Parigi, la paura e noi

Siamo stati a Parigi per l'inaugurazione dell'Europeo: tra partite mattutine, tensione nell'aria, traffico e finalmente calcio. Con Francia-Romania.

1.
Quando l’aereo atterra su Parigi è già calata la sera. Il cielo plumbeo di Milano ha lasciato il posto al nero, al buio della notte francese. Sono partito con un misto di eccitazione e terrore. La gioia per essere arrivato ad un passo dal vivere qualcosa che solitamente ho solo vissuto dalla Tv contrasta con la velata tensione di una Parigi “blindata”. Saliamo su un taxi e la prima cosa che mi salta all’occhio è un titolo dell’International New York Times che recita Fears build over terror risks during Euro 2016. C’è in gioco l’immagine della Francia e la sua credibilità in fatto di sicurezza, la paura non può sovrastare il resto e mi distraggo pensando a ciò che accadrà il giorno seguente. Rifletto su come siano cambiate le cose dal ’98. Quello era il Mondiale dell’integrazione, del sogno lucido di una Francia unita e multiculturale. Soprattutto vincente.

Oggi le cose vivono di sentimenti che sfuggono dalla divisione manichea di bene e male. Si fa forte la percezione di come tutto si sia evoluto in maniera differente, cambiando in parte il volto di una Nazione che è sempre stato simbolo di un’integrazione felice. Qualche ora dopo, nel cuore dello Stade de France, avrei visto nuovamente il volto sereno di una Francia unita. Dirado i pensieri negativi quando, appena arrivati in albergo, mi immergo in una vasca di acqua calda con un giornale tra le mani. Penso a cosa ho ottenuto, a dove sono arrivato. Mi assale un’eccitazione infantile che non provavo da tempo. Non esistono più Charlie Hebdo, il Bataclan, l’uomo fermato in Ucraina con un arsenale al seguito. C’è solo l’esaltazione che non mi fa dormire. Appoggiato su un letto comodo comincio a scrivere.

 

2.

Sveglia presto, non arrivare in ritardo. Mi vesto di corsa con ancora l’adrenalina che spinge forte. Pochi minuti e siamo sul pullman che ci porta allo Stade Charléty, 20.000 posti, in cui si disputano le gare dell’Under 21 transalpina e le gare interne del Paris Football Club. Tra i blocchi di cemento si scorgono le figure di due uomini che ci guardano dall’alto della tribuna. Scopro che abbiamo due agenti della sicurezza che ci seguono in ogni momento. Non so se sentirmi più tranquillo o spaventato. Entrati nella pancia dello stadio ci accolgono quattro giovani in divisa, fermi in piedi e controluce, il fisico scolpito me li fa apparire come statue che segnano il passo, guardiani che decidono chi è degno o meno di entrare. Pochi minuti e sono nello spogliatoio del team Cristiano Ronaldo, noi sud europei uniti contro tedeschi e svedesi. Non gioco a calcio di prima mattina da quando tiravo pedate ad una sfera negli esordienti dell’Avellino. Mi sento felice e leggero, lascio che l’aria tiepida di una mattina parigina mi irrori i polmoni. Ho l’ansia del sabato pomeriggio prima delle partite di campionato. Al tempo stesso sono raggiante.

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3.

Foto di rito, casacche, si preparano le squadre. La “Southern Europe” (Italia, Spagna, Portogallo) contro la “Western Europe” (Francia, Inghilterra, Germania) del team Hazard. Giochiamo contro dei giovani e atletici ragazzi tedeschi che avranno all’incirca dieci anni meno dei miei. Per fermarne uno entro in scivolata e mi si gira la caviglia. Che vorrai mai che sia. Continuiamo a correre in questo 7 contro 7 estremamente tirato, provo a calciare un paio di volte in porta ma senza troppa fortuna. C’è un compagno di squadra spagnolo che corre come un ossesso, provo a dialogarci ma non riusciamo a rimontare. Perdiamo 4 a 2 ma giocando discretamente, con un paio di cross ben calibrati mi guadagno dall’addetta media di Nike un paragone con Manuel Pasqual. Poteva andarmi decisamente peggio. Riesco a non avvertire quasi la fatica, sono più rapido del solito ed ho una facilità di tocco che non avevo mai sentito prima. Mentre ci esercitiamo a calciare in porta capisco che le nuove Mercurial sono veramente come le descrivono, leggere, capaci di far sentire più veloce anche me che ho sempre avuto un passo pesante. Al tiro posso avvertire il contatto con il pallone. So esattamente quando, come e dove sto per calciare la sfera. Segno un paio di gol: uno molto bello sbatte sulla traversa e finisce dietro le spalle del portiere. Un fotografo mi scatta una foto.

