L’Islanda, la natura, il calcio

Una conversazione nella neve islandese con Elísabet Jökulsdóttir, scrittrice e candidata presidente della Repubblica. Su Maldini, tempeste e riti contemporanei.

La prima volta che l’ho incontrata, per via di una casualissima conoscenza in comune, Elísabet Jökulsdóttir aveva addosso solo un accappatoio rosa. Stava a piedi nudi nel patio della residenza per artisti di Eyrarbakki, un villaggio di ex-pescatori a un’ora di strada a sud di Reykjavik, dove sorge il più grande carcere islandese – una ventina di detenuti tra alcolisti e responsabili del crack finanziario del 2008 – e dove lei trascorre in media un paio di giorni a settimana. Cominciava a nevicare fitto. Noncurante, Elísabet ricercava con dedizione la collocazione perfetta per fotografare uno strano oggetto sferico che aveva tra le mani, e che da lontano mi pareva un pallone da calcio. Tra i rami di un albero spoglio; sopra una sedia in legno davanti all’uscio; sul prato brizzolato di una neve di polistirolo. Nulla sembrava convincerla appieno.

«Voglio una foto che diventi la copertina del mio prossimo libro», aveva detto nel momento in cui io realizzavo che l’obiettivo dei suoi scatti non era in realtà un pallone ma il casco di una moto, tutto scheggiato, dal cui interno fuoriusciva una fitta chioma di alghe. «Me l’ha portato l’oceano stamattina. Vado tutte i giorni sulla scogliera per ricevere messaggi dal mare, e credo questo sia un invito della natura a prendermi cura della mia testa. Negli ultimi tempi la sto pressando troppo. Se dovessi cominciare a urlare all’improvviso, non spaventatevi».

(Halldor Kolbeins/Afp/Getty Images)
(Halldor Kolbeins/Afp/Getty Images)

Elísabet è candidata ufficialmente alla presidenza dell’Islanda. Il prossimo 25 giugno, nel bel mezzo degli Europei di Francia, l’isola atlantica sceglierà il suo sesto capo di stato. Non si tratta di elezioni politiche, ma la vicenda Panama Papers, che ha spinto il popolo islandese in piazza e il premier David Gunnlaugsson alle dimissioni, sta infiammato il dibattito interno come un vulcano impazzito.

Oltre a lei, tra gli altri dodici pretendenti ci sono: un fisico autoproclamatosi star di Youtube, un camionista contestatore, un’infermeria e un ex-calciatore riciclatosi coach motivazionale. Elísabet, la cui apparentemente innocua qualifica è “autrice e giornalista freelance”, non è certo da meno in quanto a singolarità esperienziale: anni prima di affermarsi come poetessa e scrittrice ha lavorato nel settore delle costruzioni prima e in quello delle navi da pesca poi. «Ma a un certo punto ho sentito il bisogno di rendere più concreta l’eredità linguistica e letteraria che mi è stata consegnata dal mio popolo», ha dichiarato una volta. Il suo primo libro di poesie, Dance in a closed room, è stato pubblicato nel 1989. Ancora più peculiare è il fatto che nel 2001, molto prima che la Nazionale del suo paese centrasse una storica qualificazione alla fase finale del torneo continentale, Elísabet abbia scritto un libro sul calcio. La prima opera islandese di fiction dedicata al mondo del pallone l’ha composta una donna. Una donna solita scrivere, per giunta, di sogni, amore e solitudine, mica di gol e punizioni.

REYKJAVIK, ICELAND - OCTOBER 10: A fan collects his ticket prior to the UEFA EURO 2016 Qualifier match between Iceland and Latvia at Laugardalsvollur National Stadium on October 10, 2015 in Reykjavik, Iceland. (Photo by Tom Dulat/Getty Images).
La biglietteria dello stadio di Reykjavik (Tom Dulat/Getty Images)

Fótboltasögur, tradotto in inglese come “Football stories”, è una raccolta di 52 racconti brevi concepiti dalla prospettiva del fisioterapista di una squadra di club. E la ragione per cui il giorno del casco pieno di alghe ho chiesto ad Elísabet un nuovo incontro in cui chiacchierare esclusivamente della sua passione sportiva, è che qualche settimana prima mi era capitato di leggere “A match that was not postponed”, uno dei rari estratti del suo libro che è possibile rintracciare sul web, nonché uno dei pezzi di narrativa sportiva più potenti che mi sia capitato di leggere di recente.

