Quel che resta del Tour

Numeri, protagonisti, vincitori e sconfitti della 103a edizione del Tour de France. Tra storie e grandi addii dalla Grande Boucle appena conclusasi.

Prologo

Non sarà stato un percorso laterale né una fluida divinità, ma il grande tema del Tour de France, a sentire la maggior parte di commentatori, tifosi e appassionati, è stata la noia. Noia normale, noia mortale, imposta dal “passo fisso” del Team Sky e accettata senza troppe ribellioni da quasi tutti gli altri uomini di classifica. Il Tour 2016 è il figlio di un ciclismo dai divari economici sempre più ampi (la Sky da sola costa più di un quarto del gruppo), dove chi impone il proprio gioco trova un campo lasciato libero dagli avversari. Vuoi per mancanza di gambe (forse), vuoi per mancanza di inventiva (sicuramente), vuoi per un percorso che offriva numerosi passaggi per sganciare la bomba, ma limitandoli in chilometraggi ridotti e tappe consecutive che finivano sempre per intimorire. C’è un problema da risolvere, insomma, e le soluzioni possibili sono tante: ridurre i corridori, togliergli le radioline, aumentare gli abbuoni, moltiplicare i traguardi volanti, allungare le tappe e le cronometro…

PARIS, FRANCE - JULY 24: Chris Froome of Great Britain and Team Sky (yellow jersey) links arms wit Wout Poels of the Netherlands and Team Sky and Luke Rowe of Great Britain and Team Sky during stage twenty one of the 2016 Le Tour de France, from Chantilly to Paris Champs-Elysees on July 24, 2016 in Paris, France. (Photo by Chris Graythen/Getty Images)
Chris Froome in maglia gialla del Team Sky abbracciato ai compagni di squadra Wout Poels e Luke Rowe durante l’ultima tappa del Tour 2016 (Chris Graythen/Getty Images)

Ogni ipotesi ha il suo senso. Quello che non ha senso è far finta di nulla. Perché il Tour non è mai un “nulla”. A cominciare dal positivo che affiora in ogni occasione, e che andrebbe inseguito a testa bassa: il sorprendente Froome, il coraggioso Bardet, i bellissimi attaccanti, i velocisti scatenati, Peter Sagan (sì, lui fa categoria a sé). Loro hanno saputo offrire le emozioni che chiediamo alla Grande Boucle, di loro Bidon – Ciclismo allo stato liquido sta per parlarvi. Per il resto, il segreto è sempre quello: allargare lo sguardo oltre la corsa, saziarsi della passione che, lungo le strade del Tour, non si annoia mai. Perché è proprio a bordo strada che capisci il senso dell’attesa di un istante che arriva e se ne va, e pure quello di certi pomeriggi in cui quell’istante sembra proprio non arrivare mai. (Filippo Cauz)

 

Chris Froome – Una somma di piccole cose

Mancano cinque tappe alla fine del Tour e Chris Froome dichiara che, nel corso dell’imminente giorno di riposo, potrebbe addirittura concedersi una pausa caffè. L’indomani Simon Geschke della Giant-Alpecin si fa fotografare su Twitter con una birra in mano, scrive ironicamente «pausa caffè del giorno di riposo» e menziona nel tweet lo stesso Froome. Il britannico, dopo appena un quarto d’ora, risponde: «Penso di essere nella squadra sbagliata», scrive, allegando una faccina che piange dal ridere.

Chris Froome non era affatto nella squadra sbagliata. In una potenziale classifica delle ragioni del suo terzo successo francese, l’apporto del Team Sky figurerebbe al primo posto. La solidità degli inglesi rende inattaccabile il capitano: scattare mentre Wout Poels e Mikel Nieve scandiscono il ritmo in testa al gruppo significa rimbalzare indietro – e poi staccarsi – molto presto. L’unica, vera pratica da sbrigare in questo Tour, per Froome, è apparsa da subito la conquista della maglia gialla; la successiva difesa della stessa non sarebbe stata un problema. Il problema (per gli avversari) è che nella pianificazione dell’assalto al primato la filosofia del team Sky (i famosi “marginal gains”) e le caratteristiche caratteriali del kenyano bianco (ossessivo nella ricerca della perfezione) stanno producendo frutti via via più inarrivabili. Froome migliora esattamente dove deve migliorare, e lo fa sorprendendo. Sembra insicuro in discesa? Ecco che va a prendersi la maglia gialla staccando tutti venendo giù dal Peyresourde. Storicamente gli mancano un po’ di forze durante la terza settimana di corsa? Ecco che modifica la preparazione in modo da mantenere un rendimento più costante. Una sorta di machine learning, direbbe qualcuno.

