Soldato Castán

Si è messo alle spalle il delicato intervento chirurgico, ora prova a rilanciarsi con la Samp: Leandro Castán e quella matta voglia di stare in campo.

Leandro Castan

Guarda i tifosi negli occhi, schiaccia febbrile le lettere sul touchscreen e invia parole di pace e speranza: «Me dispiace tanto». Leandro Castán da Silva è tutto in questa frase, chiosa di un lungo messaggio su Twitter scritto nel momento peggiore della sua carriera sportiva. È al quarto anno da giocatore della Roma e si è lasciato alle spalle un male che con il campo da calcio non c’entra niente; è solo vita: un cavernoma cerebrale lo ha costretto a un riposo forzato lungo un’intera stagione. Luciano Spalletti, nei primi giorni della sua seconda volta da romanista, lo vede in allenamento e lo manda in campo contro il Verona. Castán è disattento e disordinato. Esce dopo aver causato il rigore gialloblù, corre negli spogliatoi e si affida a Dio. A 29 anni non ha mai ceduto alla possibilità di diventare un precoce ex calciatore, perché giocare è un vizio di famiglia e in campo sa tracciare le diagonali con maestria, con un fisico possente che fa di lui un difensore duro, tenace e passionale. Per Roma ha rappresentato – nell’ordine – speranza, certezza e malinconia. Per Rudi Garcia è stato un talismano: nella squadra del dieci su dieci ci stava benissimo e quella bella stagione è stata anche la miglior annata di Castán.

Con il suo stop è incominciato il declino giallorosso e chi aveva fatto 85 punti in campionato grazie a una difesa granitica – tra le migliori d’Europa, seconda sola a quelle di Juventus, Paris Saint Germain e Bayern Monaco – incomincia a imbarcare goal, a perdere, a sgretolarsi: con il Bayern, con la Juventus, con il Barcellona. Il giorno del suo arrivo Leandro Castán valeva 5 milioni di euro; il primo luglio 2014 quella cifra andava moltiplicata quasi per tre. Oggi vola in prestito a Genova, sponda Sampdoria, ma se la Roma avesse avuto la voglia di rinunciare ai sogni e di cedere alla malinconia, ne sarebbero bastati sette di milioni per portarlo via per sempre.

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Leandro Castan entra in scivolata su Pawel Wszolek, durante Roma-Verona dello scorso 17 gennaio (Paolo Bruno/Getty Images)

Ha visto passeggiare sui campetti verdi di Trigoria quattro allenatori e mai nessuno che non abbia avuto per lui parole d’elogio. Anche il severo boemo, Zdenek Zeman, non ha rinunciato all’uomo nobile, mettendo questo giocatore di talento praticamente sempre al centro della difesa. Lì, nei due anni da titolare, Castán ha cambiato due compagni, spalla fedele e guida affidabile: prima Marquinhos, poi Mehdi Benatia. In pochi mesi è diventato un vero uomo-simbolo della Roma e la dirigenza italo-americana non ha avuto paura di far cassa vendendo Marquinhos nel 2013 al PSG e Benatia al Bayern Monaco nel 2014: «Tanto c’è Castán», si diceva. Proprio quell’estate, mentre il marocchino preparava le valigie diretto in Germania, Leandro si fa male negli Stati Uniti d’America. Robe da campo: i problemi muscolari lo tengono fermo fino al 13 settembre, quando parte titolare contro l’Empoli in Serie A per la sua prima partita stagionale. L’ultima del 2014-2015.

Mentre passa dal campo all’infermeria, entra in tackle la vita. Per settimane non si riesce a capire cosa abbia: soffre di vertigini e labirintite, sta male e non può scendere in campo. La Roma prolunga i silenzi sul suo recupero e alimenta i pettegolezzi sulla salute del brasiliano; fino a quando non è costretta a chiarire e scacciare per sempre le voci via via più insistenti di un tumore al cervello. È il 20 novembre 2014: Castán, si legge in un comunicato, ha «un’alterazione congenita vascolare nel peduncolo cerebellare medio posteriore sinistro, conosciuto con il nome di cavernoma». Non c’è alcuna «minaccia per la vita del calciatore», ma è necessario un intervento neurochirurgico per permettergli di «poter riprendere regolarmente l’attività sportiva agonistica». Castán prega Dio e mette il suo futuro nelle mani della scienza. In una manciata di settimane viene operato, uomini e tifosi possono tirar su un sospiro di sollievo 48 ore dopo l’intervento: «Il giocatore si è alzato in piedi e ha fatto qualche passo. Non sono presenti deficit neurologici: la prognosi è sciolta», dice il bollettino medico.