Fontane, spruzzi e pozzanghere, pioggia battente e loro non sapevano dove fossero, non c’era nulla, assolutamente nulla che indicasse che questo fosse un campo da calcio, nulla, assolutamente nulla che indicasse che stessero giocando a pallone, nonostante stessero in effetti calciando qualcosa, e nonostante potessero sentire un lamento lontano che però potevano benissimo essere tori e non spettatori, e anche il cinguettio del fischietto poteva semplicemente venire da un uccello con un’ala spezzata, sì, non c’era nulla che indicasse qualcosa circa cosa fosse tutto ciò, eccetto il fatto che durava novanta minuti, e che c’era un tabellone che comunicava il senso della vita o la risposta di dio all’umanità: 2-1.

L’appuntamento stavolta è direttamente a casa di Elísabet, nel centro di Reykjavík, alle due di pomeriggio del giovedì santo. Le tonalità pastello dei tetti di Hringbraut contrastano deliziosamente col grigio di un cielo carico di qualcosa che sarà certamente neve qualora decidesse di venire giù. Il freddo della settimana santa, per il quale gli islandesi hanno un’espressione ad hoc (Paska hrét, che alla lettera vuol dire tempesta di Pasqua), ha definitivamente ricacciato indietro le avanguardie di primavera dei giorni scorsi. Mi apre una ragazza giovane e infreddolita. Dice essere la segretaria personale della scrittrice. «La televisione nazionale sta intervistando Elísabet in questo momento. Vuole accomodarsi in cucina nell’attesa?».

A picture taken on July 8, 2014 shows the rhyolite mountains in the Landmannalaugar region, a protected area in the southern part of Iceland's highlands some 70km east of Hvolsvollur. AFP PHOTO / JOEL SAGET
Montagne di riolite nella regione di Landmannalaugar,nel sud dell’isola (Joel Saget/Afp)

In cucina i muri sono pieni di appunti presi a matita sull’intonaco; su una lavagnetta c’è scritto «When life gives you lemons, make lemonade», in rosso; nel lavello tre tazze da tè decorate probabilmente a mano; dal microonde socchiuso un piacevole odore di cannella. Quando sono passati dieci minuti dall’inizio della mia amicizia con i due husky che occupano due terzi abbondanti della stanza, Elísabet compare dalla porta del salotto, con i capelli sciolti e un paio di scarpe da ginnastica fluo ai piedi. «Mi spiace Leonardo, c’è un cambio di programma. Devo assolutamente raggiungere un posto a un’ora di macchina da qui, tra le montagne. Stanno venendo a prendermi. Ma tu puoi venire con noi, parleremo di calcio durante il viaggio, se ti va».

Mi va, salgo in macchina. Alla guida c’è un uomo sulla cinquantina. Si chiama Ragnar, ed Elísabet conversa con lui con l’affabilità di un’amica di vecchia data; solo molto più tardi avrei scoperto che i due non si erano mai visti prima. A un certo punto Elísabet modifica lingua – ma non tono di voce – e si rivolge a me.

«Allora sei italiano. Adoro il calcio italiano! Il calcio italiano è come la poesia, un movimento continuo e organizzato. E poi c’è un portiere italiano di qualche anno fa che è il mio preferito in assoluto…»
«Dev’essere Buffon»
«Mmh, no»
«Peruzzi, allora. Forse Pagliuca?»
«No, nessuno di tutti questi. Aspetta… Ora chiamo mio figlio, lui certamente si ricorda»

Jökull (alla lettera “ghiacciaio”) è uno dei tre figli di Elísabet…, ha 31 anni ed è un elemento-chiave dell’HK Kópavogs, Serie B islandese; ha giocato in tutte le rappresentative giovanili nazionali e nel 2010 è diventato campione d’Islanda con il Breiðablik. Risponde immediatamente al telefono, e dopo cinque secondi Elísabet ha il nome che bramava.