PARIS, FRANCE - JULY 24: Chris Froome of Great Britain and Team Sky celebrates victory with his family as he is surrounded by the media during stage twenty one of the 2016 Le Tour de France, from Chantilly to Paris Champs-Elysees on July 24, 2016 in Paris, France. (Photo by Chris Graythen/Getty Images)
Chris Froome celebra la vittoria del Tour 2016 con la propria famiglia (Chris Graythen/Getty Images)

 

A tutto questo bisogna sommare la superiorità anche nei confronti individuali, quando cioè l’apporto della squadra conta meno: Froome in salita non si stacca mai, a cronometro è più forte di tutti e, da quest’anno, appare pure più lesto nelle insidiose tappe ventilate. Le speranze dei rivali, irretiti da cotanta dominazione, possono allora essere riposte esclusivamente negli imprevisti connaturati a una corsa in bicicletta. Ma la notizia, qui, è che Froome ha superato brillantemente anche un episodio incredibile come quello del Mont Ventoux e una caduta rovinosa come quella in discesa dalla Côte de Domancy.

Non resta che mettere in discussione la “pasta” di cui sono fatti i suoi avversari. Ebbene, assenti per motivi diversi i migliori Nibali e Contador, sono apparsi quasi tutti sottotono o, peggio, remissivi. Il quadro complessivo racconta allora di un Froome che vince i suoi Tour de France con facilità sempre crescente. L’elemento nuovo apportato dal Tour 2016  è che l’ex Mr. Robot sta riuscendo, con fantasia e forza di volontà, a far passare l’esigente pubblico del ciclismo da un tiepido rispetto a una ben più calda ammirazione nei suoi confronti. L’attacco più deciso del suo terzo Tour, Chris Froome l’ha sferrato sui Campi Elisi, con un discorso da tiranno illuminato: “Vive le Tour, Vive la France!”, ha concluso in mezzo ad applausi sempre più convinti. (Leonardo Piccione)

 

Romain Bardet – La nouvelle génération

È stufo Romain Bardet. Nauseato dal cliché dei ciclisti buoni solo a spingere sui pedali, con le gambe rasate e l’abbronzatura tipica. I ciclisti, sostiene, sono profondamente umani, hanno i loro colpi al cuore, una sensibilità, una coscienza politica. Anche per questo Romain Bardet attacca sulla discesa dalla Montée de Bisanne, sotto la pioggia, senza pensarci troppo. «Follia», dice lui. E invece è istinto, e molte volte è più veloce della trasmissione sinaptica. Prende la decisione di allungare con la leggerezza di una nuvola. Quella stessa evanescenza lo trascina sulle rampe del Monte Bianco, verso la vittoria di tappa e la seconda posizione in classifica. «Folle», lo aveva ripetuto anche l’anno scorso a Saint Jean de Maurienne, tappa vinta dopo un attacco non dissimile nella discesa del Col du Glandon.

France's Romain Bardet rides during the 146 km nineteenth stage of the 103rd edition of the Tour de France cycling race on July 22, 2016 between Albertville and Saint-Gervais Mont Blanc, French Alps. / AFP / JEFF PACHOUD (Photo credit should read JEFF PACHOUD/AFP/Getty Images)
Romain Bardet durante la diciannovesima tappa del Tour de France da Albertville a Saint-Gervais Mont Blanc (Jeff Pachoud/Afp/Getty Images)

La pazzia di Romain Bardet è incapacità di adattamento, è la condizione di chi non si sente a proprio agio in un gruppo che aspetta gli ultimi chilometri per regolare i conti. Bardet è la prova che Giove ha infuso nell’uomo molta più passione che ragione: pressappoco nella proporzione di ventiquattro a uno. La crescita sportiva di Bardet è continua ricerca della sensazione e insieme ripida scalata verso il successo. Negli ultimi 4 anni ha ottenuto 15°, 6°, 9° e 2° posto. È convinto di appartenere ad una nuova generazione di ciclisti che si sta facendo strada. Dobbiamo sperarci per davvero, e custodirlo come una bottiglia di Clos des Goisses. (Riccardo Spinelli)

