Cínico, barbaro y final

Gonzalo Higuaín è un meccanismo oliato alla perfezione: la compiutezza della lucidità, fiducia, concentrazione. Di questo e di altro parla in questa intervista.

L’atmosfera, sul campo d’allenamento di Castelvolturno, è distesa e tirata a un tempo. La partita di Genova contro la Sampdoria è alle porte. Tommaso Starace, storico magazziniere azzurro, segue il gruppo dei giocatori con la sua moka. Ne offre anche a noi. Prima del riscaldamento Jonathan cerca di rubare qualche scatto a Gonzalo, che allarga le braccia e si schermisce, «Prima dell’allenamento no». Riesce a dedicarci una posa fugace: lo sguardo tradisce una focalizzazione che non ammette distrazioni. Dall’altra parte della rete, due golfisti rincorrono attenti un par. Al centro del torello dura poco, come se i compagni temessero di metterlo in difficoltà. Anche con i pantaloni della tuta incute soggezione. Ogni aspetto della sua prossemica fa paura.

Durante la partitella a campo ridotto riceve il pallone con le spalle alla porta, dietro di lui Koulibaly che lo pressa. Con l’esterno sinistro accarezza la sfera, la lascia sfilare prima di compiere una torsione a trecentosessanta gradi e scoccare un destro verso la porta, che si stampa sulla traversa. Sono i primi e gli unici due tocchi che riesco a vedere, prima che i droni si alzino in volo per la sessione di tattica.

 

Spigoloso come uno stopper, pericoloso come un predatore

«Io ci provo a giocare tutte le partite nella stessa maniera; non sempre va per il meglio, non sempre riesco a ripetermi, ma di certo scendo sempre in campo per dare il cento per cento e aiutare la squadra a vincere». Fin dalla prima risposta intuisco che cercare di carpire dalle sue parole cosa significhi Essere Gonzalo Higuaín non sarà semplice, non quanto decifrarlo dai fatti sul campo. Lo abbiamo atteso per un’ora e mezza, nella sala stampa attigua allo spogliatoio, dal quale trapelava musica reggaeton e spensieratezza, per trovarcelo di fronte in tenuta da gioco, avvolto in un alone di impenetrabilità durante lo shooting fotografico. Arianna Rovelli, che lo ha intervistato per il Corriere della Sera, ha riscontrato nella prudenza e spigolosità delle sue risposte la somiglianza più con un difensore che con un attaccante. A me sembra profondere la pericolosità di un predatore che non vuole farsi distogliere i pensieri dall’attività per cui è nato, quella della caccia.

La rovesciata del record

Gli chiedo se pensa che il suo gioco, e il suo approccio caratteriale, si siano evoluti da quando è in Italia: «Uno più cresce più diventa maturo: sono in Europa da dieci anni e posso dire che almeno in quest’aspetto mi sento migliorato», dice focalizzandosi sul carattere, come fosse un nervo scoperto, qualcosa di cui senta l’esigenza di giustificarsi. «Poi ci sono molti altri aspetti sotto i quali posso fare di più: sono giovane, il tempo di imparare molte altre cose non mi manca». Portarsi a un livello successivo, da un punto di vista tecnico, coincide con l’estrarre dal cilindro delle proprie skills un aspetto inedito, sconosciuto a te stesso prima che agli avversari. «Forse sto imparando ad attaccare meglio di testa, l’anno scorso mi è mancato, ed è fondamentale per un attaccante completarsi». Nelle ultime quattro stagioni non ha segnato che un solo gol di testa per stagione.

«Ma soprattutto c’è che sono più tranquillo, forse», torna a concentrarsi sulla serenità. «A volte, altre no: non penso di poter cambiare da un giorno all’altro; ho un carattere forte, perché mi piace sempre vincere e comunque se reagisco in certe maniere dipende solo da questo, che mi piace vincere». Sembra gli interessi molto sottolineare una ritrovata pacificità. Non vedo perché dovrei contraddirlo.

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Cínico, bárbaro y final

Le statistiche delle sue performance testimoniano in maniera piuttosto eloquente la centralità (per non dire l’imprescindibilità) di Higuaín per il Napoli, oltre che il compiersi in fieri di un upgrade che punta alla mostruosità: al di là del contributo in termini di reti (quasi la metà dei gol del Napoli, quest’anno, portano la sua firma), Higuaín è in un momento in cui vede la porta come si vede il profilo del Vesuvio da Casterlvolturno in una giornata tersa di tramontana. Come non gli era mai successo prima in Italia.