(Tom Dulat/Getty Images)
(Tom Dulat/Getty Images)

«Paolo Maldini, ecco chi era!»
«Ma Maldini era un difensore…»
«Cambia poco. Il compito è lo stesso, no?»
«Sì… più o meno. Elísabet, io credevo lei fosse diventata una vera esperta di calcio ormai»
«No, macché. Il calcio non lo capirò mai per davvero. Ma mi piace lo stesso guardarlo. È come guardare l’oceano: un’ottima occasione per meditare. Mi coinvolge anche se non lo capisco, mi diverte anche se non posso controllarlo»
«E quindi cos’è che la colpisce, mi scusi?»
«Il calcio contiene un forte elemento magico, innanzitutto. La magia del tempo che si ferma. In questo mondo il traffico non si ferma mai o, se si ferma, tutti quanti perdono la testa. Wall Street non si ferma mai, i soldi non si fermano mai. Il gioco del calcio invece ha tantissime pause. È incredibile. C’è ancora il senso dell’attesa, prima di battere un corner o una punizione. Ci si ferma, ed è una cosa così naturale! Prendi gli alberi, ad esempio: si bloccano a un certo punto, mica continuano a crescere all’infinito. Elementare, no?»
«Del tutto. Sulla semplicità del gioco, Johan Cruyff (scomparso qualche ora prima dell’incontro con Elísabet, nda) una volta ha detto: “Giocare a calcio è molto semplice, ma giocare un calcio semplice è la cosa più complicata che ci sia”»
«È vero, alla fine il calcio è la passione pura che resta quando si elimina tutto il superfluo. Mio figlio è così, lui gioca per il semplice gusto di giocare. Una volta sbagliò due calci di rigore nella stessa partita: non c’era verso di consolarlo, sembrava la cosa peggiore che gli fosse capitata nella vita. Il calcio è una cosa che gli riesce spontanea, quando lo vedo muoversi in campo mi sembra abbia la grazia di una candela in un balletto. È magico, non c’è nulla da fare»

«Quindi proprio nessuna complicazione?»
«Certo che ci sono complicazioni. Sai, Jökull da piccolo lo facevano giocare da difensore: gli dissero che avrebbe dovuto ispirarsi a Roberto Carlos. Ma lui si sentiva in prigione a stare in difesa, perché sapeva di essere più dotato come centrocampista. Ecco, un campo da calcio è un mondo in cui puoi inventarti tutto, tuttavia è un posto chiuso, e può diventare una gabbia. Come quando un paesaggio sveglia la tua immaginazione ma non sai ancora dove ti porterà. Come quando inizi a scrivere un romanzo. Sì, i libri sono un terreno di gioco, e i calciatori sono artisti»
«Il suo modo di intendere il gioco del pallone mi ricorda un po’ Pasolini, lo conosce?»
«Sì, ma non sapevo si fosse interessato anche di calcio»
«Secondo lui il calcio ha sostituito il teatro ed è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. I gol sono momenti estremamente poetici, e il miglior marcatore del campionato non è altro che il più bravo poeta dell’anno»
«Proprio così, perfetto! Ti prego, mandami al più presto una mail con questa citazione».

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Lava dal vulcano Bardarbunga, il secondo rilievo più alto d’Islanda (Bernard Meric/Afp Photo)

Pare che viaggiare sia fonte di grande ispirazione politica per Elísabet. Nel 2003, durante un volo domestico, strappò il microfono di bordo alle hostess e tenne un appassionato comizio contro la costruzione di una diga ad uso industriale in un’area incontaminata del paese: «Un pugno di uomini vuole imporre il suo sogno di distruzione a una nazione che sembra mezza addormentata». Nel sedile posteriore della Vitara che ci sta portando lontano dalla capitale, ben avviato verso la completa trasformazione in una tutto sommato decente scrivania da viaggio, mi chiedo cosa possa avere in serbo la mia eccentrica interlocutrice per l’uscita odierna. Giusto qualche minuto dopo aver fiancheggiato la residenza di campagna di Halldór Laxness, Elísabet chiede a Ragnar di fermarsi alla successiva stazione di servizio.

Va detto che nell’entroterra islandese non ci sono milioni di stazioni di servizio, ma siccome stiamo approcciando Þingvellir, sede del primo parlamento nazionale e punto in cui la frattura tra la placca tettonica nordamericana e quella eurasiatica si fa attrazione turistica di prim’ordine, ecco che sulla sinistra, a trecento metri da noi, appare una pompa della N1. La tempesta di Pasqua è entrata nella sua fase più intensa, io riesco a seguire con lo sguardo la sagoma di Elísabet che si allontana dalla jeep in cerca di caffè filtrato solo per qualche istante. Dopo aver urlato «Hello Þingvellir!» a braccia larghe, la scrittrice è già sfumata nel perlaceo intenso della nevicata.