© Teddy Morellec / La Clef
Una veduta dello Stade Charléty

4.

Ha iniziato a fare caldo su Parigi, altro che pioggia e previsioni negative. È un caldo accogliente ma infame, di quelli umidi che quasi ti soffocano se non stai attento. Mancano poche ore all’apertura di Euro 2016 e Parigi è, se possibile, più attraente del solito. Doccia veloce e torniamo sul pullman. Viaggiamo dentro una città congestionata. Il normale traffico di una metropoli è acuito dalla necessità di essere al sicuro. Il flusso di auto è continuo, non c’è attimo in cui accenni a diminuire. Avendo passato la mattinata in una bolla di spensieratezza, non avevo avuto ancora modo di percepire completamente l’umore di una città che sta cicatrizzando le ferite mentre altri ancora ne grattano la superficie. Gli spostamenti sono faticosi, nei lunghi momenti in autobus cominciano ad arrivare notizie di piccoli focolai di violenza tra le strade di Marsiglia. A Parigi tutto sembra scorrere regolare.

 

5.

Siamo vicino agli Champs-Élysées, in un sotterraneo fresco e ammodernato sto parlando con Max Blau di come nasce una scarpa da calcio. La parola che ripete più spesso è ossessione, non mi meraviglio allora se il calciatore con cui dice di lavorare meglio è Cristiano Ronaldo. Sono entrambi dei perfezionisti: Max mi racconta di aver registrato tutte le gare della Copa América per guardarle con calma una volta rientrato a Portland. Per supervisionare un lavoro che dura anni e che prevede il coordinamento di decine di persone, bisogna conoscere affondo il calcio, sviscerarne ogni aspetto giornalmente. In maniera maniacale. «Cristiano ama toccare il pallone con l’esterno, abbiamo quindi deciso di migliorare quella zona della scarpa». Si sbilancia in qualche pronostico sulla vincente dell’Europeo, dice che lo vincerà un’outsider. Per lui sarà il torneo giusto per una dark horse in finale. Guardo il suo fisico grosso, ipertrofico e ne rivedo la cura che appartiene al campione di Madeira. Non concede di darmi qualche notizia sui materiali che stanno lavorando in vista di Russia 2018.

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L’headquarter di Nike è curato nei minimi dettagli. Giriamo intorno a vecchie riproduzione di maglie della Francia e capi nuovi. Le Mercurial che abbiamo provato qualche ora prima sono poste sotto un riflettore che ne restituisce tutta la bellezza cromatica. Illuminate come fossero un esperimento del movimento spazialista, riflettono uno splendore inconsueto. «Sono ultraleggere, realizzate per migliorare le performance degli atleti. La tecnologia “superfly” le rende quasi impercettibili, ma con un ottimo controllo e contatto con il pallone. La suola è la vera novità, sviluppata dopo ore di discussione e scambio di idee con i vari calciatori che calzano Nike», mi dice Max. Rimango ipnotizzato dall’evoluzione del colore, muovendole guardando la punta il cambio di colore diventa impercettibile. Salutiamo troppo presto per far ritorno in albergo. Il traffico di Parigi ci è nemico.

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6.

Parigi di giorno è un’amante gentile. Ti intorpidisce e rende sereno, avverti un piacere particolare anche solo nell’attraversare le strade. Mancano poche ore all’inizio di Francia-Romania ma non c’è nulla che ci faccia avvertire angoscia o paura. Tornato in camera trovo una maglia della Nazionale di casa con il mio nome adagiata sul letto. Ripenso alla notte prima, ho acceso la tv perché il sonno era qualcosa di estremamente lontano: Tf1 trasmetteva la replica di Francia-Italia a Euro 2000. Pochi minuti e Trezeguet risveglia incubi mai sopiti. Prendo la maglia la infilo nello zaino ed esco veloce: riuscirò tifare Francia fra qualche ora?

