Punto di non ritorno

È stata la finale delle lacrime dell'Atlético e della lucida disperazione di Diego Simeone. Una sconfitta che pone più di un interrogativo sul suo futuro.

È accaduto prima. Prima del rigore di Ronaldo, prima dell’errore di Juanfran. Nella testa di Simeone iniziava a insinuarsi un presentimento crudele, devastante. Dall’altra parte, davanti alla panchina del Real Madrid, Zidane seguiva i calci di rigore abbracciato ai componenti della panchina: sguardo alto, fisso sulla porta dove si stavano consumando gli ultimi, decisivi istanti della finale. Gli occhi di Simeone, invece, vagavano irrequieti. Il Cholo era in disparte, passeggiando nervosamente con le mani dietro la schiena, la testa bassa. Non riusciva a scrollarsi di dosso la paura di non farcela, né riusciva a domare quel senso di impotenza a cui solo certi attimi possono condannare.

La gioia di Ronaldo (Gerard Julien/AFP/Getty Images)
La gioia di Ronaldo (Gerard Julien/AFP/Getty Images)

Quando Sergio Ramos sta per andare sul dischetto, Real Madrid e Atlético hanno segnato tre rigori a testa. In quel momento Simeone, dall’area tecnica davanti alla sua panchina, è arrivato fin sotto la Curva Sud, il settore che ospita i tifosi dei colchoneros. Prova a caricarsi della loro energia, a farsi influenzare della loro positività, a captarla e a trasmetterla, per osmosi, a Oblak e ai suoi giocatori. Un gesto d’amore e di disperazione. Ma Ramos segna, e subito dopo è il turno di Juanfran. Il giocatore che, a fine partita, chiederà scusa, in lacrime, ai suoi tifosi per l’errore decisivo.

A mezzanotte inoltrata, Simeone arriva in conferenza stampa, quando ormai i tifosi dell’Atlético hanno già abbandonato San Siro. Ci sono invece ancora quelli del Real, chiassosi e festanti. Al passaggio del Cholo, però, si ammutoliscono. «Simeone, Simeone», il bisbiglio di sottofondo. Sono un po’ sorpresi di vederselo passare davanti, ma hanno troppo rispetto per sbattergli in faccia la loro esultanza. Che riprende solo quando Simeone è dentro la sala stampa, di fronte ai microfoni, e l’urlo “Campeones, campeones” stride terribilmente con le parole, i gesti e il volto tirato dell’allenatore sconfitto.

Svuotato (Pierre-Philippe Marcou/AFP/Getty Images)
Svuotato (Pierre-Philippe Marcou/AFP/Getty Images)

Diego Simeone è un uomo distrutto. È facile capirlo, è ancora più chiaro quando dosa attentamente le parole. È lucido nel farlo, sa esattamente come esternare la rabbia e la tristezza che ha dentro. «Perdere due finali di Champions in tre anni è un fracaso, un disastro». Dura da accettare, ma in fondo «nella mia vita non ho mai avuto cose facili». Ma non cerca scuse, «non sono fatte per me», anzi dà merito al Real Madrid. Cerca di reggere tutto il peso della sconfitta, anche se stavolta, forse, non ci riesce. Dice esplicitamente che non sa cosa accadrà nel futuro, che è arrivato il momento di pensare, di fermarsi a riflettere. Il titanismo di Simeone è crudo e dimesso, oltre che tremendamente vero. L’ultimo pensiero è rivolto alla sua gente, quella con cui si è immedesimato, quella di cui ha deciso di far parte e che allaccia la sua vita di allenatore a quella da calciatore: «La cosa che fa più male è non essere riusciti a regalare una grande gioia ai nostri tifosi, che hanno fatto grandi sacrifici per poter essere qui al seguito della squadra».

Potrebbero essere le parole perfette per un congedo, anche se amaro. Perdere una finale, soprattutto pochi giorni dopo aver vinto il campionato, si può anche accettare. Perderne un’altra due anni dopo, dopo essere passati indenni contro Barcellona e Bayern, in un modo forse ancora più crudele di quanto già non fosse stato l’epilogo a Lisbona, è un colpo che non si riesce a schivare, nemmeno con tutta la resistenza di questo mondo. Alla delusione si aggiunge l’idea che quanto fatto sia irripetibile: ed è per questo che Simeone si è preso dei giorni per pensare, per guardare dentro di sé e capire se può dare ancora qualcosa a questo club oppure no.

