Io e Antonio Conte

Può la storia di un allenatore intrecciarsi con le nostre vite personali? E, in un certo senso, oltre risultati, classifiche e traguardi, si può diventare amici?

Non ho mai visto Antonio Conte. Non l’ho mai incontrato, non ci ho mai parlato, né gli ho detto «Antoniocò, sei un grande». Antoniocò è il modo in cui lo chiamavano a Bari, perché, si sa, noi al Sud facciamo fatica a completare le parole fino all’ultima sillaba. Ho incontrato, visto di sfuggita o intervistato, vari allenatori. Ma Antonio Conte no, e forse è meglio così. Perché, a distanza di anni, continuo a vederlo irraggiungibile, una sorta di simulacro racchiuso in una teca di infallibilità e soprannaturalità. L’umanità di Antonio Conte, io, non voglio vederla. Anzi, non la contemplo proprio.

Ho tre immagini di Antonio Conte. Sono dei frame che si sono depositati nella mia mente, e che tornano, ciclici, quando qualcuno pronuncia il suo nome. Sono la mia madeleine, tre segmenti di una storia molto, molto più grande di quel poco che rappresentano, ma che ne definiscono il senso, che restituiscono il tono, il sapore di quei giorni. I giorni con Antonio Conte. Il primo è in piena estate, 2008. Conte è da qualche mese l’allenatore del Bari, ci si prepara a una nuova stagione, forse bella, forse brutta, non è dato sapere – mai, mai, mai – a chi tifa biancorosso. Un telefonino riprende la sessione di allenamento, credo all’antistadio, a Bari. La qualità è sgranata, l’audio gracchiante. C’è la sagoma di Conte che si intravede, con alcuni giocatori sullo sfondo. Un tifoso, vicino la rete, inizia a schiamazzare, in vernacolo barese: «Bello Antonio mio… u sà ci è Mourinho in confrond’ a te? Platinette! (sai chi è Mourinho in confronto a te? Platinette)». Quel tifoso non poteva sapere che l’uomo che stava incitando si sarebbe seduto, anni dopo, sulla stessa panchina del suo personalissimo Platinette.

Italy's coach Antonio Conte arrives to attend the friendly football match Italy vs Netherlands on September 4, 2014 at the San Nicola stadium in Bari. AFP PHOTO / ALBERTO PIZZOLI (Photo credit should read ALBERTO PIZZOLI/AFP/Getty Images)
Conte al San Nicola, Bari, 2014. (Alberto Pizzoli/Afp/Getty Images)

 

Le altre immagini parlano di calcio giocato, di campionato, anzi di un campionato, quello di Serie B vinto dal Bari nel 2008/2009. Ce n’è una che fluttua nella memoria, senza riferimenti, né spaziali né temporali. Non ricordo che partita fosse, forse non ha nemmeno importanza: ricordo, però, che si trattava di una vittoria. Conte arriva in sala stampa e parla ai giornalisti. Non ha voce. Si sente a malapena, e io penso che sì, potrebbe essere uno di noi, è uno di noi, uno qualsiasi che va in curva, canta, si sgola, perde la voce. Come se fino a qualche minuto prima eravamo fianco a fianco, abbracciati, ognuno con la sua sciarpa tesa al vento gelido di certe trasferte in provincia, a incitare la squadra, e poi lui, con la naturalezza più scontata, si fosse congedato calorosamente e si fosse infilato in sala stampa.

L’ultima immagine è una partita precisa, e quella sì che la ricordo bene. Fine aprile 2009, si gioca ad Ancona. Il Bari è primo, è davvero molto vicino alla promozione. Chiude la partita già nel primo tempo, con la tripletta di Barreto. Non scorderò mai l’esultanza di Conte al secondo gol, abbracciato dalla panchina, che stritola gli altri e viene stritolato dagli altri. Sulla faccia si legge l’emozione, la gioia, forse la commozione. È un’immagine da compilation di gol di Youtube, quelli che guardi per nostalgia, e nel caso del Bari capita un po’ più spesso del dovuto: te la trovi lì, buttata per caso e invece no, è quella cosa che ti risveglia un qualcosa dentro e che porta con sé tutto il resto, le ragazze, gli amici, il sole a picco sull’erba fresca che ti penetra le narici e una sera passata a soffrire e poi a esultare. È una di quelle cose che dà senso a certe stravaganze della vita, come tifare appunto, anche a distanza di anni, ed è bene tenersela stretta.

