I figli dell’Aranycsapat

Primo posto nel girone, imbattuta, miglior attacco: l'Ungheria è una delle rivelazioni di Euro 2016. Storia, politica e protagonisti del fenomeno magiaro.

Primo posto nel girone più assurdo dell’Europeo. Zero sconfitte subite nonostante aspettative minime. E uno status di partenza da outsider assoluta, dovuto a una qualificazione (agli spareggi) giunta dopo 30 anni di digiuno dai grandi tornei. L’Ungheria è una storia strana: troppo lontane nel tempo, le due finali Mondiali, per poter rappresentare ancora qualcosa, un campione valido, un reale metro di paragone col presente; ma troppo grandi, blasone e narrazione, per poter accettare il destino di squadra-materasso-all’infinito. Ora c’è in programma un (difficilissimo) ottavo col Belgio, una cosa insperata che però è meritata realtà. Su questa cosa del merito, chiedere a Cristiano Ronaldo, a cui non sono bastati una doppietta e un gol di tacco per vincere. O magari chiedere all’Austria, squadra piena di hype che ha praticamente gettato via il suo Europeo perdendo a sorpresa contro i magiari. “Magiaro”, un appellativo che rimanda ai racconti meraviglia della scuola danubiana. Da Sarosi a Puskas, da Parigi ’38 all’Aranycsapat. Un calcio raffinato, ancestrale, bello da immaginare. Quella roba è lontana: l’Ungheria di oggi è una squadra basic, semplice e lineare.

Come gioca l’Ungheria

Il calcio dell’Ungheria durante questo Europeo è tutto in due aggettivazioni, una italiana e l’altra anglofona: reattivo e direct-to-gol. La nazionale costruita da Storck adatta le sue caratteristiche a quelle dell’avversario, si modella in base al talento dei calciatori che affronta. E, in fase offensiva, riparte o costruisce azioni mirate esclusivamente alla conclusione, rifiutando il concetto di possesso palla come predominio territoriale. Queste predisposizioni, annunciate pure candidamente dal ct in un’intervista al sito della Fifa («Non siamo ancora pronti per imporre il nostro gioco, prepareremo ogni partita in base alle caratteristiche delle nostre sfidanti»), le leggi nei dati: contro il Portogallo, l’altro ieri, appena il 37% del possesso palla. Nella sfida contro l’Islanda, i magiari hanno invece fatto registrare una percentuale ai livelli di Tiqui-Taca, roba da 71% di possesso. Contro una squadra di pari livello, o comunque non troppo superiore (l’Austria), il rapporto è sostanzialmente pari (52% a 48% in favore degli austriaci).

Balazs Dzsudzsak esulta nel match contro il Portogallo) Francisco Leong/AFP/Getty Images)
Balazs Dzsudzsak esulta nel match contro il Portogallo) Francisco Leong/AFP/Getty Images)

È possibile individuare la locuzione direct-to-gol in un gioco tutto orientato alla ricerca dell’azione pericolosa, senza fronzoli o ricami eccessivi. Quasi a voler smentire la storia, ad andare in controtendenza rispetto alla dimensione estetica della scuola danubiana. Una fabbrica di calcio che, secondo Zdenek Zeman, «basava la propria attenzione sulla supremazia tecnica del palleggio, con una chiara predisposizione verso il gioco offensivo». L’Ungheria di oggi, invece, punta tutto sull’essenzialità, su una manovra veloce e diretta: i magiari sono infatti la prima squadra dell’Europeo nel rapporto tra tiri da fuori area e totali, con un 71% di conclusioni tentate oltre i 16 metri. Ci prova sempre, l’Ungheria dei tempi moderni. Eppure, non è tutto così tecnicamente improvvisato come una lettura superficiale degli undici in campo potrebbe suggerire: la nazionale di Storck ha costruito più occasioni da gol dell’Italia (35 conclusioni a 25), ha messo insieme più passaggi rispetto alla Croazia (1283 a 1034) e pure con un’accuracy  più alta (80% a 78%). Il dato che però salta più all’occhio è quello dei dribbling tentati: Dzsudzsák e compagni hanno provato la giocata a effetto più dei colleghi spagnoli, 8 volte ogni 90’ rispetto alla media di 6,7 per match dei Campioni d’Europa in carica. Evidentemente, qualcosa nel dna di questa squadra è rimasto intatto: sessant’anni dopo, la scuola danubiana è tornata in vita. Almeno per qualche secondo, durante le partite dell’Ungheria. Pure di questa Ungheria qui.

