Io, il tempo e Andrea Lazzari

Anni fa scelsi Lazzari come "giocatore guida", ovvero un perfetto coetaneo per misurare la mia vita e il mio amore per il calcio. Com'è andata, poi, a Lazzari e a me.

andrea lazzari

Di tutti gli aspetti della vita reale che il gioco del pallone finisce per riassumere in chiave allegorica, quello del passare del tempo è senza dubbio uno dei più suggestivi. Si verifica, cioè, una sorta di sproporzione tra “tempo della storia” e “tempo del racconto”, quantificabile nella discrepanza che intercorre, per esempio, tra la “speranza di vita” di un giocatore e quella di un comune mortale. Se, in sostanza, una carriera calcistica (ovviamente sul campo) si esaurisce a ridosso dei quaranta, è evidente come il dato non corrisponda alla fine di una carriera lavorativa, o all’esaurirsi di un’esistenza-standard, impostata secondo precisi parametri di vecchiaia e conseguente spegnimento.

A partire dall’infanzia ho associato alla mia compulsiva dipendenza dagli sport un’idolatria per personaggi da me ritenuti immortali (Michael Jordan, o Miguel Indurain), e la presa di coscienza della “morte calcistica” mi ha messo di fronte a due distinti ordini di problemi, entrambi ugualmente scioccanti: 1) l’umanizzazione dei miei idoli; 2) la scelta di un giocatore-guida, un atleta eletto a parametro di questa inusuale maniera di calcolare il passare del tempo. Il tutto motivato, credo, dall’idea che affrontare questo trauma in coppia sarebbe stato meno drammatico rispetto ad una gestione del pensiero in solitaria. Prima di ripercorrere, nel dettaglio, le ragioni del mio personalissimo legame con Andrea Lazzari (Bergamo, 3 dicembre 1984), è forse opportuno che chiarisca come è accaduto che maturassi la necessità di rivedermi in lui.

Ebbi una prima avvisaglia del problema osservando l’approccio al calcio di mio padre, un esperto fino al Mondiale 1982 e completamente disinteressato a partire dalla stagione 1982/83. Solo il senno del poi mi ha messo nella condizione di notare come fosse, di fatto, l’ultima Nazionale composta di membri che erano suoi coetanei: su tutti, il barone Franco Causio da Lecce. In seconda battuta, capii che qualcosa stava cambiando (e che sarebbe presto cambiato) quando realizzai che un famoso Bari di Fascetti aveva battuto l’Internazionale di Milano al San Nicola con un gol di un ragazzo nato proprio nel 1982: nel giro di due-tre anni, pensai, avrei visto i miei pari età dapprima aggregati in prima squadra, quindi esordienti nella massima serie. Contestualmente capendo, senza alcun margine di dubbio, che salvo miracoli non avrei mai fatto il calciatore, né la rockstar. Sarebbe dunque successo qualcosa che fino a quel tempo avevo considerato impossibile: i miei idoli avrebbero condiviso il campo con gente che con me condivideva l’anno di nascita, e che come me aveva vaghi ricordi di Italia 90 e nitidissima la storia un certo Mundial di quattro anni dopo. Capii anche che, forse, la Serie A avrebbe aperto le porte persino a gente più piccola.

Lazzari sulla panchina del Cagliari, dicembre 2010 (Enrico Locci/Getty Images)

A tutt’oggi, nell’era dei Donnarumma, ritengo di aver in parte attutito il colpo. Ma non smetto di essere roso dalla curiosità di capire cosa succederà quando, in piena epoca-Mastour, si sarà ritirato anche l’ultimo dei miei riferimenti anagrafici. O, perlomeno, quando Andrea Lazzari avrà deciso di farsi crescere la panza che tanto desidera e di investire parte dei suoi risparmi in proprietà immobiliari. Mi succederà quello che è successo a mio padre o riuscirò, complici gli elevatissimi livelli di addiction, a mantenere il vizio il più a lungo possibile?

Lazzari mi si è manifestato dal nulla, senza il minimo preavviso. In onda l’andata di Coppa Italia, Atalanta-Juve. Non solo la Juventus sta, una volta tanto, uscendo dalla coppa senza molte recriminazioni, ma il fatto è addirittura avvalorato dalla mostruosa prestazione di un ragazzo proveniente dal vivaio, mancino e apparentemente forte di testa, che ha appena vent’anni e per poco non si porta a casa il pallone, sfiorando un hattrick alla Signora (due, ma quasi tre). Io non riesco a capire come si muova, nel senso che non riesco a capire se sia una punta o un trequartista: per fugare ogni dubbio, il telecronista sottolinea la singolarità della performance rilevando come, nelle giovanili, il ragazzo venisse impiegato da terzino. Per me è troppo, mi arrendo e inizio a studiare.

