La rinascita di Medellín

C'è l'Atlético, che può vincere la sua seconda Libertadores, dopo la prima "macchiata" da Escobar, e c'è una città che continua a crescere.

«Soy futbolista, no conocía la ley sobre los secuestros», «sono un calciatore, non conoscevo la legge sui sequestri». È il 1993 e René Higuita è da poco rientrato in patria dopo la sfortunata esperienza europea al Real Valladolid. Il pittoresco portiere dell’Atlético Nacional di Medellín e della Nazionale colombiana è accusato di aver taciuto alla polizia il ruolo di mediatore svolto nella liberazione della figlia di Luis Carlos Molina Yepes. Un sequestro ordinato dal signore della droga Pablo Escobar per punire il tradimento dell’ex amico.

Non è la prima volta che l’estremo difensore dai lunghi capelli ricci viene accostato agli ambienti dei narcos: già due anni prima aveva fatto molto discutere la sua visita alla Catedral, la famigerata prigione di Medellín in cui si era auto-incarcerato Escobar. «È un mio amico», si era difeso Higuita. Questa volta però quella che el Loco considera semplice ignorantia legis per la polizia si chiama favoreggiamento in sequestro di persona. L’inventore dello scorpione viene condannato a sei mesi. Una detenzione che gli costerà l’esclusione dalla lista dei convocati per i Mondiali di Usa ‘94.

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Higuita nel 2008, a Medellín in un’amichevole per l’addio di Aristiz (Raul Arboleda/Afp/Getty Images)

Sono tanti, in quella lista, i suoi compagni di club all’Atlético Nacional. Fra questi, il difensore Andrés Escobar che, purtroppo, con il re del narcotraffico non condivide solo il cognome: punito a colpi di mitragliatrice per un autogol ai Mondiali americani, la sua sarà una fine addirittura più tragica di quella del suo scomodo omonimo. D’altronde da qualche anno in Colombia le morti violente sono tristemente all’ordine del giorno. Nella sola Medellín tra il 1987 e il 2002 si registrano in media diecimila omicidi l’anno. Nel 1991, l’anno in cui Escobar si consegna alle autorità, le morti violente raggiungono la cifra record di 15 mila.

Poliziotti, magistrati, politici, collaboratori di giustizia ma anche vittime che con quella guerra non c’entrano nulla. È uno scontro che vede contrapposto il governo colombiano del liberale César Gaviria ai narcotrafficanti del cartello di Medellín, l’associazione che tra gli anni ’80 e ’90 monopolizza il traffico di cocaina verso gli Stati Uniti, e che proprio nel calcio trova uno strumento perfetto per riciclare le tonnellate di denaro a disposizione. E, insieme, per coronare i propri sogni di gloria.

La tv colombiana, nel september 1989 (Carlos Lema/Afp/Getty Images)
La tv colombiana, nel settembre 1989 (Carlos Lema/Afp/Getty Images)

 

Oltre 50 impianti costruiti nei barrios meno fortunati, centinaia di tornei organizzati per i ragazzi più poveri della città e soprattutto fiumi di dollari che vanno a finanziare i club professionistici di Medellín. Su tutti proprio l’Atlético Nacional, di cui Pablo è un grande tifoso. Nella seconda metà degli anni Ottanta, quando la rivista Forbes piazza Escobar al settimo posto tra gli uomini più ricchi del mondo, il calcio colombiano conosce un impulso senza precedenti. E con i soldi nel fútbol tricolor arriva anche la violenza: a farne le spese il 15 novembre 1989 è l’arbitro Álvaro Ortega, raggiunto dai sicari del capo dopo una sconfitta dell’Atlético contro l’América di Cali, la squadra del suo rivale in affari Gilberto Rodríguez Orejuela. Normale amministrazione per la Colombia di fine anni Ottanta.

L’89 però è anche l’anno del primo storico successo dei biancoverdi nella Copa Libertadores, un trofeo fino ad allora inarrivabile per i club colombiani. E tutti colombiani sono gli undici che scendono in campo nella doppia finale contro l’Olimpia di Asunción: 2-0 per i paraguaiani all’andata, 2-0 per l’Atlético nel ritorno in programma una settimana dopo a Medellín. Il trofeo viene così assegnato ai rigori. Nel solco della tradizione sudamericana del portiere-goleador, il primo rigore per l’Olimpia lo tira l’estremo difensore, l’uruguagio Hugo Almeida: facile la parata del collega Higuita che in quella notte si supera parando quattro dei nove rigori calciati dai paraguaiani e segnando il proprio.

«Colombia, mi patria querida»: la serie di rigori che portarono a Medellín la prima Libertadores

Miguel Ángel Borja, classe ’93, quella finale non la ricorda, per ovvi motivi anagrafici. Eppre, con i quattro goal segnati nelle semifinali di quest’anno, il 23enne centravanti ha riportato l’Atlético in finale a 21 anni dall’ultima volta. Doppietta al “Morumbi” di São Paulo all’esordio assoluto in biancoverde e di nuovo doppietta nel ritorno in casa: in appena un mese l’attaccante colombiano è riuscito a conquistarsi un posto nel cuore dei tifosi, oscurando nel doppio confronto la stella dell’ex-Boca Jonathan Calleri. La sua finora era stata una carriera da girovago: mai più di una stagione nello stesso club; tra queste anche una in Italia.

