L’ossimoro Stefan Edberg

Il campione svedese, ex numero uno al mondo e due volte trionfatore a Wimbledon, compie 50 anni. Ritratto di un gentleman e maestro d'eleganza.

stefan edberg

Tutti coloro che hanno riconosciuto la poesia nel tennis della seconda metà degli anni Ottanta e nei primi Novanta devono almeno un grazie a Percy Rosberg, allenatore svedese che nel 1981 consigliò a un ragazzino di belle speranze originario di Västervik di abbandonare il rovescio a due mani, convinto di favorire in questo modo le sue spiccate doti offensive. Non fu un cambiamento da poco, fu una rivoluzione, specialmente in un Paese come la Svezia che aveva raggrumato la sua passione per il tennis attorno a un totem come Borg (Rosberg contribuì anche alla sua scoperta) e nel quale altri campioncini (Wilander su tutti) stavano crescendo seguendo il suo modello tecnico, regolarità da fondo campo e rovescio bimane. La rivoluzione fu particolarmente felice soprattutto perché quel ragazzino si chiamava Stefan Edberg e nemmeno due anni dopo aver tolto una mano dal suo rovescio conquistò il Grande Slam Juniores, record senza precedenti e tuttora ineguagliato, e tre anni dopo vinse a Milano il suo primo titolo ATP.

Stefan Edberg è stato il più grande ossimoro del tennis, uno dei più clamorosi dell’intera storia dello sport. Schivo, educato, imperturbabile nei comportamenti, audace, spericolato, spettacolare nel gioco. Un attaccante nato. Stefan andava avanti sempre e comunque, su tutte le superfici e in qualsiasi situazione di punteggio. Seguiva a rete la prima e la seconda di servizio, attaccava ogni palla attaccabile, attaccava persino in risposta al servizio avversario.

US OPEN EDBERG

Sul lato sinistro del campo non c’era giocatore più elegante di lui: giocava un rovescio pregevole sia in back per il chip and charge, sia piatto che in top; e naturalmente giocava un’angelica volée, la specialità della casa, forse la migliore volée di rovescio di tutti i tempi. Il dritto da fondo era il colpo debole, ma nondimeno capitavano giornate in cui il dritto girava a meraviglia: in quelle giornate Edberg era imbattibile.

Il servizio era la chiave di apertura del suo gioco offensivo. Molto inferiore a quelli di Becker, Ivanisevic e Sampras quanto a potenza, il servizio di Edberg era però così lavorato e carico di effetto da costringere l’avversario ad una risposta mai agevole. La non eccessiva velocità della battuta gli consentiva peraltro di avere il tempo di guadagnare la migliore posizione possibile sotto rete e quindi poter giocare la prima volée con una rara efficacia. E siccome per un giocatore che seguiva sempre il servizio a rete era fondamentale una signora seconda palla, Edberg era riuscito col tempo ad imbastire una seconda quasi all’altezza della prima, probabilmente la migliore seconda di servizio del circuito. Lo stile della battuta era poi talmente simile ad una preparazione al volo che merita di essere rivista:

Non è un caso che il logo degli Australian Open sia modellato sull’apertura alare dello svedese

E pensare che, dopo il cruciale incontro con Rosberg, Edberg dovette passare attraverso un’altra sliding door, un episodio non troppo conosciuto che rischiò di troncarne la carriera già nel 1983. Durante la semifinale degli US Open under 18 contro il minore dei McEnroe, Patrick, un servizio di Stefan colpì un giudice di linea, Dick Wertheim, che cadde a terra. Un incidente del genere non sarebbe stato così importante se Wertheim non fosse morto qualche giorno dopo per le conseguenze dell’emorragia cerebrale causata dalla caduta. Una sfortuna nera e un peso difficile da sostenere per le spalle di un diciassettenne. Stefan, tuttavia, riuscì a superare l’accaduto e a continuare a stupire il circuito.

Da lì in poi, anzi, la sua fu una corsa inarrestabile. Nel periodo dei vari Lendl, McEnroe, Wilander, Becker e, più tardi, Agassi, Courier e Sampras, Edberg è stato numero uno del mondo per settantadue settimane, top ten per dieci anni consecutivi dal 1985 al 1995. Ha vinto due Australian Open (1985, 1987) quando a Melbourne ancora si giocava sull’erba, due US Open (1991, 1992), un Master (1989), quattro Coppe Davis con la Svezia (la prima, nel 1984, a soli diciotto anni).