La tripletta di Lazzari alla Juventus, nella Coppa Italia 2004/2005.

Quando al ritorno, a Bergamo, Lazzari si porta a casa il pallone per davvero, decido che mi gasa da impazzire e lo battezzo. Rivedo in lui una sorta di nuovo Morfeo, mio unico amore post-Savicevic (la passata per Gaston Ramirez sarà, poi, solo passeggera): stesso piede (“un sinistro da un quintale”, per rifarsi ad un noto swingman del passato), stesso vivaio, stesse ottime premesse e stesso (forse) ruolo. Spero per lui in un futuro migliore, certo del fatto che non sarà un caso isolato, come la doppietta di Banchelli o la tripletta – qualche anno dopo – di Grandolfo (diverso e ben più poetico il poker di Nicola Pozzi). E poi, mi dico, le giovanili di Bergamo sono notoriamente una garanzia in senso qualitativo, se non addirittura su un piano etico. Deve essere un tipo in gamba, questo Lazzari, e me lo immagino schivo nei modi e pure equo nelle scelte. Quando poi vince la classifica marcatori della Coppa, con nove gol in otto partite, l’idealizzazione può dirsi ormai compiuta.

Non accolgo benissimo il declassamento di Andrea in Serie B. Giusto, comunque, farsi le ossa, mantenendo come punto fermo la permanenza a Bergamo, l’ambiente ideale per crescere solidi e con la testa sulle spalle. Intuisco che Andrea non corre troppo, che il suo è un galoppare un po’ sornione non necessariamente in linea con il calcio del duemila. Ma a mister Colantuono questo non sembra pesare, tanto più che la promozione è una formalità. Ci resto, invece, decisamente male quando la Dea, nuovamente accolta tra le grandi, inizia il mercato privandosi proprio del mio pupillo. Il fatto è che è tornato Doni dalla Spagna (da lì una serie di esultanze a testa alta, prima della gogna), e che Ventola e Zampagna possono bastare per arrivare nientemeno che ottavi. I prestiti di Andrea sono ben due nello stesso anno, e tremo all’idea di un possibile destino da incompreso. Al Cesena di Pellè va bene ma non benissimo; nel Piacenza va invece decisamente meglio e Lazzari legittima la propria permanenza in una categoria che sembra stargli decisamente stretta. Il che non basta a evitargli un terzo prestito nella stagione successiva. Nel frattempo, però, iniziano a cambiarlo di ruolo. E siccome Morfeo, disperso tra i bar di Brescia e Cremona, è ormai per me un pensiero foriero di tristezza e disillusione, la metamorfosi di Andrea impiegato a centrocampo (interno, si dirà) mi fa ragionare in termini di esaltazione totale: #nonsolopirlo, avrei twittato se fosse esistito Twitter. Il caso ha poi voluto che il triennio lazzariano in cadetteria coincidesse esattamente con la mia avventurosa triennale bolognese, iniziata tra ovvie incertezze relative al “percorso” e rivelatasi scelta azzeccata in fatto di passione e scelte future. Per dire che, pur nella consapevole forzatura di un parallelismo sostenuto e difeso con le unghie e con i denti, la simbiosi che avevo sancito continuava ad essere in qualche modo valida.

Andrea Lazzari e la facilità con cui segna da centrocampo.

In tutto questo, è proprio a Grosseto che Andrea si guadagna una nomea che per certi versi è pure scomoda: diventa, a dispetto di altre reti pregevoli o quantomeno difficili, quello dei gol da centrocampo. Non che l’enunciato sia falso, ma è comunque un’etichetta: dunque, in un certo senso, ovviamente riduttivo.

Qualcosa, in termini di incompiutezza, continuo a sospettare: membro dell’Under-21 sì, ma senza giocare nemmeno un minuto all’Europeo del 2007. Del resto, mi racconto, in fatto di trequartisti c’è Rosina, che non si tocca (e che aspetto al varco già al tempo, perché i Morfeo non moriranno mai). Mentre in mediana, beh, sono sufficienti le presenze Aquilani e Montolivo: in rotazione, a scelta, uno tra Dessena-Cigarini (un’endiadi, che nessuno è mai riuscito a considerare separatamente per diversi anni) e Nocerino.