(Halldor Kolbeins/Getty Images)
(Halldor Kolbeins/Getty Images)

«Ma voi islandesi non avete mai timore di una natura capace di sfuriate improvvise di questo tipo?»
«La nostra relazione con la natura è da sempre di amore e odio. Noi sappiamo bene che il creato è pericoloso, non è solo quello delle cartoline. Personalmente, poi, è come se i fiumi mi dicessero sempre qualcosa come: “Vieni più vicina, Elísabet. Vogliamo ingoiarti”. Abbiamo tutti una comprensione molto limitata della natura. Ma la terra viene prima di tutto, e una cosa che dobbiamo certamente imparare da lei è l’umiltà del provare a sopravvivere ogni giorno»
«E gli islandesi non sono umili? A me sembrano persone estremamente equilibrate nel riconoscere la propria posizione dentro il mondo e nella natura»
«Wow, tu ci vuoi veramente bene. Se sarò eletta, ti nominerò vicepresidente (sorride). No, diciamo che gli islandesi hanno un’ottima reputazione di se stessi. A volte siamo quasi arroganti. Ciascuno di noi è pienamente convinto di poter ottenere qualsiasi obiettivo. È una specie di riflesso automatico, un sillogismo del tipo “se siamo stati capaci di sopravvivere su quest’isola per tutti questi secoli, cos’altro potrà mai fermarci?”»

«Però ci è voluto un allenatore svedese per farvi qualificare agli Europei…»
«Esattamente come ci volle un regista lituano per farci riscoprire il teatro (Rimas Tuminas, attuale direttore artistico del teatro Vakhtangov di Mosca, il più visitato di Russia, nda). Ma questa cosa degli Europei è proprio assurda, nemmeno nel nostro miglior sogno avremmo potuto immaginare una cosa del genere»
«In questi giorni ho conosciuto un mare di persone entusiaste che hanno fissato le ferie a giugno e hanno preso un biglietto per la Francia. Di sola andata, ovviamente, nella convinzione che l’Islanda abbia concrete possibilità di passare il girone. E lei ci andrà a Saint-Étienne per lo storico debutto?»
«Purtroppo no, le elezioni me lo impediranno. Ma ovviamente guarderò le partite in tv»
«Cosa vuol dire per l’Islanda essere su un palcoscenico internazionale che non sia legato all’eruzione di un vulcano che blocca mezzo mondo o a una canzone stravagante dell’Eurovision Song Festival?»
«È probabilmente la consacrazione massima del nostro spirito di adattamento. essere pochi non è semplice, allora noi facciamo le cose credendo di essere molto più grandi di quello che siamo realmente. E a volte funziona»

(Tom Dulat/Getty Images)
(Tom Dulat/Getty Images)

«Stasera c’è l’amichevole Islanda-Danimarca»
«Mai troppo amichevole incontrare la Danimarca. Ecco, siamo stati schiavi poverissimi per molti secoli, ce lo ricordiamo bene. Bisogna considerare anche questo nello spiegare il senso della nostra partecipazione agli Europei»
«Ma la definizione di “squadra operaia” la trovo comunque riduttiva per questa Islanda»
«Infatti l’essere gran lavoratori è solo una parte dell’indole islandese. L’altra metà è decisamente più poetica e fantasiosa. Una combinazione ideale per giocare a calcio, non credi?»

Credo. Siamo arrivati a destinazione, intanto. Ragnar sta mostrando ed Elísabet tutte le stanze del suo delizioso cottage nei pressi del lago Laugarvatn. Detto “lago delle sorgenti calde” per via dei soffioni boraciferi a 95 °C che emergono dai suoi fondali, è una delle destinazioni islandesi a maggiore tasso di crescita turistica. Forse lei vuole trasferirsi qui per completare la sua nuova pièce, o magari vuole farne il quartier generale della campagna elettorale. Non ne abbiamo idea né io né il gufo in legno piazzato nel cortile, che intanto si imbianca vista d’occhio.

