Il mestiere di allenare

Roberto Donadoni, ovunque è andato, ha lasciato una traccia di sé. Un'intervista che ripercorre un'intera carriera.

Nel nome del padre. Ercole, che tutti quanti però chiamavano Piero. «Faceva il contadino. Dopo il militare fu assunto da una ditta di materiali ferrosi. C’era tanto entusiasmo in quegli anni, possibilità diverse, e allora mise su un’impresa con due camion. Veniva a vedermi giocare senza dire una parola. Di commenti non ne faceva. Né prima né dopo. Mi ha insegnato i valori, a fare le cose con rigore e serietà. L’unica minaccia, esagerata, me la fece quando venne a sapere, non so da chi, che avevo dato un pugno sulla spalla a una compagna di scuola perché non voleva darmi la figurina che mi mancava per finire la collezione. Papà mi disse, con calma, un’altra lamentela dalla scuola e ti inchiodo le orecchie al banco. Non ci fu un’altra lamentela. Ma il perché lo chiamavano Piero non l’ho mai saputo».

Nel nome del figlio, Roberto, l’uomo che oggi ha riccioli grigi e quando parla gesticola lento o quasi mai. Di Roberto Donadoni resta sempre un briciolo di malinconia. Lui si affretta a fare no con la testa e specifica: «Non lo sono. È un’impressione molto superficiale, ma io adoro ridere e scherzare». Forse succede con lui perché gli uomini che si portano dentro tutta quella storia, quel bagaglio di esperienza vorresti che continuassero a parlare, a dire, a raccontare ancora e ancora. Vent’anni di calcio giocato, il Milan e gli scudetti, le coppe, e i dribbling, la Nazionale, dài dicci ancora Roberto, dei gol, delle partite, della panchina dell’Italia e del Bologna, che è il glorioso presente. Dicci di più, Roberto. Ma poi a un certo punto Donadoni da Casteldebole se ne deve andare, con quel suo maglione candido e i jeans da cowboy consumato, e quel che resta di un pomeriggio di sole, qui a Bologna, è una scia di ricordi meravigliosi come uno dei prodigi di Márquez. Donadoni fa un cenno con la mano, gira l’angolo e ci lascia sul posto. Come faceva in campo. Un dribbling. Dal nome del padre, Ercole, Donadoni deve aver preso la forza e la mitologia. È da qui che cominciamo a riavvolgere la bobina della storia, da quel che gli manca di più. «Di papà rivedo sempre gli atteggiamenti, quei modi di fare, e mi manca nel quotidiano. Dopo che mi sono trasferito a Milano i rapporti sono stati sempre più saltuari, la frequentazione non è stata mai come avrebbe dovuto essere e oggi mi rendo conto che avrei dovuto viverlo molto di più».

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Lei è uno che volta spesso lo sguardo?

Ho i miei ricordi, certo. Come tutti. Sono quelli che ti dicono da dove arrivi, che parlano di te, della tua storia. Il modo migliore per mettere in risalto il passato, però, è esaltare il presente. Non puoi nasconderti sempre dietro alle grandi cose che sono state. Comunque non ho buona memoria, non mi ricordo le cose.

Però l’inizio in A se lo ricorda?

Solo che prima della partita correvo all’impazzata nel tunnel. Mi pare fosse contro l’Inter. A un certo punto mi sono detto: «Ma cosa stai facendo? Vuoi arrivare in campo senza fiato?». Poi è andato tutto bene.

Questo è successo con la maglia dell’Atalanta. Poi passò al Milan.

Ero cresciuto nel mito di Gianni Rivera, era il mio idolo. Scelsi con il cuore, anche se mi voleva la Juventus.

Beh, le è andata bene alla fine.

L’Atalanta di allora era, diciamo così, una succursale della Juve. Per cui ci fu per un po’ questo ballottaggio. La Juve di quegli anni era fortissima, la squadra più ambita. Oltretutto il primo anno al Milan non andò come avevo preventivato e il dubbio che non fosse stata la scelta perfetta ricordo che mi era venuto. Poi il tempo ha detto altro.

Ma lei è uno che in tutto questo tempo ha conservato dei ricordi? È un collezionista di cimeli?

No, affatto. E mi pento un po’ perché ho regalato un sacco di cose, ma è stato sempre un po’ il mio modo di agire. Ho dato via tante maglie legate a partite, avversari, a giocatori importanti che tenevo in uno scatolone. Oggi mi dico che sono stato un po’ stupido.

Diceva del Milan.

La prima stagione ci qualificammo a stento in Coppa Uefa. Poi cominciò il ciclo meraviglioso con la vittoria degli scudetti, delle tre Coppe Campioni e delle due Intercontinentali.

Un grande gruppo, un gruppo di campioni, quel Milan.

Dentro i cancelli di Milanello sì, fuori non ci si frequentava molto. Però eravamo motivati. Molto motivati. E con alcuni ci sentiamo ancora oggi, o facciamo le vacanze insieme. Tassotti è uno.

