Paradiso ritrovato

Sabato si gioca Partizan Belgrado-Stella Rossa: il momento più atteso di una cultura calcistica che, tra miti e leggende, ha sempre trovato un modo per rinascere.

Dicono che Pelé scelse di giocare la sua partita d’addio il 18 luglio del 1971 contro la Jugoslavia perché, se fosse nato in Europa, sarebbe stato solo ed esclusivamente lì. Dicono che la Under 20 jugoslava campione d’Europa nell’87 sia stata la squadra con più giocatori in grado di vincere la partita da soli, della storia di quel torneo. Dicono che quando Dejan Savicevic giocava ancora in Montenegro, in alcune partite gli avversari gli chiedessero se poteva spiegargli cosa aveva fatto perché loro, ancorché in campo, non lo avevano capito. Dicono che a Belgrado il pubblico voglia i soldi indietro, se in campo non ci sono almeno due giocolieri in grado di far sedere gli avversari. Dicono che nessuno sia mai riuscito a far sedere gli avversari come Safet Susic, il più grande giocatore bosniaco di sempre nato sul suolo patrio – l’altro gioca col 10 della Svezia solo perché in Svezia c’è nato. Dicono, ed è l’unica cosa certa, che la Jugoslavia, specie quella del calcio, non c’è più.

Eppure poi vedi gli scout internazionali fare tappa fissa a Zagabria, per visionare  i talenti della Dinamo, e osservi l’ultimo Mondiale Under 20, vinto dalla Serbia, e allora ricominci a pensare che qualcosa di magico, in quelle terre devote a fudbal o nogomet, c’è ancora. C’è da sempre.

Tifosi della Stella Rossa al MarakanaAndrej Isakovic/AFP/Getty Images
Tifosi della Stella Rossa al MarakanaAndrej Isakovic/AFP/Getty Images

Nel primo Mondiale della storia, la Jugoslavia è stata l’unica squadra europea credibile, ha battuto il Brasile prima di essere sommersa dall’inarrivabile qualità uruguagia in semifinale. I Plavi sarebbero arrivati in fondo anche nel 1950, anticipando di qualche match il Maracanazo: si misurarono alla pari contro il Brasile, ma furono sconfitti anche perché costretti a giocare in inferiorità numerica, dato che l’arbitro gallese Griffith non volle sentire ragioni, distinta consegnata in mano: «C’è scritto che deve giocare Mitić, se questo Mitić non è pronto, cominciate con uno in meno». Mitić, nel mentre, pareva protagonista di un film splatter, dopo aver intercettato sulla fronte un’insidiosa sbarra di metallo del Maracanã, sostanzialmente un cantiere, nelle zona spogliatoi, ma obbligatoriamente reso a norma per far cominciare quello che doveva essere la presentazione al mondo di un Nuovo Brasile. La Jugo fu vittima di quel marchingegno, che si inceppò solo davanti all’Uruguay, la squadra preferita degli dei del calcio.

Lo stadio che a Belgrado tutti chiamano ancora Marakana l’anno scorso è stato intitolato alla memoria proprio di Rajko Mitić. Un impianto inaugurato il primo settembre del 1963, in campo i padroni di casa della Stella Rossa e il Rijeka. Con i crveno-beli, i biancorossi di Belgrado, anche Velibor Vasovic. Il difensore, simbolo dell’altra squadra della città, il Partizan, aveva rotto con il club che l’aveva formato, e si era offerto ai rivali. Gli oltre cinque milioni di dinari, con cui ci potevi comodamente comprare almeno un paio di scintillanti Mercedes, avevano chiuso l’affare e immediatamente fatto traballare l’equilibrio interno non solo del calcio jugoslavo, quanto di chi reggeva quel paese, il politburo del partito comunista. Sverginato il Marakana con un 2-1 al Rijeka, la Stella Rossa procedeva di vittoria in vittoria: sfido, con i tre tra i migliori difensori della storia del calcio slavo, Milan Čop, Vojislav Melić e, appunto, Velibor Vasovic. Durerà solo sei mesi la parentesi biancorossa di Vasovic, causando una guerra di correnti all’interno del partito comunista, degna di miglior causa, con intervento diretto anche del padre della patria jugoslava, il maresciallo Tito. Non l’unico, né l’ultimo.

Come viene vissuto, passo dopo passo, il Derby eterno

Poi il difensore tornò al Partizan, che aveva costruito negli anni Sessanta il nuovo modello del fudbal jugoslavo, affidando a tecnici molto preparati la formazione di giovani che venivano subito inseriti in prima squadra, senza paura. Un modello che si definisce verso la metà degli anni Cinquanta, quando, sempre per volere del Partito, fu nominato presidente del club Franjo Tudjman, non un omonimo del leader dell’indipendenza croata. Ma in quell’epoca ridente della Jugo e del calcio, erano tutti solo slavi del sud. «Siamo la squadra dell’esercito, dobbiamo portare a Belgrado i migliori giovani del Paese, possono benissimo fare la leva al Partizan».  Detto, fatto.

