Seminario sulla gioventù

Difficoltà e avversari si superano prima con la testa: un'intervista a Paulo Dybala.

I gelati che colano sul cono; il Supersantos; le birre freddissime; le spiagge; la Grecia; le cuffie da piscina di lattice; le righe orizzontali, bianche e rosse; le bougainvillea fiorite: le cose che associo alla gioventù, spesso, sono poi facili da associare anche alla primavera o all’estate, ed è una cosa naturale, nel vero senso della parola. È uno dei primi giorni di primavera quando incontro Paulo Dybala a Milano, in piazza Gae Aulenti. Fa caldo anche se sono le dieci del mattino, il Bosco Verticale è fiorito e i turisti smettono di camminare per fare fotografie alle torri. Mentre arrivo vedo Paulo da lontano, è sul terrazzo degli uffici E1 e E2, sopra lo store Nike.

Quando l’ascensore mi lascia al piano vedo la stanza, grande e luminosa, piena di persone. Molti sono suoi amici, che ha fatto venire dall’Argentina per una breve vacanza. Poi c’è la madre e la fidanzata, Antonella, con un piccolo cane tipo volpino. Uno degli amici ha a tracolla una custodia di cuoio simile a una cappelliera, ma più alta e stretta. La apre e ne tira fuori un mate, che passa a Dybala. Lui beve, lo passa a un altro, amico, cammina, parla.

Paulo Dybala

Ogni volta che mi tocca intervistare un calciatore mi prende la solita paura, e mi tormento con i soliti dubbi: parlerà? Sarà svogliato? Uno dei problemi principali del cattivo rapporto tra stampa e mondo del calcio, in realtà, è radicato nell’espressione che ho usato poco fa: intervistare un calciatore. Il rapporto che si crea, spesso, nelle interviste, è profondamente contraddittorio. Il calciatore viene percepito come un essere non-umano: è un alieno venuto da un mondo conosciuto da noi soltanto superficialmente, un mondo che ha un’etica particolare, una struttura familiare particolare, un’economia particolare. Se il mondo del calciatore comunica così poco con il nostro – siamo esclusi dai rituali religiosi, dagli oggetti totemici, dai corteggiamenti – forse dovremmo adottare un approccio etno-antropologico. Antropologia culturale, osservazione sul campo, interazione con ciò che si chiama “l’informatore”. Non chiedergli: come sono i tuoi rapporti con l’allenatore. Chiedergli, invece: cosa rappresenta, per te, una Lamborghini Murcielago.

Con Paulo Dybala è stato diverso da subito. Dybala abita ancora questo nostro stesso mondo, pur abitando contemporaneamente anche il mondo-dei-calciatori. Dev’essere per la sua gioventù, per l’emanazione dell’idea stessa di giovinezza che emette. È una cosa naturalmente legata al suo fisico, atletico ma minuto. E dev’essere anche una cosa legata alla sua bellezza. Il suo account Instagram, cioè l’immagine di sé più pubblica, è privo di Lamborghini Murcielago, o valigie Louis Vuitton, o altri oggetti totemici del mondo-dei-calciatori. Sorprende, invece, per semplicità: foto di gruppo con gli amici di Córdoba, in Argentina, che sono ragazzi di vent’anni o poco più, gli stessi che si passano il mate davanti a me mentre Paulo si prova un nuovo cappellino da mettere al contrario. Parlare con lui non è come parlare con l’abitante di una Paese lontano e sconosciuto. È come parlare con un ragazzo di ventidue anni. È normale, c’è una lingua comune.

Paulo Dybala

Comincio dalla gioventù, dall’Argentina, dalla lontananza. Dev’essere difficile lasciare il proprio paese, inteso come piccolo agglomerato abitativo, nell’entroterra argentino a più di seicento chilometri dal mare, a diciotto anni. Dev’essere ancora più difficile lasciare la propria Nazione, per andarsene in un’altra attraversando l’Oceano, e finire su un’isola che vive di mare. Quella gioventù che emana, in realtà, Dybala non l’ha vissuta, o l’ha vissuta in modo… mutilato. «È difficile quando hai quindici anni e i tuoi amici ti chiedono di uscire, e loro iniziano a fare serate e a conoscere le ragazze, e tu le vorresti fare però devi dire di no, e stare concentrato su quello che vuoi fare. C’è una parte di giovinezza che ho perso, e mi sarebbe piaciuto viverla con loro. Quando loro possono, perché lavorano, e hanno un po’ di vacanze, gli chiedo di venire perché sento la loro mancanza. Mi piace stare con loro, condividere le mie cose che sto vivendo qua, parlarne, perché ci sono stati quando ho sofferto le perdite che ho avuto, quindi queste cose belle che sto vivendo le voglio condividere con loro».

