enfasi, si ripete un po’. Ma non poteva essere un addio come gli altri.

L’addio, trasmesso dalla tv turca

 

Nell’immagine in evidenza, Alex nel 2012 contro il Galatasaray. Getty Images