La serie dei rigori

Quella sensazione, il timore che la finale di Milano potesse essere il punto di svolta, nel bene o nel male, dell’Atlético Madrid, si è diffusa subito, fin dai primi istanti della partita. Alla vigilia, Simeone aveva detto di adorare «il peso della storia». La stessa, però, sembra schiacciare i suoi, molli e poco reattivi dopo il calcio d’inizio. Il ricordo di Lisbona è troppo ingombrante, e deflagra quando il Real Madrid passa in vantaggio proprio con Sergio Ramos, l’uomo che ha riempito migliaia di camisetas blancas della scritta “Minuto 93”. Quando Ramos corre verso la bandierina dopo l’1-0, tra i tifosi dell’Atlético si fa spazio quel sapore impastato di beffa e calore, di quel calore che comprime e lascia paralizzati. Per buona parte dei minuti successivi all’1-0, i tifosi rojiblancos, fin lì decisamente più rumorosi dei dirimpettai, si chiudono in un angoscioso silenzio.

La chiave del match, nel primo tempo, è la difficoltà dell’Atlético Madrid di recuperare il pallone. All’apparenza, l’applicazione è la stessa di sempre: grande corsa, copertura degli spazi, pressing alto. I dati confermano che i cinque giocatori ad aver corso di più sono tutti dell’Atlético: Saúl (15,3 chilometri), Koke (14,5), Griezmann (14,3), Gabi (14,2), Torres (13,2). Però una chiusura in ritardo, o una posizione leggermente sbagliata, bastano per invalidare gli sforzi fatti. Il Real del primo tempo esibisce un’ottima condizione mentale, scambiandosi la palla quasi senza errori, eludendo il pressing avversario cambiando fronte offensivo dove trova l’uomo libero. L’emblema dell’impotenza dei colchoneros è Torres. Non c’era nella sconfitta di due anni fa, c’era in tutte le altre sconfitte, quelle meno raccontate, meno fotografate, quando quella maglia significava poco a livello internazionale, quando la subalternità dell’Atlético era chiara, insopportabile. Corre, pressa, sbuffa, ma entra poco in partita. Due conclusioni a lato, nient’altro.

Real Madrid v Club Atletico de Madrid - UEFA Champions League Final
La disperazione di Fernando Torres (Dean Mouhtaropoulos/Getty Images)

La svolta è l’ingresso di Carrasco nell’intervallo. L’impatto del belga è eccezionale, ma è proprio il messaggio di Simeone a cambiare l’inerzia del match: dentro un giocatore offensivo per un centrocampista, per giocarsi tutto, per ritrovare uno spirito colchonero fin lì annacquato. Quando Griezmann calcia il rigore sulla traversa, subentra il terrore che non ci sia nulla che possa rimettere in piedi la partita. E allora, qualche minuto dopo, Simeone si rivolge al suo pubblico, li carica ad ampi gesti: lascia da parte logiche, tattiche, sostituzioni, per aggrapparsi a una spinta emotiva, all’orgoglio, a una voglia primordiale, viva e luccicante. Quando l’urlo “Atleti, Atleti” si alza è veramente assordante. È come se, per tutta la vita, i tifosi avessero riservato la propria voce per questa serata.

Il pareggio di Carrasco è il momento dell’illusione perfetta, perché, oltre a rimettere in equilibrio la partita, arriva dopo una sequela di errori sotto porta del Real Madrid. Quelli dell’Atlético cantano come se ormai non ci fosse più una partita da seguire, ma solo un orgoglio da esibire e da esternare vocalmente. Per tutti i supplementari, un rimbombo sonoro scuote le viscere di San Siro, come se provenisse da sotto il terreno di gioco, come se fosse messo in funzione dalla forza cinetica dei giocatori, al limite dello sforzo e oltre.

L'errore dal dischetto di Juanfran (Olivier Morin/AFP/Getty Images)
L’errore dal dischetto di Juanfran (Olivier Morin/AFP/Getty Images)

Dura lo spazio di qualche minuto, due o cinquanta non fa differenza, perché per qualche strano motivo il tempo a San Siro è un concetto sconosciuto, anche se tutto dipende da quello e un tabellone è lì a indicartelo. Dura ma è destinato a finire, nel preciso momento in cui il pallone di Ronaldo varca la linea difesa da Oblak, e allora lì, mentre le note di Viva la vida scorrono via, la nebbiolina dei fumogeni si alza e metà stadio salta e urla dalla gioia, non si può non guardare verso la curva dell’Atlético, desolatamente vuota. Un concentrato di esuberanza e vitalità a cui è stata sottratta l’energia vitale in un attimo. Le parole non dette, la grave solennità dei gesti, la silenziosa uscita dallo stadio, mentre Ramos solleva la Coppa al cielo, sono il lascito emotivo di una squadra arrivata a un punto di non ritorno. Sarà Fernando Torres, con un messaggio su Twitter, a far calare il sipario: «La nostra tristezza è paragonabile solo all’orgoglio di essere dell’Atleti. Volveremos».

 

Nell’immagine in evidenza, Fernando Torres e Diego Simeone pensierosi (Shaun Botterill/Getty Images). Nell’immagine in testata, le lacrime di una tifosa dell’Atlético Madrid (Clive Rose/Getty Images)