Oggi che fa l’allenatore ha capito come si fa a creare un gruppo?

Si crea da solo con le capacità dei singoli. Bisogna saper stare insieme, coi difetti e i pregi: è quella la chiave. Però credo sia una cosa abbastanza naturale, viviamo in una società e la squadra è una società in miniatura.

È utile conoscere i giocatori fuori dal campo?

Il rapporto coi giocatori non deve essere vissuto da agente segreto, l’allenatore non è che vuole scoprire e sapere. Anche qui, tutto deve essere abbastanza naturale. Conoscersi al di fuori credo abbia una sua funzione e può dare dei vantaggi. Ma se lo fai da guardiano non va bene.

Ma è vero che è stata sua moglie a consigliarla di fare l’allenatore?

Sì, mi disse di fare il corso, io ci ho pensato su e l’ho fatto. Eccomi qui.

Lecco, Genoa, Livorno, la Nazionale, Napoli, Cagliari e Parma. Prima o poi andrà anche lei all’estero?

Ho avuto delle proposte, vedremo. Ogni esperienza che ho avuto è sempre stata positiva, mi ha dato qualcosa. Ogni cosa ti arricchisce sempre.

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A Bologna che cosa ha trovato?

Una città bella, con della gente che mi ha accolto in maniera cordiale e positiva, e questo è un motivo di maggiore responsabilità. C’è tanta passione. Stiamo lavorando bene, ma dobbiamo continuare a farlo.

Che mestiere è quello dell’allenatore?

Non è un mestiere. Non mi piace definirlo così. È una passione legata un po’ a quello che ho sempre fatto, e quindi è soltanto la continuazione. Vuol dire rimanere sempre nello stesso ambiente, sentire gli stessi odori, le stesse sensazioni.

A proposito, perché Donadoni non ha ancora allenato il Milan?

Queste domande sono una perdita di tempo. A me stesso non le faccio. Le farò, se dovesse capitare, a chi di dovere.

Lei da chi ha imparato? Di allenatori ne ha avuti così tanti. 

Ho cercato di tenere ben saldi certi concetti, prendendo un po’ da tutti. Ho avuto Sacchi, Carlos Parreira, Capello. Ho odiato Nedo Sonetti per qualche tempo. L’ho avuto all’Atalanta. Mi diceva: «O ti faccio diventare un giocatore o ti faccio smettere di giocare». Volevo vendicarmi, umiliarlo. Invece aveva ragione lui. Però, al di là di questi nomi famosi che saltano subito all’occhio, credo siano stati fondamentali quelli della giovinezza.

Donadoni all’Atalanta

Perché?

Ti aiutano a capire le basi, a saper stare in un gruppo. Poi diventi professionista, e lì subentrano altri aspetti. Dell’adolescenza ricordo tantissime persone importanti, Scarpellini, Casati l’ho avuto fino alla Primavera dell’Atalanta, persone che hanno influito sulla mia persona.

E Bonifacio?

Il maestro, lo chiamavamo così. Raffaello Bonifacio, è lui che mi portò all’Atalanta. Mi ha insegnato la tecnica, il rispetto per gli avversari e i compagni. Mi viene in mente la 500 bianca, ci stavamo in cinque coi borsoni chissà come.

Allora vede che si ricorda le cose. 

Faccio fatica a ricordare quanti Scudetti ho vinto. Il gol più bello non lo so, faccio fatica a dirlo. Ogni volta azzeravo tutto e pensavo alla prossima. Al Milan ho sempre fatto così.

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Oggi quanto è diverso un ragazzo rispetto a i suoi vent’anni?

I ragazzi sono diversi perché i tempi lo sono, il mondo evolve, cresce e si modifica, porta aspetti postivi e negativi. Io sono nato con la televisione con il tubo catodico e adesso siamo con le tv ad alta definizione che ti permette di interagire. Bisogna stare al passo coi tempi, e bisogna saperlo fare, altrimenti sei un corpo estraneo. Ma uno deve anche saper tenere viva la tradizione. È un gioco di equilibri. Nel calcio di adesso si corre a velocità supersonica rispetto ad altri tempi.

Dicevamo degli allenatori. Sacchi?

Lui ha cambiato la mentalità, e parlo in generale. Curava tutti gli aspetti, molto quello psicologico e umano. Cose che mi aveva già insegnato Bonifacio, sono arrivato pronto alla lezione. Credo sia stato importante perché conta la testa, prima ancora delle gambe. A correre sono bravi quasi tutti.

Però Sacchi era un martello.

Inizialmente fu uno choc. La fatica fatta con Sacchi non si può raccontare. Lui ha stravolto tutto. E forse era il segreto di quel Milan. Era una sfida continua: a noi stessi, prima che con gli altri.

Qual è il suo ideale di allenatore?

Mi piacciono quelli duttili. A Lecco, al primo anno in panchina, parto con il 4-3-1-2, e poi viro al 4-3-3. L’anno dopo, a Livorno, mi dico: il 4-3-3 è quello giusto, ha funzionato. Invece no. Avevo giocatori adatti per il 3-5-2 e ho cambiato un’altra volta.