Lectio Magistralis sul gioco reattivo. E un gran gol, dopo uno scambio stretto che fa tanto scuola danubiana.

Questa Ungheria qui: i motivi di una crisi

Per capire e ricostruire la cinquantennale carestia di talento calcistico che ha colpito l’Ungheria, ho deciso di intraprendere un percorso particolare, direi quasi un’esperienza sensoriale: rivedere su Youtube i video di Lajos Detari, ultimo “grande calciatore” espresso dalla scuola magiara prima dei giorni nostri. Più che capire cosa sia successo all’Ungheria, però, ho dovuto registrare due cose fondamentali: l’incredibile progresso del calcio greco in un quarto di secolo e la bellezza storica, inarrivabile, del campionato di Serie A. In un video tributo dei tifosi dell’Olympiakos (il fantasista ungherese è stato il numero dieci biancorosso per due stagioni, prima di arrivare in Italia), si vede un gol in cui i difensori sembrano (di)mostrare una riverenza assoluta nei confronti di Detari. Che riceve palla in area, elude il tackle di un difensore, supera due volte il portiere, dribbla un altro avversario e finalmente scarica in porta. Nessuno degli avversari, numero uno compreso, abbozza un intervento deciso. In un’altra videocompilation, riferita alla sua stagione all’Ancona, si vedono maglie e squadre e calciatori bellissimi. Detari segna nove volte, non sfigura del complesso. Alcuni gol sono pure belli. Quello segnato contro l’Inter, soprattutto.

Al termine di questo breve viaggio, riemergo con la convinzione che se Lajos Detari è riconosciuto universalmente come il miglior talento della storia ungherese dai tempi del Pallone d’Oro 1967 Florian Albert (uno che, secondo Ivan Ponting dell’Independent, aveva tanta classe in campo da potersi definire un«aristocratico sportivo»), vuol dire che non siamo di fronte alla classica “crisi da fine ciclo”, un po’ come quella che sta colpendo il nostro calcio. Qui abbiamo a che fare veri e propri vuoti strutturali, di formazione, soprattutto alla luce di un passato troppo glorioso per poter essere stato escluso in maniera definitiva dal corredo genetico di un movimento calcistico. Ecco che allora c’entra qualcosa la Storia, quella con la s maiuscola. La politica pure, se volete. Anzi, soprattutto quella. In Ungheria la pensano così, e lo dicono anche. Gaby Kovacs, direttore del portale HungarianFootball, ad esempio: «Il comunismo – sostiene Kovacs – ha avuto sempre un grande impatto sul calcio ungherese». Ancora più tecnica (ed esplicita) Zsuzsanna Bukta, che in un rapporto sulla situazione dello sport in Ungheria pre e post 1989 racconta di come istruzione e formazione sportiva, nel periodo immediatamente successivo alla caduta del regime, siano state «trascurate dalle istituzioni». «Prima del 1989 – aggiunge Zsuzsanna – il governo ha finanziato lo sport attraverso due canali fondamentali: direttamente, con i fondi del bilancio centrale; e indirettamente, attraverso società di proprietà dello Stato. Dopo la caduta del Muro di Berlino, queste società sportive sono state privatizzate: un colpo troppo duro. Alcuni club sono scomparsi, altri si sono trovati in una situazione finanziaria molto difficile». Basta fare due conti con il calendario per capire che questa teoria non è proprio campata in aria: l’ultima qualificazione a un grande torneo dell’Ungheria (prima dei quella all’Europeo francese) è datata 1986, il Mondiale messicano. Come dire: coincidenze. Che però, come vedremo, si ripetono nel tempo.

Le coincidenze che si ripetono nel tempo: Orban e le sovvenzioni allo sport

Per capire chi sia e cosa rappresenti Viktor Orban, primo ministro ungherese, vi proponiamo un breve estratto di un pezzo di Stefano Bottoni su Limes: «Nonostante i suoi 48 anni Orbán è l’unico reduce dei movimenti di opposizioni anticomunisti degli anni Ottanta ancora in attività, ma soprattutto l’unico politico est-europeo che osa ancora opporsi all’idea di un’Europa postcomunista trasformata in gigantesca piattaforma commerciale al servizio della locomotiva tedesca». Nonostante la distanza ideologica, il sistema di sovvenzionamenti al calcio e allo sport ungherese tipico del regime comunista è un caposaldo della politica di Orban. Che, dal 2010 e fino a tutto il 2018, ha stanziato una grossa fetta di risorse pubbliche per costruire nuovi impianti sportivi oppure rimodernare quelli obsoleti. Saranno 33 in tutto gli stadi coinvolti dai lavori, per un investimento di circa 130 miliardi di fiorini ungheresi. Una somma che lo stesso Orban, all’inaugurazione del nuovo centro di formazione del Diósgyőri, club di prima divisione, ha definito «giusta, proporzionata».