 

Nairo Quintana – Il colore dei sogni

I colori dei sogni sono i colori della realtà filtrati da lenti polarizzate: più nitidi, più profondi, più saturi. È una visione che Nairo Quintana conosce bene, percepita sotto lo specchio giallo con il quale ha nascosto, per tutto il Tour de France, sguardi ed emozioni. Occhi nel quale brillano iridi lucenti come gli smeraldi che si estraggono nelle miniere vicino a Boyacá. La capacità di non far trasparire nulla ha trasformato Nairo Quintana in una sfinge, una maschera impassibile, ambigua, indecifrabile. Il “Chino” ha assunto le sembianze, pedalando, di un Godot in bicicletta. Tutti a chiedersi quando attacca e lui sempre a ruota, a rimandare senza attaccare mai. Come nell’opera Beckett, il finale è sempre lo stesso, un inca che entra in scena e ripete: «Mañana, mañana». Quintana oggi non attaccherà, ma di sicuro domani. 

Il sueño amarillo potrebbe diventare una pièce con un protagonista assente, l’attesa snervante di un colpo di pedale più vigoroso, di un sorriso più largo, di un bagliore di felicità su un viso sempre più scavato. «C’è un predatore dentro di me», aveva detto prima dell’inizio del Tour. È arrivato terzo, senza mai impensierire Froome, senza mai lasciare il segno. Un’allergia, forse. Quello che deve fare ora Nairo Quintana è mettersi a cercare, come un cuáquero, la lucentezza smarrita dei suoi occhi e del suo spirito. A noi invece tocca interrogarci su cosa rappresenti per noi Nairo Quintana, e sul perché ci aspettavamo così tanto da lui. D’altronde nessuno ha ancora capito cosa aspettassero esattamente Didi e Gogo, sotto quell’albero in una strada di campagna. (Riccardo Spinelli)

BOURG-SAINT-ANDEOL, FRANCE - JULY 15: Nairo Alexander Quintana of Colombia riding for Movistar Team rides during the stage thirteen individual time trial, a 37.5km stage from Bourg-Saint-Andéol to La Caverne du Pont-d'Arc on July 15, 2016 in Bourg-Saint-Andeol, France. (Photo by Chris Graythen/Getty Images)
Nairo Quintana durante la cronometro individuale da Bourg-Saint-Andéol a La Caverne du Pont-d’Arc (Chris Graythen/Getty Images)

 

Peter Sagan – Il bambino d’oro (e di verde)

«Quello sarà come un dio, e vedrà eroi mescolati agli dei, e lui stesso sarà visto in mezzo a loro».

Il Tour de France di Peter Sagan non è stata una corsa come le altre, è stata una rivelazione. Come il puer cantato da Virgilio nella quarta ecloga delle Bucoliche, Sagan ha portato sulle strade francesi una nuova età dell’oro fatta di spighe flessuose e uva rosseggiante. Non sono sufficienti i dati per raccontare questa nuova era, non bastano le 3 vittorie e i 5 podi, non basta la quinta maillot vert consecutiva, non basta l’ammontare dei suoi anni, appena 26. Si correrebbe il rischio di normalizzare un’epifania unica e inaspettata. Sagan ha vinto davanti ad Alaphilippe sull’arrivo dentato di Cherbourg-en-Cotentin, ha battuto il vento e Chris Froome a Montpellier, ha omaggiato Cancellara sul traguardo di Berna; ha messo le sue ruote davanti a giovani speranze, grandi campioni e vecchie glorie; ha battuto scalatori, sprinter, uomini di classifica e corridori da corse di un giorno.

