Dieci ricordi di Tim Duncan

Dopo diciannove stagioni strepitose con i San Antonio Spurs, Tim Duncan ha detto addio. In dieci momenti, la carriera di un gigante dell'Nba.

Tim Duncan

1. Wake Forest

Il primo, vero ricordo di Tim Duncan è di una gara disputata il 12 marzo 1995. Entra nella Nba solo nel 1997, per cui al tempo è ancora al college, nel North Carolina, gioca per l’università di Wake Forest. Con la maglia dei Demon Deacons è in campo per la finale della Atlantic Coast Conference contro i North Carolina Tar Heels. Tra gli avversari ci sono due fenomeni come Rasheed Wallace e Jerry Stackhouse, più Jeff McInnis, che avrà anche lui la sua solida carriera Nba. Duncan invece tra i suoi può contare solo su Randolph Childress, che assaggerà la Nba ma che poi giocherà da protagonista soprattutto in Italia, per parecchi anni. Quel giorno però Childress basta e avanza, perché – dopo aver segnato 40 punti nei quarti di finale e altri 30 in semifinale – chiude la finalissima a quota 37, compresi tutti e 9 i punti di Wake Forest nel tempo supplementare. È una delle più belle finali di tutti i tempi della Acc, così come i 107 punti totali di Childress nelle tre gare restano ancor oggi tra le prestazioni più incredibili mai viste nel mondo del basket universitario. E Duncan, vi chiederete? Ovviamente in doppia doppia, con 16 punti ma soprattutto con 20 rimbalzi. E ovviamente vincente, anche se all’epoca non aveva neppure compiuto 19 anni. Silenzioso, senza quasi farsi notare, tratto comune a tantissimi suoi successi futuri. Si farà notare di più l’anno seguente, perché vince ancora ma stavolta da assoluto protagonista: 19 punti e 15 rimbalzi nei quarti di finale del torneo Acc, 22+19 in semi, 27+22 nella finalissima contro Georgia Tech. Altro titolo, stavolta accompagnato dal riconoscimento come miglior giocatore del torneo. Ed è solo l’inizio.

Riassunto delle giocate più “duncaniane” ai tempi del college

2. Lottery

Al giorno della tragica overdose di Len Bias (19 giugno 1986) e a quello della morte di Reggie Lewis (27 luglio 1993), i tifosi di Boston associano solitamente un’altra data funesta, che cercano in ogni modo di dimenticare: quella del 18 maggio 1997. Si tiene la lottery che assegna l’ordine di scelta al draft Nba, in programma il mese dopo. I Celtics hanno il 27.51% di probabilità di scegliere per primi al Draft, gli Spurs solo il 21.6%. Ma, lo dice il nome, è una lotteria, e le palline nell’urna beffano i biancoverdi di Boston per regalare la prima chiamata assoluta ai texani. Il n°1 è, indiscutibilmente Tim Duncan, l’uomo che Rick Pitino (allora allenatore dei Celtics) aveva individuato per riportare la franchigia più storica e vincente della Nba ai suoi fasti. Pitino finisce per scegliere invece alla n°3 (Chauncey Billups, scambiato pochi mesi dopo) e alla n°6 (Ron Mercer, stessa sorte due anni dopo), mentre Duncan prende la via di San Antonio. Gregg Popovich, al tempo allenatore degli Spurs da soli sei mesi, stava seguendo la lottery sul posto, assieme al proprietario degli Spurs, sandwich & birra in mano per ingannare l’attesa. «Quando ho realizzato che ci era toccata la prima scelta assoluta ho mollato panino e birra e ho solo esclamato: “Dio mio”. Il resto è storia».

1997, appena scelto nel Draft dagli Spurs

3. Twin Towers

C’erano già stati – in maglia Houston Rockets – Ralph Sampson e Akeem Olajuwon (al tempo ancora senza H iniziale), non ce ne saranno invece più dopo, perché la tragedia dell’11 settembre farà sembrare fuori luogo soprannominare “torri gemelle” una coppia di lunghi sotto canestro. Ma dal momento in cui Duncan entra nella lega nel 1997, il duo con l’altro “sette piedi” David Robinson forma una delle combinazioni più letali che la storia della pallacanestro ricordi. A Robinson Duncan regala il suo primo titolo Nba, dopo un decennio di tentativi senza successo, e poi anche l’uscita di scena migliore, con un altro anello Nba (questa volta nel 2003) che segna la miglior chiusura possibile per la carriera dell’Ammiraglio n°50 degli Spurs.