«Dipende da molti aspetti: dalla fiducia che ho in me stesso, dal fatto che le cose stiano andando bene, dai risultati che arrivano, può essere», riflette. È l’unico momento in cui abbozza un sorriso. Quest’anno Higuaín ha eguagliato, con diciotto partite d’anticipo, il suo record di numero di tiri contro la porta avversaria: 114, una media di cinque volte e mezza a partita, di cui almeno uno – sempre – da fuori area (secondo i dati Squawka). Gli faccio notare che si tratta di cinque volte tanto quanto riusciva a fare a Madrid nella sua ultima stagione Galáctica.  «Come ti ho detto, credo dipenda dal fatto che provo sempre a migliorarmi, a imparare a fare cose nuove». Innegabile che il gioco iperoffensivo di Sarri abbia un ruolo fondamentale: «Il gioco che ci chiede di fare il mister ha il pregio di farci arrivare tante volte di fronte alla porta avversaria», mi risponde con semplicità. «E tante più volte arrivi davanti alla porta, tante più possibilità hai di segnare. E, ovviamente, di vincere».

Una silloge inattaccabile, una logica inappuntabile. Quella che parla Higuaín è una lingua dalla grammatica semplice, che affronta il nocciolo della questione, ogni volta, con efficienza più che con ingenuità. Non spreca (quasi) nulla in campo, lo stesso fuori: dosa ogni parola, ai limiti dell’ermetismo. Non ammicca, non è sibillino: le sue parole hanno il peso specifico dei macigni.

 

 

Parricidi

A distanza di ventisei anni il Napoli è tornato a laurearsi campione d’inverno. Allora c’era Diego Armando Maradona, oggi c’è Gonzalo Higuaín. Il legame tra i due, però, è più illusorio di quanto ci possa piacere immaginarlo, e vive soprattutto – se non esclusivamente – nell’immaginario dei tifosi. Higuaín non sta riprendendo, portandola a compimento, la storia di nessun altro che non sia lui, e la squadra che lo circonda e fiancheggia. Sta dando nuova linfa cromatica ai graffiti di D10S, ma indirettamente, con la sottile sagacia di un Banksy che in qualche modo reinterpreta, migliorandolo, un lavoro di Robbo.

La sua storia è costellata di padri. Quello naturale, Jorge, faceva il calciatore: «Da piccolino ero già abituato al calcio, alla partita. La mia aspirazione massima era fare il calciatore». Nell’87 giocava nello Stade Brestois, in Francia, dove è nato Gonzalo. Non ci rimase più di un anno: nell’88 tornò a Buenos Aires per vestire la maglia del River Plate. Prima dell’esperienza europea difendeva i colori del Boca, durante la parentesi xéneize il fratello della moglie, Claudio Hugo Zacarias, figlio a sua volta di uno dei più importanti allenatori di boxe del paese, Santos, aveva esordito alla Bombonera entrando in sua sostituzione.

In un’intervista la madre Nancy ha dichiarato che i geni di Gonzalo sono essenzialmente i suoi: la fantasia, l’estro, sono gli stessi che lei mette nella pittura. «Lei dipinge, ci vuole pazienza e fantasia ma fa delle cose bellissime; comunque penso di aver preso da tutti e due», mi conferma. Nella concezione estetica di Gonzalo genio e pazienza sono legati a doppia mandata. Dal padre Jorge, invece, avrebbe preso soprattutto la garra. E i consigli, ovviamente, grazie ai quali si è formato un bagaglio professionale utile a muoversi in un mondo nel quale, da figli d’arte, non sempre è semplice barcamenarsi senza che aleggi il pensiero maligno del favoritismo.

«Essere suo figlio mi ha aiutato tantissimo: e proprio come fa Sarri oggi mi sottolineava solo gli aspetti negativi, quelli positivi mai; ma credo che anche per questo mi sia stato utile, crescere è imparare dagli errori». Gli chiedo se gli piacerebbe che suo figlio, un giorno, facesse il calciatore. «Mi piacerebbe che facesse quello che vuole fare», mi risponde un po’ stizzito. Poi si addolcisce: «Ma non lo obbligherei mai a fare il calciatore: dovrebbe fare quello che sente nel suo cuore. Mi piacerebbe che diventasse quel che vuole, al livello che vuole, senza nessun tipo di obbligo. L’importante è sempre e solo essere felice». Non riesco a credere che non stia pensando, comunque, a un figlio calciatore.