Sagan è onnivoro, mangia tutto quello che incontra, come fanno i bambini, per il gusto della scoperta, per divertirsi più che per sfamarsi, senza la voracità propria degli adulti. Le sue vittorie sono frutto di un’ingordigia che non diventa mai arroganza né voglia di schiacciare. Anche quando porta le borracce ai compagni, quando impenna sul traguardo in alta montagna o quando tira il gruppetto dei fuggitivi per avvantaggiare un compagno, Sagan non perde la voglia di abbuffarsi: semplicemente la declina verso altre finalità che non siano la vittoria. Perché per lui la vittoria non è un’ ossessione, prima o poi arriverà. Così, con la sua voce un po’ nasale, Sagan spesso si ritrova candidamente ad ammettere che «I’m very surprised that I won». Pensare di vincere è per i corridori normali, Sagan vince e basta. Con un paio di millenni di ritardo, il puer di Virgilio è arrivato: è slovacco e pedala tra noi. (Francesco Bozzi) 

Slovakia's Peter Sagan, wearing the best sprinter's green jersey, celebrates as he crosses the finish line at the end of the 162,5 km eleventh stage of the 103rd edition of the Tour de France cycling race on July 13, 2016 between Carcassonne and Montpellier. / AFP / LIONEL BONAVENTURE (Photo credit should read LIONEL BONAVENTURE/AFP/Getty Images)
Peter Sagan, con indosso la maglia verde di miglior sprinter del Tour, durante l’undicesima tappa del Tour de France (Lionel Bonaventure/Afp/Getty Images)

 

Fabio Aru – Granito eroso dalla pioggia

Sulla sua bicicletta ci sono quattro teste divise da una croce rossa, a Saint Gervais i quattro mori sventolano nel cielo scuro. I sardi giunti lassù sono tanti, attratti da una cronometro sontuosa: Fabio Aru cerca di essere come la sua terra, fiera ed orgogliosa, fuori dal tempo e dalla storia. Il suo è un pedalare nuragico. Digrigna i denti, modella il suo volto in una sequenza di smorfie, attacca appena può, per guadagnare anche solo un metro.

Tanti sono i metri che invece gli mancano il giorno dopo, quando va in crisi sulle rampe del Col de Joux Plane, salita brutale che una volta mandò fuori giri pure Armstrong. È nell’estremo atto di vincere la fatica che proviamo la sensazione autentica del vivere, e quella certo non si misura in watt. È una crisi di fame, è il colpo del pedale che svanisce quando manca ancora troppo alla vetta. Ti dice chi sei. I progetti di podio di Fabio Aru si sgretolano sul primo tornante dell’ultima salita del Tour. Granito eroso dalla pioggia, anche il paesaggio della Sardegna è stato modellato così. Fabio Aru ha 26 anni, due podi al Giro e una vittoria alla Vuelta. Ha tempo e talento. Sul Col de Joux Plane deve aver capito cosa gli manca. (Riccardo Spinelli)

Italy's Fabio Aru crosses the finish line at the end of the 146 km nineteenth stage of the 103rd edition of the Tour de France cycling race on July 22, 2016 between Albertville and Saint-Gervais Mont Blanc, French Alps. / AFP / LIONEL BONAVENTURE (Photo credit should read LIONEL BONAVENTURE/AFP/Getty Images)
Fabio Aru taglia il traguardo della diciannovesima tappa del Tour de France, da Albertville a Saint-Gervais Mont Blanc (Lionel Bonaventure/Afp/Getty Images)

Mark Cavendish – Il secondo volo della palla di cannone

Uno che è sempre stato chiamato Cannonball dovrebbe averlo ben presente che si vive una volta sola. Il volo della palla può essere lunghissimo, fino a un galeone nemico dall’altra parte dell’oceano e anche oltre. Poi finisce. Il volo della palla di cannone del ciclismo mondiale è stato lungo ed entusiasmante, veloce come nessun altro, esplosivo più di chiunque quando il traguardo si avvicinava. Il volo di Mark Cavendish si è arricchito di tappe vinte in tutti i grandi giri, di una Milano-Sanremo all’esordio, di una maglia iridata su strada e svariate su pista. Una parabola entusiasmante, che sembrava ormai conclusa, superata da armi più giovani e luccicanti.