L’operazione non era l’unica via possibile, ma la sola rischiosa strada che gli avrebbe garantito la completa guarigione. «Dovevo dare l’esempio ai miei figli, non potevo aver paura», ha raccontato il giocatore al Tg1 pochi giorni dopo l’intervento. Rinunciare, del resto, avrebbe significato dire addio al calcio: trovare le parole per spiegare a Gianluca e Gabriel – all’epoca i suoi due soli bambini – il perché di una fine improvvisa sarebbe stato più difficile di ricovero, anestesia, sala operatoria, risveglio, medicine e cibo scarso. Protetto dalla «forza di Dio» e animato da un sogno chiamato «scudetto», quando viaggiava nel limbo tra un passato da atleta sano e un futuro da paziente guarito, Castán non ha mai avuto un dubbio: «Adesso sono più innamorato di questa città e di questa squadra».

Leandro Castan Roma
Rabbia, solo calcistica (Gabriel Bouys/AFP/Getty Images)

Era arrivato nella Capitale nell’estate del 2012 con un curriculum invidiabile, strappato al Corinthians dal tenace direttore sportivo giallorosso, Walter Sabatini: «La definizione di top player è inaccettabile. Perché – domandò sarcastico il ds a un’intera sala stampa – Piqué che ha disputato una finale di Champions League dovrebbe essere un top player e Castán che sta per disputare quella di Libertadores no?». La verità era nei numeri: quella Copa Castán l’aveva conquistata; Libertadores numero uno della storia corinthiana, vinta nella doppia sfida contro gli argentini del Boca Junior, dopo un pareggio alla Bombonera e una vittoria per due a zero in Brasile. In campo entrambe le squadre avevano schierato per dieci undicesimi calciatori del proprio paese – roba d’altri tempi per il calcio europeo – con Castán inamovibile paulistano: di quel torneo non aveva saltato nemmeno un minuto. La medaglia appesa al collo era un peso leggero da portare per l’allora 25enne che il giorno del trionfo aveva già deciso di lasciare il Brasile per atterrare in Italia: «Vado via – disse – con la sensazione di aver fatto il mio dovere. Siamo campioni della Libertadores e campioni del Brasileiro», conquistato otto mesi prima, solo poche ore dopo la morte dell’ideologo della Democracia Corinthiana, Sócrates.

A Roma si mette subito a fare i conti con la storia e sceglie un numero non banale per un brasiliano in giallorosso: il cinque di Paulo Roberto Falcao. In panchina c’è Zeman che ha il compito complicato di risollevare una squadra scossa dalla stagione deludente sotto la guida di Luis Enrique. Castán è solo uno dei tanti nuovi arrivi e parte subito tra i primi undici della lista, ma per un difensore è dura: «Col Corinthians – spiegò quell’anno in un’intervista a Il Romanista – giocavo con i quattro dietro schiacciati e poi via in contropiede. Qui giochiamo sulla linea di centrocampo: mi piace perché il difensore partecipa di più al gioco e penso che sia anche divertente per me, con tanti duelli uno contro uno». Ma di gol la Roma ne prende a vagonate: dalla prima di campionato contro il Catania fino all’ultima di Zeman in panchina (giocata il primo febbraio) sono 42. Castán salta cinque delle 23 partite del boemo ed è in panchina quando all’Olimpico va in scena quel film horror passato alla storia come Roma-Cagliari 2 a 4 – con l’incredibile autogol del portiere uruguaiano Mauro Goicoechea che costò l’esonero al tecnico.

Castan Roma Parma
DI testa (Filippo Monteforte/AFP/Getty Images)

Chiude la stagione con 30 presenze in Serie A e con il più mite Aurelio Andreazzoli gioca sempre, al netto di tre partite guardate in televisione per una distorsione al ginocchio. È in campo, da titolare e per novanta minuti, anche nel giorno più triste della recente storia romanista: il 26 maggio 2013 gli viene sfilata davanti agli occhi dalla Lazio la Coppa Italia; un trofeo che proprio allo scadere avrebbe potuto ridare un senso ad un intero anno trascorso male. Dialogo tra Mauri e Candreva, traversone da destra verso sinistra che taglia in due l’area della Roma e impatta sul piede di Lulic: è il 71esimo; Lobont è inerme e Castán impotente davanti al goal dell’uno a zero. Silenzio. Tristezza. Mestizia.

La Roma lancia i dadi e riparte dal via. La terza rivoluzione è guidata dal francese Garcia, Castán è un suo soldato. È la squadra dei record conquistati sulla carta, con la bacheca vuota per colpa di una Juventus famelica che vince la Serie A superando quota 100 punti. Secondo Daniele De Rossi, che all’Olimpico ne ha viste di ogni, sarebbe sbagliato giudicare quella stagione «con amarezza: è stata incredibile». Di fatto, la prima Roma di Garcia non si fermò al primato delle dieci vittorie nelle prime dieci giornate e nemmeno al record assoluto di punti in campionato, inchiodato a 82 dall’epoca del primo Spalletti. In quella squadra c’era qualcosa che funzionava meglio del resto ed era la difesa guidata da Castán e Benatia, due amici. Tra i meno battuti d’Europa, i giallorossi chiusero la stagione con 21 gare senza subire goal: un primato che resisteva da dieci anni, fissato nella storia romanista da Fabio Capello – che si fermò a 20 partite nel 2003-2004. Castán e Benatia giocarono in coppia 31 match in campionato; il brasiliano ne saltò solo due per squalifica e partì titolare trentasei volte. Un anno magico che fece dei due centrali romanisti componenti di diritto della top-11 di fine stagione.