Stefan Edberg e Annette Olson

Soprattutto, è stato il beniamino di Wimbledon, dove giocò tre finali consecutive, tutte contro il suo rivale più acerrimo, Boris Becker, vincendone due (1988, 1990). Sull’erba londinese il gioco di Stefan ha espresso meglio che altrove il suo potenziale e si è fatto poesia. Fu a Wimbledon che, nel 1983, Rino Tommasi vide Edberg giocare e perdere al quinto set contro il connazionale Sundstrom e fece una scommessa con i suoi amici che suonava pressappoco così: «Se questo ragazzino non vincerà Wimbledon nei prossimi cinque anni, non scriverò più di tennis in vita mia». Nel 1988, proprio allo scadere della profezia di Tommasi, Stefan divenne per la prima volta Re di Londra sconfiggendo Becker in quattro set (4-6, 7-6, 6-4, 6-2). Fu una finale che Becker sembrava destinato a vincere. Già due volte campione a Wimbledon, il tedesco aveva già sconfitto Edberg nella finale del Queens appena due settimane prima e aveva iniziato col piede giusto vincendo il primo set. Edberg però prese le contromisure al gioco avversario e si aggiudicò la partita al quarto set grazie a un rovescio implacabile sia in risposta che in passante e a un volleare divino. L’anno successivo il tedesco si prese la rivincita, lasciandogli poche chance di entrare in partita e chiudendo col punteggio di 6-0 7-6 6-4.

La più combattuta ed emozionante delle tre finali sul Centre Court fu però quella del 1990. Edberg, arrivato all’atto conclusivo dopo aver letteralmente demolito in semifinale il sogno di Ivan Lendl, che quell’anno aveva addirittura rinunciato a giocare il suo Roland Garros per preparare al meglio la rincorsa al primo titolo a Wimbledon, giocò i primi due set in stato di grazia. Becker poté ben poco contro le volée chirurgiche di Edberg e le sue risposte basse, sui piedi. Edberg si aggiudicò i primi due set con un duplice 6-2, ma quando la partita sembrava volgere verso un’ovvia conclusione Becker trovò la forza di reagire: non solo si aggiudicò terzo e quarto set con l’identico punteggio di 6-3, ma si portò avanti di un break nel quinto e decisivo set. In una partita di grandi capovolgimenti, ce ne doveva però essere uno nel finale. Edberg risorse all’improvviso, rubò due volte il servizio a Becker e chiuse con il punteggio di 6-4 un’altalena emozionale durata tre ore più lunghe del normale.

Becker vs Edberg, rovesci e gioco a rete

Una delle rivalità più vivaci e psicologicamente intriganti del tennis è quella tra Becker ed Edberg. 35 gli incontri tra i due, con un bilancio nettamente a favore del tedesco (25-10) ma con lo svedese più vincente nei tornei del Grande Slam (3-1). Peccato che i due non si siano ritrovati nuovamente in finale a Wimbledon nel 1991, per la quarta volta consecutiva. Becker quella finale la giocò e la perse contro il connazionale Michael Stich, che aveva eliminato Edberg in una semifinale che merita di essere raccontata.

Quel venerdì pomeriggio nessuno sembrava in grado di impensierire Edberg, all’epoca numero uno al mondo e che non aveva ancora lasciato un set agli avversari in tutto il torneo, men che meno l’emergente Stich, un gioco da erbivoro ma una tenuta mentale e tecnica tutta da dimostrare a quei livelli. Come da copione Edberg vinse il primo set per 6-4. Poi continuò a giocare bene, pur senza riuscire a strappare di nuovo il servizio all’avversario. Il secondo, il terzo e il quarto set seguirono la regola del servizio e finirono al tie-break, l’inevitabile invenzione di Jimmy Van Alen per porre fine a set interminabili. La televisività e la velocità del tie-break sono anche la sua crudeltà: un po’ come i calci di rigore nel calcio, il tie-break è una sorta di lotteria. Può premiare il migliore in campo, ma può premiare anche colui che è semplicemente più lucido e fortunato in quei brevi attimi. Fu quello che accadde il 5 luglio 1991: Edberg perse tutti e tre i tie-break e di conseguenza una partita in cui non aveva mai ceduto il servizio ad un avversario che, invece, aveva subito un break nel primo set. Con un po’ di humor nero, il destino sottolineò la drammaticità di quell’incontro, giocato appena due giorni dopo la morte dell’ottantottenne Van Alen. Quando gli fu chiesto un commento, Edberg disse: «Se Van Alen non fosse esistito, Michael e io saremmo ancora lì fuori a giocare».