Quando il Cagliari di Cellino osa investire su Andrea Lazzari sono in piena specialistica. Ho cambiato casa, ho imparato a dare lo straccio in modo apparentemente più decoroso e forse so pure cucinare qualcosa. Se, a livello simbolico, per me e Andrea si tratta di scelte chiare e ben definite, è tempo per entrambi di delineare le rispettive personalità. Quanto alla parabola di quel Cagliari, di segno decisamente opposto rispetto alla débâcle che gli zemaniani non possono fare a meno di imputare a Giulini, è superfluo ricordare quali e quanti allenatori siano riusciti a ben figurare, sfruttando la Sardegna come rampa di lancio: si tratta di una piazza che è seconda, in tal senso, solo al Catania dei vari Zenga (!), Simeone, Montella e Maran.

Prima che le statistiche, impietose, rivelino l’incompiutezza di Lazzari in tutta la sua essenza (spoiler: in campionato 99 presenze e 9 reti), la carriera sembra essere del tutto in ascesa. In particolare, Andrea Lazzari sembra saper dare il suo meglio, o quasi, contro la Roma, ovvero quando si intromette nell’epica sfida tra Daniele Conti e il padre Bruno. Due, nella fattispecie, le occasioni di maggior rilievo:

1) una prodezza su punizione: (per il calcio piazzato si vada direttamente a 1’ 56”, per giocate illuminanti del Nostro e di tutta la squadra si vedano pure anche le immagini che precedono)

Gol all’Olimpico nel 2010.

2) un’azione corale, nonché da pelle d’oca, che chiude il famoso 5-1 di marca Bisoli: (con lo zampino del miglior Cossu di sempre).

Il suo gol in Cagliari-Roma 5-1, stagione 2010/2011.

Non è che mi illuda: è che Andrea inizia a convincere praticamente tutti; io riesco, sull’altro versante, a dare gli esami del primo anno senza troppi patemi, e vado in vacanza fiducioso. Tanto più che, l’anno seguente, il suo score in campionatone segna addirittura sei reti e ormai sono convinto che sappia che io, gli esami, li ho finiti e mi manca la tesi.

Ecco, forse ci siamo adagiati. E l’abbiamo fatto insieme. è l’unico modo in cui mi spiego il fatto che le convocazioni in azzurro non l’abbiano mai portato a esordire in Nazionale. è anche l’unico modo in cui mi spiego che la mia tesi di laurea, realizzabile in non più di tre mesi, mi abbia privato di un anno di vita.

Marzo 2010, gran botta contro il Catania.

Ho imputato quell’improvviso declino all’influenza nefasta delle cattive compagnie, come quel Matri, con cui Lazzari è solito condividere quella sobria esultanza consistente nel gesto della paperella e rispetto al quale era Robert Acquafresca a sembrare il più forte. Tutti hanno fatto degli errori nello scegliersi gli amici, qualche volta: lo capisco, ma mi dispiace. E a nulla serve bacchettarlo, sia pure a distanza e virtualmente, perché si sarebbe dovuto accompagnare a persone più affidabili, della risma dei Pisano o degli Agostini. Sono, del resto, uno degli ultimi a poter parlare: per quanto Bologna sia ancora bella, lo è un po’ meno se non si ha più motivo per restarci. Forse è il momento di cambiare aria, anche per me.

Poi, siccome Lazzari è sempre Lazzari, il gol alla Bergkamp è quello che i più tendenzialmente ricordano:

Rete alla Bergkamp nel 2009 contro la Reggina.

Più che di crisi, ha senso forse parlare di transizione. Mentre per me si tratta di andare a Pisa, tra l’ebbrezza di essere chiamato a un incarico di maggiore responsabilità (“lavoro” è il termine tecnico) e la rottura di scatole di essere chiamato ad un incarico di maggiore responsabilità (come sopra), per Andrea si verifica un quadriennio tutto particolare.

Quello che, in effetti, è il nuovo ruolo di Lazzari nella Serie A italiana consiste, letteralmente, in una schizofrenica successione di alti e bassi, a cominciare dalle squadre in cui gioca. è una carriera palindroma, o “a specchio”, in cui milita, nell’ordine, in: Fiorentina (che ne acquista il cartellino); Udinese (in prestito); ancora Udinese (rinnovo del prestito) e ancora Fiorentina (tornato alla base).

