Il calcio semplice di De Bruyne

Il suo stile sottotraccia è difficile da decifrare per gli avversari: la sua storia, dalle Fiandre a Manchester, dove si sta rivelando un vero trascinatore.

Si intitola Keep it simple l’autobiografia di Kevin De Bruyne pubblicata nell’ottobre 2014. Tre parole che riassumono un concetto di cruijffiana memoria: «Il calcio è semplice, ma la cosa più difficile è giocare un calcio semplice». Concetto arduo da mettere in pratica quando le proprie finanze crescono al ritmo di 6.579 euro l’ora, come rivelato dal giornalista belga Frank Van Laeken nel suo libro Het geld van het voetbal – I soldi del calcio. Ma se esiste un calciatore in grado di continuare a volare basso a dispetto della miniera d’oro nella quale si è imbattuto, questo è Kevin De Bruyne. Non possiede l’estetica tecnica del connazionale Eden Hazard, né quella statuaria e scolpita di James Rodriguez, né quella glamour di Memphis Depay. De Bruyne sembra un ragazzino che è appena andato a fare la spesa per la madre, come scrisse un giornale olandese quando lo vide uscire, con zainetto e jeans più minimal di una partitura di Philip Glass, dalla Volkswagen Arena di Wolfsburg il 30 gennaio 2015 dopo aver demolito con 2 reti e 1 assist il Bayern Monaco di Guardiola. Un’annata super, l’ultima di De Bruyne a Wolfsburg, chiusa con 16 reti e 28 assist complessivi, la vittoria della Coppa di Germania, il premio quale giocatore dell’anno in Bundesliga (5° non tedesco nella storia del torneo a primeggiare) e miglior straniero del campionato (52,5% di preferenze, più del doppio del secondo classificato Arjen Robben, fermo a 23.5%). Un’annata che lo ha trasformato nel secondo giocatore più costoso nella storia del calcio inglese.

Manchester City FC v Paris Saint-Germain - UEFA Champions League Quarter Final: Second Leg

Il calcio di Kevin De Bruyne è racchiuso in una sua dichiarazione di qualche tempo fa. «Sono sempre alla ricerca del passaggio perfetto. Non quello da due metri che ti fa terminare la partita con oltre il 90% di passaggi andati a buon fine, ma quello che ti permette di creare un’occasione da gol. Se su 8-10 potenziali assist ne sbaglio 3, allora non ho giocato bene». In campo è un elogio dell’essenziale. Dieter Hecking, suo allenatore al Wolfsburg, lo chiamava il Fantasma, «perché non era il tipico trequartista di cui un avversario pensava: adesso prende palla, ne salta tre e va in porta. No, lui viaggiava sotto traccia, ma quando si materializzava se ne accorgevano tutti». Velocità di esecuzione, tanto di piede quanto di pensiero. Peculiarità presenti fin dalla giovane età. Hein Vanhaezebrouck, uno dei suoi tecnici al Genk, ricorda che «era uno dei rari giocatori con i quali potevi parlare di calcio. Era di poche parole ma aveva le idee chiare e nessun timore nell’esprimerle». È andata così anche al Chelsea, il suo primo e finora unico flop in carriera. Dopo il suo ritorno in Premier League per una cifra nove volte superiore a quella sborsata dai Blues nel gennaio 2012 per prelevarlo dal Genk, non passa giorno che i tabloid non si chiedano come sia possibile per un giocatore che in 35 presenze con il City ha segnato 15 volte e servito 11 assist non essere stato ritenuto degno, due stagioni prima, nemmeno di finire in panchina in un match contro il Norwich. «Mourinho non spiega», ha detto il belga, «Mourinho decide».

