West Side Story

Gli Spurs di Duncan, Parker e Ginobili. Gli Spurs di Leonard e Aldridge. E gli Spurs di David West. Di lui non parla quasi nessuno. Ed è un vero peccato.

È il 6 luglio 2015. Il primo a riportare la news è David Aldridge, giornalista di Tnt che dal suo account Twitter annuncia: David West ha firmato con i San Antonio Spurs. Il tweet successivo è per un commento: «West ha rinunciato a 12 milioni di dollari, per guadagnarne 1,4 ma avere una chance di vincere un anello. Non tutti giocano per i soldi». Avete letto bene. L’opzione per il terzo anno del contratto da 36 milioni di dollari complessivi firmato nel 2013 con gli Indiana Pacers gliene avrebbe messi in tasca una dozzina abbondante per la stagione in corso. Scegliendo di non esercitarla – e firmare invece con gli Spurs – West ha accettato di giocare per il minimo contrattuale previsto dai regolamenti della lega per un veterano con la sua esperienza (è alla 13esima annata Nba), ovvero solo un milione e mezzo. Strano? Benvenuti nel mondo di David Moorer West.

Contro Steven Adams degli Oklahoma City Thunder, lo scorso 28 ottobre (J Pat Carter/Getty Images)
Contro Steven Adams degli Oklahoma City Thunder, lo scorso 28 ottobre (J Pat Carter/Getty Images)

Valori – La prima domanda che viene naturale farsi è: perché? Certo, quella “chance di vincere un anello” spiega in parte la decisione. Ma West non è nuovo a scelte del genere. Nell’estate 2011 Indiana gli offriva 20 milioni di dollari per due anni contro i 29 per tre messi sul piatto dai Boston Celtics, la squadra più vincente della storia Nba. Risultato? Indiana, neanche a dirlo («la soluzione migliore per me a questo punto della mia carriera», spiegò al tempo). Ora San Antonio, e un’altra domanda: il sogno di inseguire un anello vale 11 milioni di dollari? «Probabilmente anche di più – a sentire lui – la scelta che ho fatto mi ha già ripagato di tutto». Dipende dai parametri che uno adotta. Se si pensa ai prossimi contratti super ricchi in arrivo, gonfiati dal nuovo accordo televisivo, o se si pensa invece che papà Amos, una vita da impiegato delle poste, non ha mai portato a casa più di 30.000 dollari all’anno. West ha le idee chiare: «Non mi interessa spremere ogni dollaro possibile da questi ultimi anni di carriera», ha spiegato. «Fortunatamente non ne ho bisogno: non voglio che siano i soldi a influenzare le mie decisioni».

GettyImages-506778842

Preferiti – Cosa, allora? Un vecchio articolo apparso sul Cincinnati Enquirer nel marzo 2003 ci aiuta a capirlo. Il profilo di un 22enne David West – al tempo giocatore di college a Xavier University – si chiudeva con una breve scheda che elencava in maniera disordinata una serie di preferiti. New York o Philadelphia tra le città. L’immancabile Il principe cerca moglie tra i film. Il blu come colore. Il gelato (cioccolato&menta) come peccato di gola a cui non poter resistere, neppure a mezzanotte. Poi, alla fine, due preferenze un po’ diverse dalle altre. Squadra Nba: San Antonio Spurs. Giocatori: David Robinson e Tim Duncan. Strano, curioso, per un ragazzo nato nel New Jersey, cresciuto nel North Carolina e finito al college in Ohio, a cui il padre mostrava come ispirazione filmati su filmati di James Worthy, stella dei Lakers dello Showtime. Perché San Antonio allora? Perché Tim Duncan? «Mio padre mi ripeteva in continuazione che due punti son sempre due punti, che arrivino con una schiacciata al termine di un volo prodigioso o con un tiro appoggiato al tabellone scoccato da fermo». Quel tiro appoggiato al tabellone da fermo che, non a caso, è proprio il marchio di fabbrica di un ex-nuotatore delle isole Vergini col n°21 sulla maglia neroargento. Uno che ieri David West ammirava e che oggi, nella squadra per cui tifava da ragazzino, può chiamare compagno.