Poi ci vuole cultura di formazione (raggiunta con un maestro come Florijan Matekalo, lo scopritore di una generazione di talenti belgradesi: tra questi, proprio Vasovic) e superiore proposta calcistica. E quella giunse dal nord, spinta dal vento della rivoluzione magiara. Al Partizan era passato Géza Kalocsay, già “tattico” di Gusztáv Sebes, il ct dell’Aranycsapat, la squadra d’oro coi Puskas, Kocsis, Bozsik, Hidegkuti e compagnia, che tutti veneriamo nonostante Berna e i miracoli. In quel denso brodo di cultura calcistico riformato a Belgrado si erano formati signori tecnici come Stjepan Bobek e Aleksandar Atanackovic, fino ad Abdullah Gegic.

Avvicinandosi allo stadio del Partizan. Pedja Milosavljevic/EuroFootball/Getty Images
Avvicinandosi allo stadio del Partizan. Pedja Milosavljevic/EuroFootball/Getty Images

E qui ritorna Tito, di nuovo interpellato dal generale Iván Gošnjak, forse l’uomo più odiato da Stalin, ai tempi della rottura russo-jugoslava. Il tecnico Atanackovic aveva diviso lo spogliatoio, e ciascun gruppo chiedeva l’intervento di qualche pezzo grosso dell’esercito per dirimere la vicenda. Un paio di esili temperati, un generale spedito in Slovenia, l’altro in Macedonia: il tackle risolutivo del Maresciallo per antonomasia: «E che sia chiusa qui!».

La panchina è affidata a Gegic, che inizia una delle più improbabili ed entusiasmanti cavalcate della storia della Coppa dei Campioni. Annata 1965-66: un gruppo di ragazzini formati al Partizan praticanti un calcio moderno, esteticamente sublime e sempre vincente, arriva a soli venti minuti di distanza dalla conquista della coppa più prestigiosa del calcio europeo. In porta Milutin Soskic, un serbo del Kosovo, probabilmente il miglior portiere della storia del club. La linea difensiva di un sistema di gioco che era uno spurio 3-1-2-4 (una via di mezzo tra la piramide danubiana e il 4-2-4 brasiliano) formata da Fahrudin Jusufi, gorani, un gruppo etnico slavo meridionale di religione mussulmana delle montagne dell’ovest macedone, più Milan Galic, e Branko Rasovic, due montenegrini. Come libero davanti alla difesa ma anche elemento chiave della prima costruzione, il nostro Vasovic, macinatore di chilometri con senso del gol, giocatore di eleganza e intelligenza calcistica superiore, tanto che l’Ajax di Michels e Cruijff  deve chiamare lui per vincere finalmente qualcosa a livello continentale. A compensare tatticamente le sue giocate, Zaza Becejac. Centravanti arretrato, eccelso nella lettura degli spazi e favoloso nella rifinitura, l’Hidegkuti moderno Vladica Kovacevic. Sugli esterni Mane Bajic e Josip Pirmajerun, croato della minoranza tedesca cresciuta lì, davanti Milan Galic, icona indiscutibile del calcio slavo, e la macchina da gol Mustafa Hasanagi (355 gol in 337 partite col Partizan), serbo mussulmano di origine bosniaca, che in quella cavalcata della Coppa Campioni del ’66 segnò sei gol in una gara dei quarti di finale, allo Sparta Praga: all’annullamento ingiusto della sesta segnatura corse dall’arbitro, che aveva già pronta la risposta: «Li hai umiliati fin troppo, accontentati di cinque».

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Mandarono a casa lo United di Busby con Bobby Charlton e Law (George Best out per problemi al ginocchio, almeno ufficialmente), fino a venti minuti dal termine, grazie alla rete di Vasovic, what else, comandavano senza troppi problemi la finale contro Real Madrid di Gento, che però pescò due reti tra 70′ e 79′ e alzò la Sexta nel cielo di Bruxelles. Cancellando il finale di una favola che merita ancora di essere raccontata.

Una squadra di ragazzi, Partizanove Bebe. Provenivano da tutta la Jugoslavia, rappresentavano una scuola di calcio che era la fotografia di un popolo unito, orgoglioso e capace. Appassionato di football come pochi, generatore di talenti come nessuno. La Jugo ha vissuto lo sport, tutto lo sport, nello spirito e nella pratica, forse come nessun altro Paese. Oggi è un’anima divisa la terra degli slavi del sud, ma la passione per il pallone, quella è intatta, irrinunciabile, vivissima in ogni angolo della ex Jugoslavia. E chi ama il Grande Gioco, lo riconosce, lo sa.

 

Dal numero 7 di Undici. Nell’immagine in evidenza, tifosi del Partizan Belgrado durante il match contro lo Steaua Bucarest, lo scorso 5 agosto. Srdjan Stevanovic/Getty Images