Swinging Pavoletti

Calciatore per caso, attaccante formidabile: sono già 10 i gol segnati in 13 partite. Una crescita inarrestabile, fatta di reti ma soprattutto di "testa".

Le luci sono spente. Al centro del campo c’è Leonardo Pavoletti. Ha un pallone tra le mani e una maglia usurata addosso. Tra sé e sé rimugina: «Non voglio farlo». Gioca nelle giovanili dell’Armando Picchi, squadra di Livorno, la sua città. Lo hanno convocato per una partita di prima squadra. Accarezza il pallone tra le mani, lo lascia rimbalzare, poi lo fa rotolare via. Dice di avere altri progetti, e poi lui in prima squadra non vuole proprio andarci. «Sono il più piccolo e bistrattato. Mi dà fastidio». Forse, semplicemente, pensa di non essere all’altezza. Quando non era ancora arrivato in Serie A, era ossessionato dal senso di inadeguatezza: «In Serie A serve tanta qualità tecnica, e io devo lavorare tanto».

O forse Leonardo Pavoletti, l’uomo da 10 gol in 13 partite al secondo anno in Serie A, non aveva voglia di fare il calciatore. «In questo mondo mi ci sono ritrovato quasi per caso, non pensavo di fare il professionista. Avevo in mente di iscrivermi all’università, anche se non sono mai stato un grande studioso». Sarà per quello che la prospettiva pavolettiana del mondo è insolita. A 27 anni riflette sul fatto che la professione, che oggi gli dà tantissimo, un giorno potrebbe togliergli tutto. «Siamo pagati bene, ma quando finisci sei accantonato. E non è semplice reinventarsi dopo che per trent’anni hai solo giocato a pallone». Ha azzerato ogni tentativo, da parte del calcio, di assorbire interamente la sua esistenza, in un senso materiale («Partite non ne guardo, non ho nemmeno la pay tv») e anche ideale («Potevo essere anche pompiere o meccanico, il mio carattere non cambia»).

Genoa CFC v FC Internazionale Milano - Serie A

Ora è giorno. Il sole è alto. Leonardo Pavoletti è sul prato di Marassi, nell’area di rigore del Palermo. Il pallone gli viene incontro. Leonardo indietreggia, saltella, poi si ferma. Si alza da terra, stacca con il destro. Sforbiciata aerea, alla Parola, ma non come gesto difensivo. La palla finisce in rete. Pavoletti allarga le braccia, si inebria dell’urlo di Marassi. Sugli spalti i tifosi rossoblù applaudono, muovono su e giù i palmi delle mani come a dire “mamma mia, che ha fatto”. Perin torna verso la sua porta, serio. Poi gli si apre un sorriso. È il decimo gol in tredici partite per Pavoletti, il diciassettesimo in Serie A. Un posto dove ha trovato modi nuovi di segnare. Modi che vanno oltre le imperfezioni: una verticalizzazione troppo lunga, un cross mal calibrato, un’azione poco raffinata. Come quando ha segnato al Torino.

Il gran gol in acrobazia contro il Palermo.

In Serie A ha un record: un pallone ogni 33 che tocca finisce in rete. È un attaccante d’area, classico ma al tempo stesso moderno. Sente la porta, ma non si limita a stazionarci nei pressi. Corre molto, aiuta in ripiegamento, lotta e apre spazi per i compagni. Il Genoa ne sfrutta le doti aeree: Pavoletti è primo in campionato per contrasti aerei vinti, 4,1 a partita, davanti a Milinkovic-Savic e Dzeko (3,8). È anche il giocatore che ha segnato più di tutti di testa, quattro reti. È necessario nell’economia di squadra, non solo quando la butta dentro. Pavoletti ha saltato sette partite (quattro per squalifica, tre per una distorsione) e quella con il Carpi praticamente non l’ha giocata, visto che è stato espulso dopo sei minuti (una gomitata “senza senso”, per Gasperini). Ebbene, in queste otto partite il Genoa ha sempre perso, e cosa ancor più rilevante ha segnato un solo gol. Con Pavoletti in campo, il Genoa ha perso solo due volte su tredici, con ben altra media punti. Per questo Gasperini lo accosta a Higuaín, per il peso specifico che apporta alla squadra: «Sarebbe molto utile a Conte».

Come fa un calciatore che sosteneva di “non avere qualità eccelse” a reggere, seppur per certi versi, il paragone con Higuaín, lo spiega sempre lui. «Sono sempre stato uno che metteva più carattere degli altri. Gli ostacoli che ho incontrato li ho superati soprattutto con la testa. Se mi fossi buttato giù, non avrei più combinato nulla, invece ho sempre affrontato le cose rimanendo lucido». Fa vedere buone cose in Lega Pro Seconda Divisione con Viareggio e Pavia: così nel 2010 lo tessera il Sassuolo, che lo gira alla Juve Stabia in Prima Divisione. Di fatto perde un anno: si infortuna, gioca poco, scende ancora di categoria nel Casale. Tiene duro.