Eppure anche le palle di cannone possono avere una seconda vita: qualche volta i galeoni restano a galla, arrivano a riva e fanno la conta dei danni. Recuperano quel che si può, poi risalpano. I galeoni del ciclismo sono i velodromi, ed è da lì che Cannonball è partito per il suo secondo volo. L’inverno in pista significa gioia; l’estate in pista si chiamerà Rio. In mezzo, un Tour che sta in equilibrio tra contesa e preparazione, e si risolve in trionfo: quattro tappe vinte davanti ai rivali migliori, la prima maglia gialla in carriera, una miccia accesa verso un nuovo volo. La palla di cannone è tornata ad essere arma dannosissima. (Filippo Cauz)

VILLARS-LES-DOMBES PARC DES OISEAUX, FRANCE - JULY 16: Mark Cavendish of Great Britain riding for Team Dimension Data sprints to win his fourth stage during stage fourteen, a 208.5km stage from Montélimar to Villars-les-Dombes Parc des Oiseaux at on July 16, 2016 in Montelimar, France. (Photo by Chris Graythen/Getty Images)
Mark Cavendish del Team Dimension Data vince la sua quarta tappa al Tour durante la 14a tappa da Montélimar a Villars-les-Dombes Parc des Oiseaux (Chris Graythen/Getty Images)


Gli attaccanti – Un coup de panache

Avete presente il naturale apprezzamento del pubblico nei confronti degli atleti mossi da un idealismo talmente puro da rendere secondario l’effettiva riuscita dell’impresa sportiva? Ecco, nel ciclismo esiste un’espressione precisa per questo atteggiamento: un “coup de panache” (alla lettera “colpo di pennacchio”, deriva da un passaggio del Cyrano de Bergerac) è un’azione tutta coraggio che produce certamente tanta ammirazione; il risultato positivo, solo qualche volta. Il modo migliore per mostrare panache, al Tour de France, è quello di lanciarsi in fughe lunghe e disperate. I migliori interpreti di questa specialità, nell’edizione 2016, sono stati Jarlinson Pantano, colombiano vivacissimo, e Julian Alaphilippe, francesino onnipresente. Se il primo si è “macchiato” con una bella vittoria di tappa (a Culoz), il secondo è riuscito a fallire in tutti i tentativi di attacco in cui si è prodigato, senza che questo costituisse un malus per la sua reputazione complessiva.

Meglio di lui, a livello di panache, ha fatto solo Bauke Mollema. Il capitano della Trek-Segafredo, dopo essere stato irrimediabilmente colpito dalla maledizione che ormai colpisce ogni olandese in odore di podio in un grande giro (anche Tom Dumoulin alla Vuelta 2015 e Steven Kruijswijk al Giro 2016 erano crollati durante gli ultimissimi giorni di corsa), nella tappa del Joux Plane è riuscito, nell’ordine, a: staccarsi sulla penultima salita; recuperare tutto in discesa; attaccare sulla salita successiva; farsi staccare di nuovo; uscire definitivamente dalla top 10 della classifica generale. Intervistato, ha detto di essere stato ispirato nelle sue gesta dai racconti di Dino Buzzati sulle sfide tra Coppi e Bartali. Quel panache, Bauke! (Leonardo Piccione)

 

Colombia's Jarlinson Pantano (L) and France's Julian Alaphilippe ride in a breakaway during the 146,5 km twentieth stage of the 103rd edition of the Tour de France cycling race on July 23, 2016 between Megeve and Morzine-Avoriaz, French Alps. / AFP / KENZO TRIBOUILLARD (Photo credit should read KENZO TRIBOUILLARD/AFP/Getty Images)
Jarlinson Pantano e Julian Alaphilippe durante la ventesima tappa del Tour de France da Megeve a Morzine-Avoriaz (Kenzo Treibouillard/Afp/Getty Images)

 

Gli addii – Il sigaro e la locomotiva

Joaquim “Purito” Rodriguez ha 37 anni e durante il primo giorno di riposo ha pianto. Con il volto solcato dalle lacrime, ha annunciato il suo ritiro come di solito si confessa un crimine. Fabian Cancellara ha 35 anni e quelle stesse lacrime le aveva versate a inizio anno e, forse, le ha spese ancora entrando nella sua Berna insieme al gruppo al termine della sedicesima tappa. Due ritiri, uguali e opposti. Rodriguez è stato il corridore che poteva essere: un atleta scaltro, lucido e vincente; Cancellara quello che doveva essere: un atleta bellissimo, coraggioso e vincente.