Le strade si sono caricate di automobili. Si muovono lente tra suoni di clacson e luci intermittenti. Il calcio smuove folle oceaniche unite da un’unica passione, c’è gente che non riesce a capirne il motivo. Partecipare alla giornata d’apertura di un evento del genere ti lascia intendere quale sia. Eccitazione, etnie differenti che si muovono tra le strade della Ville Lumière. Non c’è tensione, o almeno noi non la stiamo avvertendo. Per arrivare allo Stade de France siamo partiti parecchio in anticipo, il tempo si dilata all’infinito se davanti a te hai solo una lunghissima distesa di auto che si muove a passo d’uomo. La caviglia tumida mi restituisce un nervosismo diverso, che è quasi rabbia.

7.

Mentre l’autobus è ancora murato tra gallerie e lamiere ripenso alle parole di Bernard Cazeneuve, «We must say the truth to the French people: 0 percent precautions means 100 percent risk, but 100 percent precautions does not mean 0 percent risk». Mentre ci avviciniamo poco a poco allo Stade de France i timori crescono leggermente, il fatto che il nostro mezzo ci stia impiegando ore non aiuta a liberare lo spirito dalle vibrazione negative. Quando scendiamo nel quartiere di Saint-Denis, alla periferica della città, ho già indossato la maglia dei bleus. Attorno a noi vedo un’ infinità di vecchie divise con impresso il nome di Zizou, la banlieu è fervente ma sicura. Quello che è successo in queste strade qualche mese prima è un ricordo vivo ma non assillante. Noi che camminiamo uniti per il quartiere dei blitz non avvertiamo timore, tutto è stato testato per non avere un mare di tifosi impauriti per le strade. Riuscire a vivere con serenità la prima giornata di Europei è un buon modo per esorcizzare ogni tipo di paura.

Il pre-gara è un tumulto di poliritmie e canti. Sento i primi Allez les blue gridati forte contro il cielo. Mentre stiamo per superare il primo blocco di controlli mi volto e scorgo gli uomini della sicurezza, diventati nel frattempo in tre, che ci guardano con lo sguardo serio e severo di certi film di spionaggio degli anni ’70. Arriviamo al gate H, scannerizziamo il biglietto e siamo dentro lo stadio. Ancora un controllo accurato dei nostri corpi e possiamo passare.

 

8.

Lasciandoci alle spalle i blocchi di marmo delle tribune si apre agli occhi uno spettacolo che mi fa vibrare. Ho vissuto il calcio in un po’ di stadi. Sono cresciuto seguendo l’Avellino al Partenio, l’ho guardato giocare in stadi vecchi e fatiscenti. Ho vissuto un intenso derby di Milano, entrando a San Siro per la prima volta. Quello che sto vedendo in questo momento è assolutamente incredibile. C’è un’aria buona che scorre tra le tribune dello Stade de France. Sembra di essere stati prelevati da un diverso spazio-tempo e catapultati in un luogo immaginario, fatto di calore e canti liberatori.


Bandiere francesi sventolano rapide mentre si canta il ritornello di Ego di Willy William, dj franco-giamaicano che pare aver azzeccato la hit dell’estate. I tifosi francesi continuano a ripetere «Tout est beau. Tout est rose. Avant que mon ego s’impose. J’ai fini de te regarder. Allez allez allez». I rumeni sono in tanti, cantano e sono venuti per rovinare la festa. Nel momento in cui comincia la cerimonia d’inaugurazione diventiamo parte della coreografia, mentre David Guetta finge di mixare brani alziamo i cartelli colorati. Una riproduzione della Torre Eiffel si erge altissima a pochi metri da noi. Il mix di colori si fa ancora più intenso; penso agli inglesi e alla Brexit, a cosa possa rappresentare uno spettacolo del genere. Rimango muto mentre l’occhio sfugge ai cartelli alzati intorno a me e ricompone lo spettacolo messo in piedi da tutto lo stadio. Ci sono i drappi di ogni nazione riprodotti da cartelli dalle nuance differenti. Resto in silenzio e riesco soltanto a scattare questa foto.

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Una parte della coreografia dello Stade de France prima di Francia Romania.

9.

Partono le note della marsigliese e tutto lo stadio grida unito. Le differenze vengono azzerate, non c’è io o tu, ma soltanto un enorme e semplice “noi”. Noi francesi e noi che amiamo la Francia, noi turisti che per un giorno svestiamo i panni dei tifosi per mettere l’abito buono dei cittadini d’Europa.