 

Onestà, gioia e rabbia

Poi ci sarebbe tutta una serie di padri putativi, gli allenatori che ne hanno accompagnato la crescita, gestito l’esplosione, cullato il talento. A più riprese Gonzalo ha ribadito che buona parte dei meriti del suo exploit di quest’anno è di Sarri. «Appena arrivato mi ha parlato e mi ha convinto a restare. Mi ha detto ciò che pensava di me, sia gli aspetti positivi che quelli negativi. Mi ha trasmesso tutta la sua fiducia, e io non posso che essergliene grato, è grazie a lui se sto vivendo questo periodo di forma». Cerco di calcare la mano: vorrei sapere di preciso cosa si siano detti. «Sono cose che rimangono tra noi due», taglia corto Gonzalo.

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In realtà si tratta di un segreto di Pulcinella: Sarri ha già confessato come la prima cosa che abbia detto a Higuaín, nel ritiro di Dimaro, fosse che sprecava troppe energie nervose in atteggiamenti per lui controproducenti. «Posso dirti che di lui apprezzo il fatto che sia un uomo onesto, che gli piaccia giocare un bel calcio: spero continui così perché ammiro la sua fame di vincere». Il merito di Sarri, che Higuaín non vuole esplicitare ma che trasuda dalle sue risposte, sarebbe in sostanza quello di averlo ricondotto alla serenità. Perché di serenità, per giocare a Napoli, ce ne vuole in abbondanza. Gli chiedo se abbia un significato speciale, per lui, questa città e il suo retaggio calcistico.

«A Napoli sono venuto intanto perché il presidente ha fatto uno sforzo enorme per avermi: ci siamo incontrati, mi ha detto subito sì, ti voglio, ti compro, e gliene sono molto grato. Poi per me venire qua, giocare in un calcio difficilissimo come quello italiano, era un desafío. Però mi sono trovato molto bene, sono felicissimo dell’amore che mi dimostrano tutti e spero di disfrutar tutto il tempo che resterò qua». Solo in questo frangente, durante tutta l’intervista, ha utilizzato parole spagnole. Entrambe mentre parliamo di Napoli. Non può essere un caso. Neppure che non sia mai uscito fuori il nome di Maradona. Desafío, sfida. Disfrutar, gustare. Gli chiedo se secondo lui ci voglia più rabbia o gioia, per avere successo: «Divertirsi giocando è bello, certo, ma serve anche la rabbia. Perché se non ci metti rabbia non migliori mai».

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Ridefinire il concetto di Nove

Quando parliamo del suo essere il prototipo di una nuova razza di Nove, qualcosa che alza l’asticella dello standard per i centravanti del futuro, capace di segnare gol impossibili ma anche di spaziare per tutto il fronte d’attacco, reagisce con uno sbuffo indolente. Cosa deve fare, il nove, nel calcio di oggi secondo Higuaín? «Principalmente deve aiutare la squadra a vincere le partite. Ovviamente non si può fare sempre gol: in quel caso si deve aiutare la squadra in altri aspetti». Come fornire assist incredibili: a Madrid lo chiamavano San Higuaín de los imposiblesOppure creare spazi, giocare di sponda, quello che in spagnolo si chiama – con un termine che non ha un corrispondente italiano altrettanto bello – pivotear. Se non avessi fatto il centravanti, gli chiedo, in quale altro ruolo ti sarebbe piaciuto giocare? «Non lo so, penso che il ruolo più bello sia questo».

Eppure Higuaín avrebbe anche i tempi e l’estro dell’enganche. La propensione all’assist. Come quello per Insigne, a San Siro contro il Milan, con un taglio in profondità. O ancora il movimento esemplare in Europa League l’anno scorso, contro il Wolfsburg, quando si è andato a prendere palla da Maggio sulla trequarti, in posizione di esterno destro, prima di tracciare un filtrante mostruoso per Hamsik. «All’inizio ho anche giocato più indietro, se devo scendere un po’ a giocare non è che mi dispiace, l’ho già fatto e se me lo chiedono lo faccio con piacere». Nelle primissime partite con il River giocava da enganche puro: Marcelo Gallardo lo trovava molto simile a lui. Davanti giostrava Radamel Falcao.