Il miglior Castán visto a Roma, quello della stagione 2013/2014

Proprio quando ci sarebbe dovuta essere la consacrazione, la Champions League da giocare e una squadra già rodata da mettere in campo, la favola si interrompe. Benatia vola in Germania perché la Roma non può rinunciare a una plusvalenza milionaria. Arriva dalla Grecia un altro difensore promettente, Kostas Manolas, per giocare al fianco di Castán: i due sono insieme in campo solo per un tempo, il primo di Empoli-Roma, seconda di campionato. Negli spogliatoi Leandro chiede il cambio, non ce la fa. Il talismano di Garcia non c’è più, bloccato da una malattia avvolta nel mistero per mesi e svelata nella sua tragicità solo poche settimane prima dell’operazione neurochirurgica. La Roma sbanda spesso e imbarca goal, non è più la macchina-perfetta dell’anno precedente. La Caporetto è contro il Bayern Monaco: 1 a 7 all’Olimpico. Castán scalpita e soffre, davanti alla televisione e in tribuna. Mai in panchina né in campo per un anno. Mostra tenacia e passione genuina per il calcio con i post su Twitter e Instagram: molta fisioterapia, poca erba e tanti ricordi. Quando gli arriva la nuova divisa, quella che sancirà il suo rientro, non resiste: «Bella la nuova maglia, questa sarà indimenticabile per me, il ritorno sempre più vicino, #lc5 #grazieDio», scrive. Riprende ad allenarsi con la squadra nel precampionato del 2015, con fatica. Garcia lo fa giocare nella prima stagionale contro il Verona, ma da lì in poi le presenze saranno sporadiche e in tutta l’andata ne farà appena quattro: 315 minuti. Spalletti, dopo un intero girone, lo schiera titolare, ma va male: «Leandro – spiega il nuovo allenatore – deve ritrovare fiducia e la si ritrova solo giocando, trovandosi dentro le situazioni vere di partita».

Per non cedere alla malinconia e non portare rimpianti nel suo futuro da adulto, Castán sceglie di restare a Roma quando molti nella sessione di mercato invernale lo vedrebbero bene in Brasile. Continua a correre e a inseguire la fede, ma in campo fino a fine stagione non entrerà mai più: in totale saranno 5 le presenze e 380 i minuti giocati. Troppo poco per chi aveva conquistato la fama di talismano. «In ogni cosa che faccio nel mio lavoro, così come nella vita privata, io sento Dio, sento che mi aiuta. Che c’è. In qualsiasi esperienza della mia vita», aveva detto in passato a Il Romanista. Nella sua storia, la religione si intreccia con il calcio per una questione di educazione: prega e corre da quando è bambino, è un affare di famiglia che lega suo padre, Leandro e suo fratello Luciano: «Tutti difensori».

Castan Roma
Lo scorso agosto, in amichevole contro lo Sporting Lisbona (Patricia De Melo Moreira/AFP/Getty Images)

Umile e schivo, Castán rinuncerebbe volentieri alla fama e ai riflettori, se solo potesse. Per ritrovare il suo unico goal con la Roma bisogna riavvolgere il nastro ai tempi di Zeman, dicembre 2012. In campo ci sono Roma e Fiorentina, è il settimo minuto con il risultato ancora sullo zero a zero. Francesco Totti calcia una punizione da molto lontano: è un traversone sul secondo palo, Panagiotis Tachtsidis colpisce di testa verso la porta. Proprio sulla linea l’ultimo colpetto è di Castán: il greco esulta, mostra una scritta fatta a mano e nascosta sotto la maglia giallorossa. Leandro sa che il tocco più importante è il suo, ma non disturba il compagno e festeggia da solo accovacciandosi sull’erba. Totti lo vede e gli dà il cinque. In silenzio, lontano dagli altri. Ora vola verso la Samp per ritornare a essere un calciatore da 40 partite a stagione e scrivere pagine nuove di sport; lontano dalla Capitale che lo ha amato e da Totti che lo ha protetto. Con il dieci della Roma non giocherà mai più nella vita e chissà i racconti sull’amore sincero per il calcio e sulle belle storie di pallone liberando l’armadietto di Trigoria: «Fiquem com Deus, Castán».