17 punti e 2 assist contro i Thunder, lo scorso 26 marzo

Ruolo – Vicino a compiere 36 anni, West oggi può essere considerato un comprimario, un giocatore di ruolo, a maggior ragione in una squadra che potrebbe presto o tardi fornire 4/5 giocatori alla Hall of Fame di Springfield. Ma sia chiaro, non è sempre stato così. Tre anni di fila miglior giocatore dell’Atlantic 10 conference al college, con la maglia n°30 dei Musketeers di Xavier (ora ritirata); due volte consecutive, 2008 e 2009, All-Star Nba, con quella dei New Orleans Hornets; sei volte ai playoff; capace di segnare 44 punti in una partita Nba, o di catturare 20 rimbalzi in un’altra. Oggi, a San Antonio, è vicino ai minimi in carriera per minuti (meno solo da matricola) e produzione offensiva (la più bassa dal 2004-05), ma è tutto normale, tutto previsto, tutto funzionale a un disegno più grande, più importante. Anzi, guardando solo un po’ più in profondità, si scopre che il net rating degli Spurs – già il più alto di tutta la lega – migliora di due punti quando lui è in campo (+14.3) rispetto a quando è seduto in panchina (+12.3). E poi c’è la leadership, imparata tra i banchi dell’accademia militare di Hargrave, in Virginia, e l’esempio quotidiano in spogliatoio, che agli occhi del suo allenatore a Indiana Frank Vogel lo ha reso «con ogni probabilità il mio giocatore preferito di sempre».

Schiacciata alla ORACLE Arena contro i Golden State Warriors. (Ezra Shaw/Getty Images)
Schiacciata alla ORACLE Arena contro i Golden State Warriors. (Ezra Shaw/Getty Images)

Spogliatoio – Proprio quello spogliatoio dove oggi è leader riconosciuto si era rivelato a inizio carriera un luogo di difficoltà e incomprensioni. La scelta al Draft 2003 (con la 18esima chiamata, dietro a nomi poi scomparsi prestissimo dai radar Nba come quelli di Reece Gaines, Troy Bell o Zarko Cabarkapa) gli mette i primi soldi veri in tasca ma gli sbatte contemporaneamente in faccia la realtà di New Orleans. Dove, dice all’epoca West, «se ti ci portassero bendato, a occhi chiusi, tolta la benda non penseresti di essere in America». Il giorno del suo 25esimo compleanno le cose peggiorano ulteriormente. È il 29 agosto 2005, Katrina si porta via parte della sua città Nba. «Distruggendo soprattutto la mia comunità, quella afroamericana. È stato un colpo durissimo. Certo, io ero un giocatore Nba, ma da quel giorno anche il mio status ha iniziato ad avere un significato diverso». Diversa è anche la sua consapevolezza, diverse le sue esperienze («Un poliziotto uccise un ragazzo di colore a un isolato da casa mia, in North Carolina. Mio padre mi portò con lui alla marcia di protesta. Avevo solo 6 anni»), diverse le sue letture. «Hai sempre in mano dei libri assurdi», gli dicono i compagni ai Pacers. Eldridge Cleaver, uno dei leader del Black Panther Party, aveva scritto Soul on Ice mentre era in prigione e mentre l’ala di Indiana ne divora conquistato le pagine forse proprio a questo – a una prigione, con tutte le ovvie differenze del caso – West inizia a paragonare l’ambiente che lo circonda nella Nba.

GettyImages-511622124

Black & proud – West è diverso, e la diversità – da Dennis Rodman ad Allen Iverson – non è sempre ben vista nella lega. Lui pensa e si comporta a modo suo. My life. My way: si è fatto tatuare sul braccio sinistro questi due comandamenti già durante l’ultimo anno di college. Col tempo di tatuaggi ne ha aggiunti un’altra decina, tra cui una croce ansata – antico simbolo sacro egizio che simboleggia la vita – e una grande X. È quella di Xavier, la sua alma mater. Ma è anche la sigla scelta per rinnegare il cognome di origine schiavista dal giovane Malcolm Little, così conosciuto quando serviva ai tavoli al club di Harlem di proprietà di Wilt Chamberlain e poi passato alla storia, appunto, come Malcolm X. Dentro quella corazza da 205 centimetri e 115 chili West cela un’anima black, pronta a infiammarsi di fronte all’assoluzione del poliziotto colpevole dell’omicidio di Mike Brown a Ferguson (un altro ragazzo nero freddato dalla polizia, trent’anni dopo il suo vicino di casa in Carolina): «Non ho parole. La testimonianza di fronte al Grand Jury è uno scherzo. Apparentemente Mike Brown era un mix tra Hulk e Wolverine…». Rabbia e sarcasmo affidati a Twitter, prima di decidere che no, pure Twitter non va bene, ispirato anche dalle lyrics di Drake: Trigger fingers turn to Twitter fingers [Back to back, 2015] canta il rapper canadese, e all’ala di San Antonio 140 caratteri ora non bastano più: «Volete chiedermi un’opinione? Volete sapere cosa ne penso? Sono qui, chiedetelo a me, parlate con me». Che di cose da dire, non da oggi, David West ne ha parecchie.

 

Nell’immagine in evidenza, il riscaldamento di David West prima del match contro Cleveland alla Quicken Loans Arena (Jason Miller/Getty Images)