È come il compagno di banco che ce l’ha fatta. Come se io e Antoniocò fossimo cresciuti insieme

Sapevamo che sarebbe diventato un allenatore di successo. Non sapevamo quanto. Guardare dov’è oggi fa impressione. È come il compagno di banco che ce l’ha fatta. Come se io e Antoniocò fossimo cresciuti insieme. Ero una matricola universitaria quando lui arrivò a Bari, un leccese a Bari, dopo un derby perso proprio contro i giallorossi per 4-0. Abbiamo imparato a conoscerci nei giorni, nelle settimane e poi nei mesi, partendo da una sottile diffidenza e poi arrivando a una totale simbiosi, conoscendo tutto dell’altro, di abitudini e interessi, sapendo tutto ogni volta, del giovedì sera al cinema con la squadra come della nascita della figlia Vittoria, condividendo tutto da buonissimi amici. Lo sapevi e lo avevi fatto tuo, gli avevi permesso di entrare nel tuo gruppo, nella tua comitiva, e lui in fretta era diventato il più stimato e apprezzato, il più amato, fino al momento in cui, sugli spalti, cominciò a campeggiare un facsimile gigante della sua carta d’identità, con la parola “Lecce” cancellata per far spazio a quella “Bari” in corrispondenza del luogo di nascita.

Sapevamo anche che un giorno ci aveva lasciato, ma non così presto, e non in quel modo, poco tempo dopo aver raggiunto la promozione in Serie A, che il Bari inseguiva da otto anni. Una separazione arrivata nella calura di un primo pomeriggio di giugno, mentre preparavo l’immane esame di letteratura latina, e non capivo perché, perché Vincenzo Matarrese si era messo a litigare con l’uomo che ci aveva restituito l’orgoglio, e la pena con cui quelle ore passarono, come se, d’un tratto, con Antonio Conte ci avessero tolto anche la Serie A, il futuro, la speranza.

AS Bari v US Latina - Serie B Playoffs

Ecco: Antonio Conte ci ha ridato la speranza. Quella che poi è riuscito a restituire ovunque è andato, come alla Juve. Saperlo in parola con il Chelsea è un’iniezione di orgoglio con una punta di malinconia, quasi di amarezza. L’orgoglio di aver avuto qualcosa di bello, anzi no, di speciale, di raro: come aver assistito a un fenomeno celeste che capita ogni mille anni, con la fortuna di esserci stati, di averlo visto. E tutti gli altri che lo vedranno saranno fortunati anche loro, ma noi potremmo dire “sì, ma l’abbiamo visto prima noi”, ed è una cosa insignificante, se non addirittura pidocchiosa, però dolce. Ed è quel dolce che mitiga l’amarezza, ora che quella cosa non ritornerà più. Chissà se a Londra, ogni tanto, Conte ripenserà al tempo in Puglia, alla bellezza di quella sfida, se avrà ancora voglia di pensare a quanta felicità ha disseminato, se tutto questo resiste a quello che è venuto dopo, un’altra promozione e tre scudetti, perché il valore dei trofei si può quantificare, ma non quello dei sentimenti. Se quella cosa che chiamiamo tempo non sia solo un cambiamento compulsivo e irrazionale, ma porti con sé la consapevolezza delle emozioni, delle facce, dei ricordi. Antonio Conte per me è la consapevolezza. Che le cose e le persone, che la vita ci mette di fronte, non si perdono. Anche se non le hai mai incontrate.

 

Nell’immagine in evidenza, Antonio Conte durante un match con la Nazionale. Claudio Villa/Getty Images