Nel 2001 Rodriguez era uno stagista alla Once di Beloki, Sastre e Olano, e decise durante un allenamento di staccare i suoi titolati compagni fingendo di portarsi un sigaro alla bocca e fumarlo. Nel 2001 Cancellara coglieva al Giro di Rodi la prima vittoria da professionista. Quell’anno Rodriguez diventò Purito, un piccolo sigaro, uno di quelli compatti, dall’aroma pungente e ostinato, non della migliore qualità, ma che non si fa dimenticare. Sempre quell’anno, Cancellara mise in moto la sua locomotiva, che alla fine di quest’anno spegnerà la propria caldaia. Dopotutto un sigaro e una locomotiva non sono così diversi, a entrambi serve il fuoco per accendersi. (Francesco Bozzi)

Switzerland's Fabian Cancellara (L) rides during the 190,5 km sixth stage of the 103rd edition of the Tour de France cycling race on July 7, 2016 between Arpajon-sur-Cere and Montauban. / AFP / LIONEL BONAVENTURE (Photo credit should read LIONEL BONAVENTURE/AFP/Getty Images)
Fabian Cancellara in gruppo durante la tappa del Tour de France che da Arpajon-sur-Cere porta a Montauban (Lionel Bonaventure/Afp/Getty Images)

I numeri – Tour de nombres

In 174. Mai così tanti. È il numero record di corridori che il Tour ha portato quest’anno fino ai Campi Elisi. Dopo il 2013 e 2015, Froome si è vestito di giallo per la terza volta, la seconda di fila: l’ultimo a vincere almeno due edizioni consecutive era stato Miguel Indurain, Re dal 1991 al 1995. I britannici che vincono la Boucle sono un’idea recente. Il primo nella storia è stato Bradley Wiggins (2012), che ha inaugurato il dominio Sky interrotto solo dall’impresa Nibali (2014). La formazione di Sir Dave Brailsford, al suo esordio nel 2010, ha vinto quattro delle ultime sei edizioni.

Chris Froome, 31 anni, sta scrivendo una notevole pagina di ciclismo. Solo in tre vantano altrettante edizioni vinte della corsa: Greg LeMond, Louison Bobet e Philippe Thys. Il record di tappe vinte, invece, è neanche a dirlo di Eddy Merckx (34); Cavendish, con quattro frazioni vinte in questa edizione, si è portato ad altrettante lunghezze dalla storia, e ora insegue a quota 30. Chi invece insegue dalla distanza è Sam Bennett, 174esimo e ultimo in classifica generale a fine Tour: l’irlandese ha impiegato 5h17’14” in più di Froome.  Caso a parte – e che caso – è quello di Peter Sagan. In questa edizione il campione del mondo ha vinto tre tappe, ma, soprattutto, si è aggiudicato la maglia verde per la quinta volta di fila. Con 470 punti lo slovacco ha battuto il record di Sean Kelly (anno 1985) e ne ha messo nel mirino un altro, quello di Erik Zabel, maglia verde per sei volte consecutive dal 1996 al 2001.

MEGEVE, FRANCE - JULY 23: Supporters look on as riders prepare to start stage twenty of the 2016 Le Tour de France, from Megeve to Morzine on July 23, 2016 in Megeve, France. (Photo by Chris Graythen/Getty Images)
Gli atleti in attesa della partenza della ventesima tappa del Tour de France, da Megeve a Morzine (Chris Graythen/Getty Images)

Nella storia del Tour il più longevo è Jens Voigt, in attività dal 1997 al 2014, che ha partecipato 17 volte (completandole tutte). Nella top 50 c’è un solo azzurro, Matteo Tosatto, che di Tour in tasca ne ha 12 (e di grandi giri 33, altro record). Con i suoi 42 anni e 71 giorni, Matteo è stato anche il più vecchio in questa Boucle; il più giovane è stato invece il norvegese Holst Sondre Enger, 22 anni e 219 giorni: a Parigi sono arrivati entrambi. A proposito: ai Campi Elisi è arrivato anche l’inesauribile Adam Hansen. L’australiano ha chiuso il suo 15esimo grande giro consecutivo: 312 tappe senza ritiri. Naturalmente record. (Eugenio D’Alessio)