Genoa CFC v US Sassuolo Calcio - Serie A

Come quando, nel 2013, nel Sassuolo lanciato verso la A, prende 40 giorni di squalifica per doping: in realtà, aveva utilizzato un comune spray per la decongestione delle vie nasali. Una squalifica che arriva in un momento delicato, perché, dopo cinque reti realizzate nelle prime tre partite, non segna più. A SportWeek ha ricordato quel periodo: «Ero capocannoniere e andavo in panchina: non riuscivo a capire perché. È stato un brutto periodo, entravo in campo con il pensiero di essere stato fuori fino a quel momento e sbagliavo gol da un metro». Con la squalifica le cose si complicano, si ingarbugliano. Sa di essere innocente, ma non può giocare lo stesso. La voglia di entrare in campo, di spaccare il mondo, esplode, irrazionale. Quando torna in campo dopo la squalifica, ad Ascoli, non si arrende di fronte a nulla: le incognite della condizione fisica, gli avversari, la sfortuna. Colpisce una traversa, subito dopo un palo. «Dopo i legni pensavo non sarebbe più entrata. Invece ho continuato a crederci e sono stato premiato». Alla terza occasione non fallisce. Riordina i pensieri: «Dopo quel periodo negativo, tirai una linea. Diventai un’altra persona. Non mi preoccupavo più della concorrenza. Giocavo cinque minuti? E in quei cinque minuti davo tutto. E tornai a fare gol».

Uno scatenato Pavoletti al ritorno in campo dopo la squalifica.

Il suo libro preferito è “Il vecchio e il mare”. «Adoro la metafora del pescatore. Non dobbiamo pensare a quello che ci manca, ma dobbiamo concentrarci su quello che abbiamo per puntare al massimo». Una lezione preziosa sin dai tempi di Lanciano, tappa fondamentale della sua carriera. In Abruzzo, nel 2011/12, ottiene la prima grande affermazione personale e di squadra. Con 16 reti, è vicecapocannoniere del girone B di Prima Divisione e porta il Lanciano ai playoff. La partita decisiva per la promozione in Serie B si gioca il 10 giugno a Trapani: gli abruzzesi sono obbligati a vincere. Ma dopo due minuti Gambino porta in vantaggio i siciliani, e dopo dodici Amenta lascia in dieci i rossoneri. Così Enrico Giancristofaro, giornalista abruzzese, ricorda quel momento: «Sembrava finita per tutti. Ma non per Leonardo: è stato lui a prendere in mano la squadra e a scuoterla. Fu lui a segnare il gol del pareggio, una rete in cui c’è tutto Pavoletti: rinvio del portiere, lui che si fa venti metri di campo e indovina l’incrocio dei pali. Un tiro in cui ha scaricato tutta la sua voglia di vincere». Finì 3-1 per il Lanciano.

«Il ricordo più bello che ho, quello fu un periodo felice in tutto e per tutto. L’esperienza a Lanciano è servita per guadagnare fiducia in me stesso: segnare 16 gol ti cambia qualcosa, ti convinci che puoi farli anche la stagione dopo. Fu allora che iniziai ad avere la giusta maturità», ricorda Pavoletti. A quei tempi fece una promessa, che poi, a dirla tutta, non mantenne: «Se andiamo in Serie B, porto Mou a spasso per la città». Mou è il maiale vietnamita, che oggi pesa più di un quintale, regalatogli dall’ex ragazza di suo fratello. «Quando lo prendemmo era piccolo. Ma in giardino ha mangiato di tutto, così è diventato enorme. Si chiama Mou perché è la traduzione dal vietnamita di maiale». Lo definisce il suo talismano: dopo quella promozione in B con il Lanciano, ne arrivò subito un’altra, stavolta in A con il Sassuolo. E l’anno dopo, con 20 gol nella regular season e 4 nei playout, salvò praticamente da solo il Varese.

Genoa CFC v US Citta di Palermo - Serie A

Al Genoa è arrivato nella scorsa finestra invernale, debuttando da titolare solo alla dodicesima occasione utile. Gasperini non era proprio dell’idea di farlo giocare: a fargliela cambiare fu la grinta con cui Pavoletti si allenava. Ha chiuso la scorsa stagione con sei gol in 462 minuti, uno ogni 77. La tifoseria rossoblù lo ha accolto come fosse uno di loro, come se pochi minuti prima fosse sceso dalla Gradinata Nord e si fosse infilato in fretta una maglietta da gioco. Pavoletti con il pubblico dialoga, anche in campo, anche solo idealmente. Si lascia perforare dall’estasi contenuta nell’urlo per un gol, come quando, contro il Sassuolo, ha segnato al 95′, e poi ha detto: «Sento ancora il boato dello stadio». A quella rete un tifoso si è sentito male, e dopo qualche tempo Pavoletti lo ha incontrato e ha postato la foto su Facebook. È sulla sua pagina che l’attaccante trova il modo di tradurre in parole ciò che fa in campo, comunicando da leader, ma da leader rispettoso e coinvolto.

L’esaltante stagione in corso.

Genova è il luogo dove la storia diventa best seller, e l’uomo protagonista. Il pubblico si allarga e il chiacchiericcio si inspessisce. Lo reclamano ai prossimi Europei, ma questa è la storia di un altro, o comunque non ancora la sua. L’attesa può essere un valore, e Pavoletti lo ha imparato negli anni. Per quanto incredibile sia il suo exploit, la sua storia è quella di un attaccante a cui avevano spento le luci, non le qualità. Il momento di accenderle, prima o poi, arriva.

 

Nell’immagine in evidenza, Leonardo Pavoletti festeggia il secondo gol contro il Palermo. Tullio M. Puglia/Getty Images