Digressione su Gabor Kiraly: musica popolare, qualche follia in possesso di palla. E poi, soprattutto, alcune grandi parate.

Le intenzioni e le idee del premier ungherese sono semplicissime da capire: impianti nuovi, più moderni, accoglienti e soprattutto capienti, per cercare di riportare i tifosi allo stadio. E per cercare di ristabilire, attraverso lo sport, «una maggiore autoconsiderazione da parte degli ungheresi, che del resto sono lo stesso popolo che ha generato campioni assoluti come Puskas, Krisztina Egergszegi, László Papp e András Balczó». Questa nuova politica, però non sembra aver riscontrato la totale adesione degli appassionati e degli addetti ai lavori ungheresi. I primi, soprattutto gli ultras più radicali, hanno criticato la dimensione “da teatro” dei nuovi stadi, sentendosi «trattati come criminali» e non accettando le regole che li vorrebbero «ad applaudire educatamente e acquistare bevande costose a fine primo tempo». Gli esperti, invece, lamentano l’inutilità di questo tipo di investimenti in uno scenario tecnico privo della necessaria qualità. Se Mihaly Muszbek, docente di economia, ha definito gli stadi rinnovati da Orban come «impianti troppo grandi, soprattutto in rapporto al continuo calo della media spettatori», un rapporto commissionato alla società belga Double Pass dalla stessa federcalcio ungherese ha dimostrato come il vero problema sia da ricercare nelle accademie, che «allenano i calciatori male, in maniera differente da club a club e con metodi poco aggiornati». Inoltre, mancherebbero figure specializzate per particolari professioni di campo, non ci sarebbe nessun aggiornamento software e non sarebbero contemplate neanche figure ormai fondamentali come quella dello psicologo o dello scouting. L’indagine di Double Pass ha anche classificato le academy dei club ungheresi, ma il goveeno (Orban) aveva inizialmente spinto perché questi dati non venissero resi pubblici. Perché la squadra creata dalle giovanili del Videoton e spostata nella sua città natale (Felcsut), la Ferenc Puskás Football Academy, sarebbe addirittura nona su dodici. Nonostante un investimento, anche questo molto criticato, di 17 milioni di euro per costruire l’impianto del club, che ora disputa il massimo campionato. Uno stadio nuovo, da 20mila posti, per una città che non conta più di 1700 abitanti.

L'autogol di Birkir Saevarsson in Islanda-Ungheria (Attila Kisbenedek/AFP/Getty Images)
L’autogol di Birkir Saevarsson in Islanda-Ungheria (Attila Kisbenedek/AFP/Getty Images)

L’Europeo di quest’anno sta dando ragione a Orban. Grazie alle splendide prestazioni della squadra di Storck, il movimento calcistico ungherese potrebbe uscire finalmente (e davvero) rafforzato, perlomeno nella sua credibilità tecnica. Che è un po’ quello che manca, in relazione al talento dei calciatori quanto all’appetibilità e alla competitività di un campionato ancora troppo deficitario nonostante la presenza di 12 calciatori sui 23 portati in Francia dal ct della nazionale. Molti di questi sono giovani (l’età media è ancora vicina ai 27 nonostante la presenza nella lista di un 40enne e un 37enne), ma sembra quasi un dispetto della legge del contrappasso il fatto che i due leader assoluti, tecnici e carismatici, della nazionale, siano l’espressione dei pessimi anni Duemila della nazionale magiara: Gabor Kiraly e Zoltán Gera.

I leader assoluti: Kiraly e Gera (ma anche Adam Nagy)

Ho già scritto del ricordo che mi lega a Gabor Kiraly nella tavola rotonda pre-Europei. Quindi, ora c’è da capire il perché io mi senta così legato anche a Zoltán Gera, l’altro grande protagonista di questa incredibile spedizione europea. Se quella per il portiere è un’infatuazione legata al dettaglio che colpisce, e parlo ovviamente dei pantaloni lunghi, la fissa per Gera è roba di appartenenza. Appartenenza di Football Manager, quindi viscerale quasi come quella per la squadra del cuore. Insomma, succede che nella versione 2010 del gioco mi innamoro del Fulham. Nello stesso anno, il club londinese si gioca la finale di Europa League contro l’Atletico Madrid. Perde 2-1 a un soffio dei rigori, ma il suo trequartista titolare è uno dei migliori in campo: scodella il cross che vale il pareggio di Davies, gioca a tutto campo e in un’altra azione importante è sempre lui a mettere al centro un pallone insidioso. Quel trequartista è Zoltán Gera. Che sotto voglio farvi vedere nel video vintage, ma che vi invito a guardare anche nella versione più recente: quella del gol al volo contro il Portogallo

Atletico Madrid-Fulham. Gera è il numero 11.