 

Lava spews out of a mountain on March 21
Il famoso, e molto piccolo, Eyjafjallajokull (fiór Kjartansson/Afp/Getty Images)

All’interno, nella penombra di un salotto reso più che tiepido dall’acqua del lago opportunamente raffreddata e incanalata dentro caloriferi per i quali non si paga alcuna bolletta, sbircio tra gli scaffali della libreria di Ragnar. Come in tutte le case del paese, non manca la saga di Egil, l’eroe medievale che è la massima espressione della duplicità del carattere degli islandesi. Si narra che Egil abbia ucciso il primo uomo ad appena 7 anni, conficcandogli un’ascia in testa durante una partita di un gioco con palla simile all’hockey; poi però compose pure meravigliosi poemi sull’amore, la morte e l’amicizia, che i bambini islandesi imparano a memoria come compiti per casa. Ragnar mi distoglie dall’epica distrazione porgendomi un caffè lunghissimo. Ho tempo per togliermi qualche altra curiosità sull’improbabile passione pallonara di una poetessa islandese di successo.

«Precisamente, come le venne in mente l’idea di scrivere racconti sul calcio, Elísabet?»
«Andò così: stavo chiacchierando col fisioterapista della squadra di mio figlio e lui mi chiese: “Come si fa a scrivere come lei? Anch’io vorrei farlo”. Al che io risposi: “Dovresti cominciare a raccontare quello che hai tra le mani. non il senso della vita, non i massimi sistemi. scrivi di quello che le tue mani toccano ogni giorno”. E con ciò io mi riferivo esattamente al corpo dei calciatori che stava massaggiando in quel momento. Alle cosce, ai muscoli, alle ossa. Ma lui sembrò non cogliere la cosa. Allora andai a casa, scrissi due storie brevi e gliele porsi. Le apprezzò, ma siccome la sua passione per la scrittura sembrava già essere svanita, decisi che il libro l’avrei finito io. Per un certo periodo è stato il regalo che la Nazionale faceva alla delegazione ospite prima di ogni partita»
«E scrivere di calcio le ha insegnato qualcosa in particolare?»
«Ah, tantissime cose. Prima di tutto la passione per la lotta. Può sembrare una cosa poco piacevole, ma è importantissima. Una volta Jökull ricevette un cartellino giallo dopo un fallo a centrocampo e i tifosi avversari da quel momento presero a fischiarlo ogni qual volta lui toccava il pallone. Io ero allo stadio e mi faceva male sentire il pubblico inveire contro mio figlio. A fine partita corsi da lui per risollevarlo dai buu che aveva dovuto sopportare per più di un’ora, ma lui mi disse: “Mamma, non capisci. È stato bellissimo”. Ecco, ho sfruttato molto questa lezione durante le mie battaglie ambientaliste, e credo che mi tornerà di nuovo utile a breve»

(Tom Dulat/Getty Images)
(Tom Dulat/Getty Images)

«A me piace molto il sottotitolo della versione inglese del tuo libro, Communicate, lads!. Dice benissimo che il calcio è una delle poche forme di comunicazione che sembrano funzionare in un mondo in cui gli uomini non riescono più a capirsi»
«Non riescono più a capirsi e quindi, da stupidi, distruggono se stessi e la natura anziché darsi una mano a vicenda. Che è invece quello che succede nel calcio, attraverso una forma di comunicazione affascinante. Tutti quei passaggi, tutti quei gesti non verbali. E sai qual è la seconda cosa che il calcio mi ha insegnato? L’onestà, il metterci la faccia. Mi capita di ascoltare le interviste ai calciatori a fine partita e gli sento dire “oggi siamo stati bravi, oggi siamo stati terribili, dobbiamo fare meglio”. Nessun altro artista è così sincero con se stesso»
«Ecco, in Italia tendiamo a far rientrare anche gli arbitri nel giudizio sulla propria prestazione»
«Mmm questo non va bene. Così come anche le simulazioni, quelle le odio. Mi piace invece quando i calciatori si salutano e si ringraziano. È bello dire grazie»

Prima di andarmene, però, vorrei un’ultima risposta, che forse avrebbe dovuto essere la prima. Perché proprio il calcio, Elísabet?

«Questa è forse la storia migliore di tutte. Devi sapere che ho odiato il calcio a lungo, perché avevo un marito che passava tutti i sabati sul divano a guardare il campionato inglese. Gli dissi che non andava bene, che avrebbe dovuto passare più tempo con la famiglia, che stavo pensando di chiedere il divorzio. Lui non mi ascoltò, ma un bel giorno uscì di casa e non torno più. Aveva lasciato la tv accesa, allora io presi il suo posto sul divano e cominciai a guardare una partita. Mi piacque un sacco».