EDBERG AUSTRALIAN OPEN

L’unico Slam che non lo vide trionfare fu il Roland Garros. La terra battuta era la superficie meno adatta per il suo serve and volley, eppure nel 1989 Edberg raggiunse la finale di Parigi e si trovò davanti la grande sorpresa del torneo, il diciassettenne Michael Chang. Lo svedese aveva tutte le carte in regola per imporsi, ma quel giorno non ebbe sufficiente cattiveria per portare a casa la partita al quarto set, quando non sfruttò ben dieci palle break e finì per perdere al quinto col punteggio di 6-1, 3-6, 4-6, 6-4, 6-2. A ventitré anni Edberg pensava che avrebbe avuto altre opportunità per vincere il Roland Garros, invece non riuscì più a ripetere il torneo del 1989 che, per sua stessa ammissione, rimane il più grande rimpianto della sua carriera. La finale raggiunta quell’anno, oltre ai titoli vinti sulla terra di Gstaad, Amburgo e Madrid, dimostrano però la forza di un campione capace di esprimere il suo gioco votato all’attacco anche sulle superfici più lente.

Al tennis di oggi manca moltissimo un giocatore con la sua eleganza e i suoi modi da gentleman. Mai una protesta né una discussione, Edberg rappresentò la correttezza personificata e anche per questo fu amato dal pubblico più raffinato e dagli stessi colleghi con un affetto che fece dire a Pete Sampras, dopo essere stato rimontato e sconfitto nella finale degli US Open 1992, «è un tale signore, che quasi facevo il tifo per lui». Nell’albo d’oro dello Sportsmanship Award, il premio che l’ATP assegna ogni anno al tennista che ha dimostrato il maggior fair play, il nome di Stefan Edberg compare per ben cinque volte. Dal 1996, anzi, il suo nome compare nell’albo d’oro tutti gli anni, perché dopo il suo ritiro l’ATP ha deciso di intitolargli direttamente il premio. Oggi, l’unico tennista ad essersi aggiudicato lo Stefan Edberg Sportsmanship Award più volte dello stesso Stefan Edberg è Roger Federer.

edberg federer

Nel tennis di oggi il serve and volley non esiste più. A dominare sono le rigorose preparazioni atletiche, gli integratori, l’esasperazione del top-spin, la volontà di potenza senza l’intuizione del tocco. A meno che non si parli di Roger Federer, l’ultimo rappresentante del tennis come forma d’arte. Quando, sul finire del 2013, la sua carriera sembrava destinata a tramontare, il trentaduenne campione svizzero si rivolse proprio al tennista idolatrato da ragazzino, Stefan Edberg, che pur non avendo mai voluto lavorare come coach decise di accettare la sfida.

È storia dei giorni nostri, è la storia di un rapporto che avrebbe dovuto essere di un anno e che invece si è protratto fino a tutto il 2015. Edberg è riuscito non solo ad allungare ma a risollevare letteralmente la carriera di Federer, infondendo un nuovo smalto e una risolutiva propensione offensiva al suo gioco. Il connubio, che ha portato a tre finali Slam (due a Wimbledon, una a Flushing Meadows) perse contro il robot Djokovic e a uno stabile secondo posto nella classifica ATP, un bottino impensabile solo pochi mesi prima, si è concluso con soddisfazione da ambo le parti pochi giorni fa, ma per due stagioni ha fatto gioire tifosi e giornalisti, che hanno creato il nomignolo Fedberg, marchio di fabbrica della poesia in punta di racchetta.

 

Nell’immagine in evidenza, Stefan Edberg con il trofeo degli Us Open vinto nel 1992. Simon Bruty/Allsport