Tornando al portiere più particolare di questi Europei, c’è comunque da premettere una cosa prima di parlare in qualsiasi altri termini: Gábor Király è bravo. Certo, non è un portiere infallibile, e lo dimostra l’imperfetta copertura del primo palo sul gol di Nani in Ungheria-Portogallo. Però, il resto è perfetto, pur nella sua iconica imperfezione estetica. Nel suo modo di giocare c’è la leadership assoluta della difesa e soprattutto una capacità non comune di coprire l’intero specchio della porta con tutte le parti del corpo. Con mani e braccia, attraverso interventi dall’alto coefficiente di difficoltà e spettacolarità; ma anche con i piedi, in classiche uscite basse stile hockey che rientrano nelle caratteristiche di un personaggio fuori dagli schemi. Che stuzzica e solletica la fantasia degli appassionati, ma che dietro i pantaloni grigi nasconde la storia del predestinato. Nel giorno del suo esordio in nazionale, Király entra in campo e tocca il suo primo pallone deviando un calcio di rigore. Il 14 giugno, 18 anni dopo quel primo match con la nazionale magiara, è diventato il calciatore più vecchio ad aver partecipato ad un Campionato Europeo. Bella e significativa la curiosità che entrambe queste storiche partite siano state disputate contro l’Austria.

Gera, invece, è un bad boy. Anzi, era un bad boy. Il Guardian, in un pezzo pre-Europeo, ha raccontato della sua rough childhood, infanzia ruvida: «Fin dalla più tenera età fumava, beveva, si dilettava con la droga e ha rubato dalla madre. Non ha terminato il liceo, ma poi ha conosciuto la religione e trasformato la sua vita». Oggi ha 37 anni, è il leader tecnico e tattico della squadra di Storck (nel delicato ruolo di pivote davanti alla difesa ) ed è praticamente un monumento del calcio ungherese, con le sue 92 presenze in nazionale e l’esperienza accumulata all’estero, soprattutto in Premier League. In realtà, il rapporto d’amore assoluto è corrisposto, reciproco: lo leggi tornando indietro a quell’Europa League del 2010, e al gol decisivo siglato da Gera contro l’Amburgo nella semifinale di ritorno. Durante l’esultanza, corre verso la telecamera e dedica con un urlo il gol ai suoi connazionali. In un’intervista pubblicata pochissimi giorni dopo, spiega come il gesto sia stato spontaneo: «Non ci ho pensato, ma so che molte persone in Ungheria guardano le partite del Fulham per vedermi giocare. Fanno il tifo per me e io gli sono estremamente grato per questo». Gera, oggi, la pensa più o meno allo stesso modo. In un’intervista rilasciata al sito della Fifa, spiega di essere ancora disponibile a giocare per la nazionale, anche al termine dell’Europeo: «Abbiamo una buona generazione di calciatori, e bravi allenatori che sanno di calcio internazionale. Questo ci ha permesso di diventare una squadra costante, organizzata. Sono realista e non mi aspetto di giocare nelle qualificazioni alla prossima Coppa del Mondo, ma non sarò mai io a dire che non voglio più far parte della squadra nazionale, anche perché mi piacerebbe poter dare ancora il mio contributo. Sento di poter dare ancora qualcosa».

Il futuro?

Accanto a lui, cresce il calciatore magiaro che forse più di ogni altro ha impressionato in queste tre uscite all’Europeo: Adam Nagy, 21enne centrocampista del Ferencváros. Secondo Tomasz Mortimer di Espnfc, è un calciatore «rapido e tatticamente intelligente, che copre bene gli spazi alla sua difesa e gestisce bene il possesso palla». Ora ha un’altra partita in una vetrina discretamente importante come quella dell’Europeo. Mantenesse quanto promette, sarebbe un bel colpo per l’intero calcio ungherese. Che ha bisogno di ripartire da qui per poter dire davvero di essere tornato. Non certo ai livelli di una volta, ma per il momento possiamo anche accontentarci.

 

Nell’immagine in evidenza, i calciatori dell’Ungheria sotto lo spicchio dello stadio occupato dai loro tifosi, dopo la partita contro il Portogallo (Joe Klamar/AFP/Getty Images)