Alcuni aspetti paradossali del quadriennio:

1) Riesce, senza volerlo, a militare sia nella peggiore che nella migliore Fiorentina del pre-Paulo Sousa. Nel primo caso si tratta del 2011/12, della Viola guidata da Sinisa Mihajlovic e costantemente galleggiante costantemente nella parte destra della classifica. Per il resto, Delio Rossi (di nuovo) e Adem Ljajic ci hanno messo del loro, ma per Andrea si tratta di una stagione positiva, in cui gioca 35 partite in campionato e si permette il lusso di marcare per due volte, decidendo due match: all’andata, in casa contro il Genoa; all’Olimpico, nel girone di ritorno.

2011/2012, rete al Genoa.

Nel secondo caso si tratta del 2014/15, coincidente con l’ultimo anno dello splendido ciclo di Vincenzo Montella e dei mediani dal piede magico, quali Borja Valero, Pizarro e Aquilani. Oltre a questo, i mancini in squadra non mancano, e si chiamano Ilicic e Diamanti; nei ballottaggi, infine, si viene esclusi per fare posto a Kurtic e Badelj. In tutto questo, con mia gioia e stupore, il ragazzo – che è ormai un trentenne – colleziona sei apparizioni in Europa League, suo massimo storico.

2) A Udine, dove arriva senza clamore e senza troppi entusiasmi, riesce in qualche modo a rinascere nel 2012/13: dopo una partenza in sordina si afferma come punto cardine della squadra, rivelandosi il sontuoso e visionario assistman di sempre. è quello, peraltro, il vero esordio ufficiale in Europa: sarebbe stata Champions, se Maicosuel non avesse deciso di ridimensionare le ambizioni del club con un colpo di cucchiaio. L’anno dopo, in cui Andrea è un po’ fuori forma e un po’, semplicemente, non lo schierano, le presenze in A sono appena venti, ma nell’Europa “minore” ne gioca comunque altre quattro.  Si potrebbe desumere, allora, che ci troviamo al cospetto di un giocatore non tanto incompreso, quanto piuttosto – ed è più verisimile – dal rendimento non propriamente costante.

Senza tirare in ballo il destino o analoghe forze ordinatrici, questa estate il Carpi ha trascorso parte del ritiro nella mia città. Trattandosi dei giorni a ridosso del ferragosto, mi è parso ovvio che il mio ritorno dalle vacanze coincidesse esattamente con la data della fine del ritiro. L’ho preso come un segnale, un favore che in fondo mi è stato fatto, perché potessi ancora per un po’ cullarmi nell’idea che i miei giocatori di riferimento fossero inavvicinabili e appartenenti ad un mondo “altro” dal mio. Ci siamo sfiorati, ma tant’è.

Il resto è storia nota, sintetizzabile nella prima storica del Carpi in A, a Marassi. In cui Lazzari ha segnato dopo un buon aggancio, ma ha anche deciso di regalare un rigore alla gloria di Viviano, quasi rivelando la ferma intenzione di rimanere un incompiuto.

Il calcio di rigore sbagliato quest’anno a Marassi.

Da allora, appena sette presenze e poche altre convocazioni. Con il sentore – avvalorato da alcune colpevoli letture di certi (e ben noti) siti densi di illazioni in chiave-mercato – che Andrea sia a rischio di finire in B, con buona pace dei vari Zaccardo, Borriello e Matos. Nel senso che forse, a parte l’esito della stagione in corso, ho il timore che lo cedano in questa sessione o che finisca l’anno con le cifre che risultano all’attuale stato dei fatti.

In attesa di capire che ne sarà di noi, della sua carriera e della mia passione per il calcio, ringrazio Andrea Lazzari per avermi accompagnato ai trenta con serenità. Per i suoi colpi di testa, per il suo poderoso mancino e per i filtranti che ha sempre ricamato in pochi metri. Nella consapevolezza che solo un giocatore del genere, ben più che un Morfeo, potesse farmi da guida ed aiutarmi a far luce su alcune questioni di una certa importanza. Tipo che esistono gli alti e i bassi, e che le passioni, proprio a fronte dei suddetti alti e bassi, vanno coltivate con cura perché possano durare per decenni, o perlomeno il più a lungo possibile. Come, banalissimamente, tutte le cose della vita.