Quanto è importante far divertire i giocatori?

È fondamentale. Il nostro lavoro deve essere concepito soprattutto in questo modo. Andare ad allenarti, fare la partita, tutto questo deve essere veramente un motivo di soddisfazione, di gioia, e, se non c’è, ogni cosa diventa pesante, difficile da gestire. Subisci.

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Lei ha mai subito qualcosa?

Momenti non legati al calcio, sì. La morte di mio padre. O quando finì il mio primo matrimonio e lasciai mio figlio ancora piccolo. Anche da queste cose però impari, il dolore ti insegna delle cose e bisogna saper cogliere persino questi aspetti. Non è semplice, ma poi si supera.

Ma i calciatori sono tutti uguali?

No, ogni individuo è un mondo a sé e bisogna essere bravi a sapersi relazionare con i singoli. Possono poi esserci delle similitudini. Ma soprattutto ci sono dei punti fermi con un gruppo, regole di convivenza comune, regole e diritti.

E quando uno alza la cresta?

Quando si superano i limiti è perché subentra un po’ troppo narcisismo o personalismo. I grandi campioni, di solito, non sono così. Anzi, sono quelli che fanno giocare gli altri, che anticipano con il pensiero la giocata e che rendono facili le cose difficili. Giocano per la squadra.

A chi stava pensando?

Ne ho conosciuti tanti. Baresi, Gullit, il mio amico Van Basten con cui adesso gioco a golf ed è sempre una lotta. Comunque direi Pirlo, un talento innato per visione del gioco e anche per le dinamiche di gioco.

Le piace la tecnologia, le è utile?

Tutto quanto è utile, uno deve saper utilizzare quello che i tempi moderni offrono. Noi utilizziamo il drone, che ti mette subito nella condizione di poter vedere le cose, dall’alto, e di dire al giocatore che movimento ha sbagliato. Davanti all’evidenza delle immagini c’è poco da obiettare.

Parlavamo di dolori. I suoi nel calcio?

Qualche delusione c’è stata. Ai Mondiali del 1990 sbagliai il rigore in semifinale con l’Argentina. Avevo provocato un dolore a milioni di italiani e lo sentivo addosso. Quella Nazionale meritava la finale.

Un bel ricordo, invece?

Il 5-0 al Real Madrid.

19 aprile 1989, segnano Ancelotti, Rijkaard, Van Basten, Gullit, Donadoni

E in Nazionale?

La Nazionale è la squadra più bella, l’ho sempre detto. Anche da ct è stato bello, un’esperienza che rifarei perché mi è piaciuto molto quel tipo di responsabilità. Lasciai la Nazionale ai primi posti del ranking mondiale. È stato bello, anche se in quel ruolo sei un po’ abbandonato a te stesso.

Lei è uno che fa autocritica?

Sono sempre stato molto critico e molto esigente. Non la trovo una cosa strana, anzi. È una cosa abbastanza normale. I giovani di oggi fanno autocritica, certo che la fanno. Ma hanno anche il desiderio di proteggersi e questo li porta a giustificarsi, a trovare scuse. Uno dovrebbe ammettere gli errori senza problemi. È nell’indole umana proteggersi.

A proposito di autocritica. Qualcuno a Parma non l’ha fatta.

Nei due anni precedenti al fallimento avevamo fatto due grandi campionati, c’è anche quella parte lì da non dimenticare. Per il resto, beh, in quei mesi ho visto tanta generosità di persone incredibili, appassionate. Purtroppo ho visto anche il contrario. Il calcio è lo specchio di questa società. Sono rimasto molto deluso pensando alla fatica di chi stava dietro le quinte, diciamo così, di chi dava tutto senza stare sotto ai riflettori. E ho visto i tifosi, quelli veri. Più si lavorava e più la gente meschina faceva crollare tutto. Ci siamo sentiti traditi.

La giustizia nel calcio quanto conta, esiste?

È importante nella vita. Forse bisogna essere elastici, qualche volta. Ma poi non è solo una questione di ordine, è senso civico. Quando vedo i muri imbrattati in città avverto un senso di trascuratezza. Invece è bello quando si ha rispetto delle cose, e nel calcio non è tanto diverso.

E c’è rispetto per la Nazionale, o gli italiani si sono disamorati dell’Italia?

Non credo ci sia meno affezione da parte della gente. Credo che i giovani abbiano bisogno di identificarsi in qualcosa. Quando si fa bene è più facile, questo è scontato. Ma qualche volta si dà più attenzione ad aspetti marginali, che fanno moda e non aiutano a crescere. Questo dipende dagli adulti, mica dai giovani. Siamo noi che dobbiamo dare una mano positiva. Perché i giovani hanno bisogno di esempi positivi.

Come i padri.

 

Dal numero 9 di Undici
Fotografie di Luca Massaccesi