Nel nostro campionato otto presenze incolori e per giunta tutte da subentrante con la maglia del Livorno nella catastrofica stagione 2013–14, che vide i labronici chiudere all’ultimo posto in Serie A. Un’esperienza decisamente da dimenticare quella in amaranto, conclusasi lo scorso gennaio dopo un doppio prestito tra Argentina e Colombia. Ora a Medellín per Borja la possibilità di consacrarsi. L’inizio è più che promettente. Tra lui e la gloria l’Independiente del Valle che ha fermato i biancoverdi sull’1-1 nella finale d’andata. Gli ecuatoriani, all’esordio assoluto nella fase a eliminazione diretta della Libertadores, sono riusciti a eliminare il River Plate campione in carica agli ottavi e il Boca Juniors di Carlos Tévez in semifinale.

Miguel Borja dopo aver segnato contro il San Paolo (Raul Arboleda/Afp/Getty Images)
Miguel Borja dopo aver segnato contro il San Paolo (Raul Arboleda/Afp/Getty Images)

 

Così, proprio nell’anno in cui il mondo si appassiona alle vicende dei narcos raccontate dall’omonima serie tv americana, l’Atlético Nacional tenta di archiviare quegli anni bui anche laddove bui non erano stati affatto: nel fútbol. Da quel decennio di sangue e successi calcistici, Medellín ha cambiato pelle. Nel 2013 il Wall Street Journal e l’Urban Land Insitute l’hanno votata come “città più innovativa del mondo” e solo qualche giorno fa la città ha ricevuto il premio Lee Kuan Yew, una sorta di Nobel dell’urbanistica che omaggia la capacità di “creare comunità urbane vibranti, abitabili e sostenibili”.

Della rinascita della capitale del narcotraffico si era occupato anche l’Economist: «Fino a pochi anni fa» scriveva nel 2014 il settimanale britannico, «nessun estraneo avrebbe osato mettere piede in Comuna 13, un tempo il quartiere più pericoloso di Medellín. Ora le agenzie di viaggio offrono tour per osservare i tanti murales del quartiere o per risalire sulla lunga scala mobile i ripidi crinali della valle dove si trova la città». Una ristrutturazione urbana “redistributiva”, che gli urbanisti chiamano “pianificazione sociale”. Intendiamoci: la seconda città della Colombia resta profondamente spaccata in due tra el Poblado e la Comuna popular, e un cittadino su cinque continua a vivere sotto la soglia di povertà. Un dato comunque migliore di tutte le altre aree metropolitane del Paese.

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Il “Metrocable” di Medellín in una fotografia del 2013 (Fredy Amariles Garcia/Afp/Getty Images)

Dalle mazzette di denaro che Escobar distribuiva in mezzo alla strada nel tentativo di passare alla storia come il Robin Hood colombiano, si è faticosamente passati a una politica di progressiva inclusione dei quartieri più disagiati. Un processo che passa dalla costruzione di scale mobili che collegano i pendii disseminati di baraccopoli al centro della valle e dalle centinaia di cabinovie che ogni giorno portano gli abitanti delle comunas in città, annullando le distanze fisicamente e non solo. Il Metrocable, inaugurato nel 2004, è stato replicato in molte città del Sudamerica caratterizzate dalla stessa conformazione: su tutte La Paz, Rio de Janeiro, Caracas e Lima. Lungo tutto il percorso, poi, biblioteche, librerie e centri culturali: insieme al fiorire di parchi, il simbolo più rappresentativo di quest’opera di rilancio.

Anche la lotta alla droga, condotta senza tentennamenti e ambiguità da parte delle autorità, sta producendo dei risultati. A maggio proprio in un centro commerciale di Medellín  è stato arrestato el Caracol Gerson Gálvez, il “Chapo” peruviano, considerato il nuovo signore sudamericano della droga. Di certo, il capoluogo del dipartimento di Antioquia non detiene più la poco invidiabile palma di città meno sicura del continente: nel 2015 gli omicidi sono stati 733. Tanti in assoluto, ma un successo se paragonati alle svariate migliaia di morti degli anni della guerra dei narcos.

Colombia's Atletico Nacional supporters cheer for their team during the Copa Libertadores 2016 football match at the Atanasio Girardot stadium in Medellin, Colombia on May 19, 2016. / AFP / LUIS ACOSTA (Photo credit should read LUIS ACOSTA/AFP/Getty Images)
(Luis Acosta/Afp/Getty Images)

 

 

«Quiero volver a ser campeón del continente», recitava uno striscione de Los del Sur, il settore dei tifosi più caldi dell’Atlético, in occasione della semifinale di ritorno con il São Paulo. La squadra è ottima: il suo percorso in Coppa ha impressionato tutti ed erano biancoverdi 5 dei 23 convocati da Pékerman per la Copa América Centenario: nessun altro club ne vantava così tanti. I tempi sono maturi. Per tornare a vincere, per prima cosa. Ma anche per lasciarsi finalmente alle spalle quella fama, quelle voci che tuttora sollevano dubbi sulla regolarità del successo di 27 anni fa. A Medellín c’è bisogno di una vittoria “pulita”: senza macchie, sospetti, violenza.

Per la partita di ritorno in casa, in programma il 27 luglio, in tribuna dovrebbe esserci René Higuita. Ormai ha cinquant’anni e vive da quattro anni a Riyad, in Arabia Saudita, dove fa il preparatore dei portieri all’Al-Nassr. Il suo ritorno a casa per assistere alla finale è stato visto dai media sudamericani come la perfetta chiusura del cerchio: «Dal Padrone del male al calcio del bene», ha titolato l’argentino Clarín, dove il Patrón del mal è ovviamente lui, quell’Escobar la cui ombra aleggia ancora sulla città. Retorico, certo, ma per chiudere per sempre un capitolo tragico c’è bisogno anche di questo.

 

Nell’immagine in evidenza, un tatuaggio sulla pancia di un tifoso (Raul Arboleda/Afp/Getty Images)