Minuto 00:30, filtrante per Lorenzo Insigne contro il Milan

 

Studiare stanca

In un’intervista rilasciata a Ángel Cappa ai tempi di Madrid per un libro che si chiama Hagan juego, aveva confessato che gli piaceva molto guardare il calcio. Non tanto per imitare i gesti tecnici, ma per comprendere i concetti, diceva. Gli chiedo quanto calcio guardi in tv, oggi. «Solo se c’è una partita interessantissima e divertente. Sennò provo a fare altre cose, anche per non stare sempre con la testa nel calcio». Non è Yaya Touré che annota appunti tattici su di un taccuino, e neppure Khedira che posta foto su Instagram mentre è intento a studiare. Questo non significa che a Higuaín non piaccia il gioco in sé; solo, lo osserva più con il piglio dell’intrattenimento che quello del corso di aggiornamento.

 

Albiceleste e delusioni

Se le scosse telluriche che animano i cuori dei tifosi napoletani dipanandosi dall’epicentro di Fuorigrotta sono fuori discussione, lo stesso non è per i sentimenti al di là dell’Oceano. Con la Selección Higuaín ha messo in mostra, negli ultimi due anni, la particolare e sfortunata propensione a veder scadere romanzi scritti con uno stile impeccabile in finali ben lontani dall’happy-ending. Nel 2014 arriva con i suoi a giocarsi la finale del Mondiale brasiliano: al 20’ minuto si trova solo davanti a Neuer, ma fallisce quella che sarebbe potuta essere la rete più importante della sua carriera. E nella finale di Copa América del 2015 sbaglia uno dei penalty della finale contro il Cile.

Forse l’errore più scioccante di una carriera

Gli chiedo quanto rimanga, nella testa di un calciatore, la delusione per l’errore. Per quanto tempo tornino a farti visita i demoni. «La delusione rimane tanto quanto rimane la gioia quando si vince. In realtà entrambe scompaiono subito. Quando tutto va bene sei un fenomeno, ma quando tutto va male allora ti ammazzano. Io l’ho capito ormai, sono molto tranquillo sotto questo aspetto». Ma è innegabile che la delusione sia il motore primo di ogni rivalsa, o vendetta. Nell’astinenza dal gol per più di 600 minuti a cavallo tra la prima e la seconda stagione napoletana, nelle eliminazioni cocenti dalla Champions League, nel rigore fallito contro la Lazio – che è valso la mancata qualificazione alla Champions – dopo aver messo a segno una rimonta monstre con una doppietta: è da ognuno di questi piccoli o grandi fallimenti che è nata la versione 2.0 di Higuaín, quella che rasenta l’infallibilità.

«C’è sempre la voglia di vincere qualcosa con la Nazionale. Quest’anno abbiamo queste possibilità, vedremo» mi dice quando provo a prefigurare il successo in Copa América Centenario (o alle Olimpiadi, anche se Martino sembra voler puntare sugli U23 d’attacco, gente come Calleri, Dybala, Vietto) come la grande occasione di coronare una stagione perfetta che potrebbe portarlo, chissà, al Pallone d’Oro. Ovviamente nessun cenno al riconoscimento personale. Tento una provocazione: se avesse scelto di giocare per la Francia, accogliendo la richiesta di Domenech nel 2006, magari avrebbe vinto qualcosa di più. «Non lo so. Sono felicissimo di giocare con l’Argentina».

È inscalfibile, Gonzalo, e noi abbiamo terminato il tempo a disposizione. Mentre lo saluto gli regalo un romanzo di César Aira, mi sembra adatto alla sua visionarietà. Solo poco dopo realizzo di avergli sentito dire, in un’intervista, che i libri in una scala da zero a quindici gli piacciono zero. Rimane il tempo per un’ultima domanda, fra dieci anni dove lo troviamo Higuaín? «Non so neppure dove sarò tra mezz’ora», risponde. «Io vivo al momento. Ovviamente mi piacerebbe rimanere ancora tanto tempo nel calcio».

Quando mi lascio alle spalle Casa Napoli, il sole è già scomparso dietro il profilo del Vesuvio. Alla fine del lembo d’asfalto che costeggia i Regi Lagni prima di affondare nella pineta e immettersi sulla Domitiana un gruppo sparuto di tifosi, complice il buio e l’auto di grossa cilindrata che contingentemente mi trovo a guidare, mi scambia per qualcuno che non sono. Sbarrano il passaggio, mi chiedono un minuto, solo un minuto. Nel bagagliaio porto la delusione. Chi ci rimane più male sono quattro ragazzini: sopra alle giacche a vento indossano una maglia di due taglie più grande, sulle spalle e la schiena il nome e il numero del calciatore al quale ho appena stretto la mano. A uno di loro batto un cinque, sperando di potergli trasmettere un po’ di gioia. Per osmosi almeno.

 

Dal numero 8 di Undici
Fotografie di Jonathan Frantini