Siamo a pochi metri di distanza dal campo e vedo tutto in maniera chiarissima. La Francia è come un ensemble free jazz, in cui si suona per autocompiacimento più che per unità d’intenti. Viene restituita una musica incerta, non coerente ma a tratti interessante. Nel momento in cui capitan Lloris balza felino sulla linea di porta, vedo i tifosi davanti a me sbracciare compulsivamente. Scampato il rischio di una drammatico inizio si possono quasi avvertire i sospiri di sollievo tirati all’unisono. Quando Griezmann colpisce il palo dopo un azione rocambolesca, un fortissimo oooohhhhh si alza dai posti che mi circondano. È come il suono di un drone che ritorna in maniera circolare. Mi soffermo qualche minuto a guardare Pogba; ha le movenze postmoderne di chi fonde classicismo e contemporaneità: ogni suo tocco è una rivelazione estetica senza precedenti. Vederlo dal vivo è pura gioia per gli occhi. Ogni tocco rifugge la banalità per farsi eccezione. Con lui noto la corsa senza sosta di Kanté, è praticamente l’unica barriera che sta a protezione di una difesa vagamente incerta. La muscolarità del centrocampista del Leicester è obesa, impossibile da non vedere o da evitare. Ancora Payet per Griezmann e quasi ci si abbraccia. La Romania sta chiudendo ordinata ogni spazio, non ha grandissime qualità ma la Francia è limitata in un recinto che non riesce a scavalcare.

 

10.

Alla fine del primo tempo comincia a palesarsi lo spettro di una festa rovinata. Come un party pieno di gente interrotto dall’arrivo improvviso e inatteso del vicino che vuol dormire. Stanciu per Stancu e la gente ammutolisce, un grido di sorpresa si leva dal mio lato sinistro in cui sono assiepati i numerosi supporters rumeni. Payet cresce minuto dopo minuto. Un ragazzone corpulento davanti a me ne veste la maglia e ne grida il nome; quando sterza due volte come un’auto fuori controllo, per poi servire Pogba che calcia basso sui piedi di Tatarusanu, ha già strappato agli altri il ruolo di leader. Al minuto 56 c’è un angolo per la Francia, comincio a riprendere con il cellulare (che non si sa mai) e sto quasi per staccare quando la difesa rumena allontana la sfera arrivata in area con una parabola degna di un Iron Bridge. Nel momento in cui Payet calcia di nuovo e Giroud stacca di testa un’onda carica di energia viene sprigionata all’interno dello stadio.

Il pareggio della Romania lascia cadere un velo gelato sulle tribune. Quando il tabellone luminoso riporta il risultato di 1 a 1 si sentono soltanto i canti dei rumeni. Il rigore di Stancu ha sparso nervosismo ovunque, continua ad aumentare con il passare dei minuti fino a quando, nel momento in cui non si crede più possa accadere altro, Dimitri Payet calcia forte di sinistro all’incrocio dei pali. Pochi secondi dopo non mi accorgo quasi di essere tra quelli che grida Allez les bleus. Il ragazzo con la maglia numero 8 a poche file dalla mia è in preda a una crisi semi-mistica e nessuno riesce a contenere la gioia. Nemmeno Payet che esce piangendo.

 

11.

Al triplice fischio usciamo ordinati dal settore che ci ospita. Lo stadio è ancora pieno e c’è gente che non sembra avere voglia di allontanarsi. Attraversiamo un sottopassaggio per arrivare tra le strade ancora affollate che costeggiano lo stadio, siamo immersi in un’onda di maglie che cantano l’inno francese. Ci fermiamo giusto accanto a un conglomerato di agenti in divise enormi, uno dei rari momenti in cui percepisco realmente qual era il livello di allerta intorno a noi.

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Un agente dal volto efebico tiene in mano un fucile che mi agita un po’. Mentre raggiungiamo il pullman che ci riporterà a casa guardo di sfuggita sul telefono i video degli scontri marsigliesi. Spengo e mi godo gli ultimi attimi di una giornata pregna di calcio. Le strade scure di Parigi di notte le restituiscono il fascino etereo e silenzioso di Ascensore per il patibolo. La Francia è felice, mentre lentamente si ricostruisce petalo dopo petalo, come un Ikebana che dona nuova vita ai fiori recisi. Entro in camera e mi appoggio sul letto; mi sento stanco e sfinito ma ricomincerei tutta la giornata da capo. Se solo non fosse per la caviglia dolente che mi ricorda che, forse, non sono più in grado di giocare a calcio. Meglio se continuo a guardarlo dall’interno.