Tim Duncan Nba
Tim Duncan schiaccia a canestro, Nba Finals 2014 (Larry W. Smith – Pool/Getty Images)

4. “Fiba sucks”

Olimpiadi di Atene, 2004, quelle di uno storico argento azzurro ma anche quelle della “vergogna” per Team Usa, per la prima volta dalla spedizione del Dream Team a Barcellona ‘92 incapace di portare a casa l’oro. Sconfitta da Portorico e Lituania durante il girone, poi eliminata in semifinale dall’Argentina, la nazionale a stelle&strisce si deve accontentare del bronzo, ottenuto prendendosi una (magra) rivincita sui lituani. Duncan vede la medaglia d’oro brillare al collo del suo compagno agli Spurs, Manu Ginobili. Fargli i complimenti non è affatto un problema, dover liquidare un gruppo di 12-15 giornalisti che gli chiedono spiegazioni del fallimento molto di più. Il gruppo fortunatamente si riduce a 4-5, il capo ufficio stampa Usa capisce che è il momento buono per liberare Duncan e pronuncia il fatidico “ultima domanda”. Arriva puntuale: «Tim, come giudichi nel complesso la tua esperienza?». Duncan si prende un attimo, sorride, e poi sentenzia: «Fiba sucks», prima di aggiungere sottovoce, rivolto al suo ufficio stampa: «Scusa». Resterà l’unica esperienza con la nazionale Usa nella carriera di Duncan, così come quell’oro olimpico resterà l’unico buco in una bacheca altrimenti strapiena di qualsiasi trofeo. Per scelta, ovviamente, perché «Fiba sucks».

Allen Iverson Tim Duncan
Ad Atene, durante le Olimpiadi, in buona compagnia (Donald Emmert/AFP/Getty Images)

5. 21 vs. 21

Tim Duncan e Kevin Garnett – la massima espressione del n°21, se così vogliamo chiamarli – si sono scontrati 34 volte in stagione regolare (21-13 il record a favore di Duncan) e altre 8 nei playoff (6-2), il primo con la maglia degli Spurs, l’altro con quella dei Timberwolves. Poi – ma qui questo non c’entra – Garnett è andato a Boston prima (col n°5 sulla maglia) e a Brooklyn poi (con il 2), per poi tornare a Minnesota e riprendersi il suo numero di sempre, per un’ultima, nostalgica battaglia tra n°21 andata in scena due giorni prima dell’ultimo Natale. Nel decennio tra il 1997 e il 2007 pochi duelli (anzi, forse nessuno) nel mondo Nba hanno avuto lo stesso fascino di Duncan vs. Garnett. Compassato, freddo fino a essere glaciale il primo, emotivo e in perenne ebollizione il secondo; silenzioso uno, trash talker l’altro; un manuale di tecnica contro un atleta prodigioso. Non si può parlare di Tim Duncan senza nominare il suo avversario più valente, Kevin Garnett. A entrambi va un sentito ringraziamento per lo spettacolo che ci hanno offerto.

6. The bank is open

Dal campetto alla prima divisione, tirare “di tabella” è un po’ da sfigati. È come ammettere di aver bisogno di un aiuto per arrivare a segnare, senza il quale vacilla la certezza di centrare direttamente il ferro con la semplice parabola di tiro. Poi è arrivato Duncan. Che ha stabilito il suo ufficio proprio lì, a 45 gradi esatti dal ferro, tanto a destra quanto a sinistra del fronte di attacco. Riceveva palla, si girava a fronteggiare il canestro e già si sapeva come sarebbe andata a finire. A volte il tiro aveva più parabola, a volte un po’ meno, magari costretto ad affrettare un po’ la conclusione. Il risultato però era quasi sempre lo stesso. Tabella e canestro. Bank shot, viene chiamato così in gergo il tiro appoggiato al vetro. E la banca – come da titolo di questo paragrafo – nel suo caso era sempre aperta, perché Duncan ha riscosso in questo modo una fetta grossissima di quei 31.668 punti segnati in carriera.