Focus sulla prova di De Bruyne contro il Psg, gara decisa da un gol del belga

Tra De Bruyne e lo Special One la scintilla non è mai scoccata. Eppure l’inizio, in casa contro l’Hull City, fu un trionfo: al terzo minuto De Bruyne aveva già colpito la traversa, al decimo piantava sul posto Maynor Figueroa con un numero di alta scuola, all’undicesimo imbucava Oscar per il gol del vantaggio Blues. Mourinho però chiedeva più impegno, pungolava De Bruyne sull’intensità con la quale si allenava, gli ricordava di non essere più al Werder Brema (club a cui il Chelsea lo aveva prestato nella stagione 12/13, dove in rendimento ed efficacia aveva sopravanzato i più quotati – all’epoca – Arnautovic, Elia e Junuzovic), realtà nella quale «la pressione era minima e la rivalità per una maglia ancora meno». La reazione fu un laconico «mister, io qui non sarò mai titolare fisso». De Bruyne è una linea retta, anche se la sua carriera – cinque maglie cambiate in quattro anni – è piena di curve. Una questione di prospettive, non di adattamento, soprattutto se si sta parlando di Londra, la città dove la madre ha vissuto dagli anni 70 fino al giorno del suo matrimonio. Figlia di un tecnico che lavorava presso una compagnia petrolifera, la signora Anna Callant è nata a Bujumbara, in Burundi, prima di scappare in Costa d’Avorio a causa dello scoppio di una guerra civile, e stabilirsi infine a Londra, nel quartiere occidentale di Ealing. «Siamo una famiglia di cittadini del mondo, a Natale nella nostra tavola si parla indifferentemente inglese, francese e fiammingo, ho parenti a Parigi, in Italia, nelle Midlands». De Bruyne non ha mai avuto bisogno del calcio per imparare a viaggiare.

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L’Inghilterra apparteneva al destino di De Bruyne fin dalla sua nascita. Poi sono arrivati il poster di Michael Owen appeso alle pareti della cameretta, frutto della passione sfegatata del ramo materno della famiglia per il Liverpool, e la prima esperienza con il football, a dieci anni per una settimana di stage nell’Arsenal. Lo avevano visto giocare alla Mercator Cup con il Gent. «Quando passi dai nonni – gli aveva detto uno scout dei Gunners a fine partita – vieni a trovarci». Il cordone ombelicale con la propria famiglia si rompe però solo quattro anni dopo. Tra Gent e Genk non cambia solo una lettera, ma un intero futuro. Quello che De Bruyne non riusciva più a vedere tra i ranghi delle giovanili dei Bufali, dopo il licenziamento del tecnico olandese Johan Boskamp e la conseguente rottamazione del suo progetto di ristrutturazione del vivaio. Anni dopo Boskamp farà debuttare in prima squadra nello Standard Liegi i giovani Witsel e Fellaini, entrando a pieno diritto tra i molteplici fautori della rinascita del calcio belga. Chiusa parentesi. De Bruyne sceglie Genk, la meta più lontana da casa (oltre 60 chilometri), scartando Brugge e Bruxelles. La prima in quanto il Club Brugge aveva come marchio di fabbrica, anche a livello formativo, un calcio fisico e muscolare che poco si confaceva a uno scricciolo come lui, fisico gracilissimo e folta zazzera di capelli biondi, quasi fosse la versione in carne ed ossa di Jommeke, popolare personaggio di fumetti per ragazzi che spopolava in Belgio a cavallo tra gli anni ’50 e i ‘70; la seconda perché la scuola legata all’Anderlecht si trovava a Leuven e gli spostamenti sarebbero stati alquanto difficoltosi. A Genk invece studio e calcio si potevano conciliare in maniera più consona, e la politica formativa del club si confaceva meglio al suo stile di calcio, istintivo e creativo. «Molti sottovalutano cosa significhi per un 14enne vivere lontano dalla propria famiglia», racconta. A Genk era stanziato in un collegio altamente problematico, pieno di ragazzi che soffrivano di ADHD, disturbo da deficit di attenzione/iperattività. Per De Bruyne la valvola di sfogo si chiamava campo di calcio.

Highlights dalla stagione di De Bruyne

In tema di vivaio il Genk non possiede né l’aurea mitica che ammanta l’Ajax né il fascino atlantico delle grandi scuole calcio portoghesi, eppure quando si parla di sviluppo e valorizzazione di giovani talenti il club fiammingo sa dire la sua. Raccogliendo in un’unica squadra i giocatori made in Genk più rappresentativi degli ultimi anni, si otterrebbe un’undici comprendente Courtois tra i pali, Defour e Praet in mediana, De Bruyne e Ferreira-Carrasco trequartisti/esterni d’attacco, Benteke e Origi di punta. Niente male per un club lontano dai palcoscenici del grande calcio. L’ultimo campionato il Genk lo ha conquistato nel 2011, guidato dagli assist (13) di De Bruyne, che pure si lamentava di giocare fuori ruolo, ala sinistra in un 4-4-2. Questioni tattiche che oggi non hanno più senso, avendolo visto, tra Werder Brema, Wolfsburg e nazionale belga, trequartista centrale, esterno destro alto, falso nove o numero 10, in tutti i moduli possibili. Perché, a monte di tutto, per i campioni il calcio rimane una cosa semplice.

 

Tratto dal numero 7 di Undici. Tutte le immagini si riferiscono alla partita Manchester City-Psg del 12 aprile, decisa da un gol di Kevin De Bruyne (Alex Livesey/Getty Images)