7. Gara-6, finali Nba 2003

Se si limita l’analisi alla Nba moderna (diciamo per comodità dagli anni ’80 in poi) e alle gare di finali che hanno assegnato un titolo, si scopre come Tim Duncan sia titolare di una delle cinque più incredibili singole prestazioni di sempre. Contro i New Jersey Nets, in gara-6 delle finali 2003, coi suoi Spurs avanti 3-2, il n°21 degli Spurs ha prodotto una gara da 21 punti, 20 rimbalzi, 10 assist e 8 stoppate, sfiorando di fatto una quadrupla doppia che nell’intera storia della lega si è vista solo cinque volte. Non solo: il tutto guidando i suoi Spurs, sotto anche di 9 punti nel quarto quarto, a una furiosa rimonta. Tutt’altro che sorprendente, quindi, il titolo di Mvp delle finali al termine di una gara del genere, che si ritaglia di diritto un posto nella storia.

8. Finali 2007

Altre finali Nba, quattro anni dopo, nel 2007, contro i Cleveland Cavs. Sono le sue quarte, ma le prime (di sette, and counting) per un suo avversario di nome LeBron James e le prime (viste di persona) per chi scrive. Sono finali obiettivamente brutte, scontate, troppi più forti ed esperti gli Spurs, troppo giovani (e scarsi, diciamo le cose come van dette) i Cavs. Ma una cosa rimane, un momento passa comunque alla storia. Chiuso il conto sul 4-0, Tim Duncan incrocia proprio un 22enne LeBron James nel post-partita, e nel consolarlo con un abbraccio gli dice: «Questa tra poco sarà la tua lega». Un gesto di umiltà incredibile verso un avversario all’epoca giovanissimo e ancora senza vittorie. Inutile sottolineare come Duncan ci avesse visto giusto, anche se dopo aver subìto proprio da James e dai suoi Heat l’unica sconfitta in finale Nba della sua carriera nel 2013, tornerà un’ultima volta a riprendersi l’anello di campione Nba l’anno seguente.

Tim Duncan, Lebron James
Tim Duncan si attorciglia con LeBron James  durante le Nba Finals del 2014 (Chris Covatta/Getty Images)

9. Uno. Unico

In 19 stagioni Nba, una sola squadra (agli Spurs è primo per punti, rimbalzi e stoppate, occorre ricordarlo?) e un solo allenatore (Pop, ovviamente). È un aspetto che è stato ripetuto tantissimo, per sottolineare una volta di più – non solo numeri, statistiche e vittorie alla mano – l’unicità del giocatore. Lo voglio fare ancora, perché rimane bello e romantico, oltre che sempre più raro, esaltare il concetto della bandiera. Non è obbligatorio volerlo essere/diventare, non rende neppure automaticamente migliori, però quando succede arricchisce di una sorta di lieto fine l’intera narrazione. Come Kobe Bryant ai Lakers. Come Dirk Nowitzki ai Mavs. «Si contano sulle dita di una mano», si dice solitamente. Qui, però, non servono neppure tutte le dita.

Tim Duncan Spurs

10. L’abbraccio al pallone

L’ultimo lascito di Tim Duncan è in un’immagine, che in realtà un vero senso non ce l’ha, se non nell’essere banale gesto superstizioso. Prima del via di ogni partita Tim Duncan abbracciava il pallone, lo teneva stretto a sé, i gomiti larghi, la presa ferrea. Invece di una semplice routine, a me piace pensare che fosse proprio un abbraccio. Vero. Sincero. Di amore. Verso un gioco poi diventato professione, che ha sicuramente tanto amato e che ancora di più ha fatto amare – almeno a me. Per questo mi piace l’idea di ricambiare, con un abbraccio e un ringraziamento. Grazie Tim Duncan per 19 anni di inimitabile carriera. Ora puoi scomparire in pace.