Quando parla in generale di perdite, Dybala si riferisce in particolare al padre, morto quando lui aveva 15 anni. Da Laguna Larga, dove è cresciuto, si è trasferito a Córdoba, a 50 chilometri, per vivere nella pensione della squadra. Lì hanno iniziato a chiamarlo el pibe de la pensión. Quando gli chiedo se ha avuto paura del primo grande trasferimento si fa realista e pragmatico. Il tono della voce sembra sdrammatizzare: «Beh il mio sogno era fare il calciatore, e devo inseguirlo, no? Sul fatto di andare così lontano… come tutti i giocatori, se dobbiamo andare in qualsiasi posto, noi andiamo». Sembra una frase facile o semplice, ma nasconde numerosi sottotesti. Molti di questi rientrano nella categoria: sacrifici.

I suoi 17 gol con la maglia dell’Instituto Atlético Central Córdoba

A Palermo le cose sono andate in modo discreto, per i primi due anni. O meglio: discreto per lui, un po’ meno per la squadra, che retrocede in Serie B. Cosa succede, a quel punto, nella mente di un diciottenne a una decina di migliaia di chilometri da casa? Pensa: ho sbagliato tutto? Piange? Forse quella del Palermo è stata una situazione anomala: in una squadra pur retrocessa rimangono Abel Hernández, nazionale uruguaiano, Ezequiel Muñoz, con alle spalle tre stagioni di A da titolare; e Franco Vazquez, futuro nazionale italiano. Dybala dice: «In quel periodo ho ricevuto tante offerte per lasciare il Palermo, però io in quel momento ho parlato con il mio procuratore e gli ho detto di rifiutare tutte le offerte che stavano arrivando per tornare in Argentina, perché io volevo rimanere e tornare in Serie A, perché sapevo che potevo fare molto meglio di quanto avessi fatto il primo anno, e che dipendeva tutto da me. Per fortuna ci sono riuscito».

«È difficile quando hai quindici anni e i tuoi amici ti chiedono di uscire, e loro iniziano a fare serate e a conoscere le ragazze, e tu le vorresti fare però devi dire di no»

Dal ritorno in Serie A Dybala è cambiato: a riguardare le sue partite e i suoi highlights su Youtube, si vede un giocatore veloce, anzi velocissimo, nel portare palla e nel finalizzare, ma soprattutto nella capacità di dribbling. Non è un cambiamento: è una crescita, un perfezionamento di una caratteristica che, insieme alla precisione con il sinistro, rende Dybala uno dei migliori attaccanti in Italia. La velocità non è soltanto fisica: per un attaccante di un campionato come quello italiano, la rapidità di esecuzione di movimenti come il cambio di direzione, la frenata, o il tunnel (uno dei colpi migliori di Dybala) deve essere in primo luogo mentale. È quel concetto di “intelligenza in campo” di cui si è sempre parlato in riferimento a Francesco Totti e alle sue giocate di prima. Dybala spiega come uno che ci ha già ragionato molto: «Io personalmente penso di essere più veloce con la testa che con i piedi. È una mia arma molto importante: se tu riesci a capire i movimenti che può fare l’avversario, ti aiuta tantissimo. Ed è difficile trovare difensori così, che siano più veloci con la testa che con i piedi. Per esempio nel gol con la Fiore». Pausa narrativa: il gol con la Fiorentina l’ha segnato il tredici dicembre 2015, e come dice lui è un esempio di cosa significhi pensare in modo diverso, più sottile, più veloce, immaginando le diverse possibilità e valutandole, pensandole e scegliendone una. Tutto questo in un attimo, nello spazio di un attimo. È uno spazio così piccolo che normalmente non ci si accorge di pensare, se non in modo inconscio.

juventus fiorentina dybala

L’azione inizia con un lancio della difesa Juventina per Cuadrado, marcato sulla fascia destra da Astori. Il difensore svirgola il pallone, facendolo rimbalzare con una difficile traiettoria verso il centro dell’area. Qui sta arrivando Dybala, che controlla di sinistro e si trova di fronte a Tatarusanu, in vantaggio di mezzo passo su due difensori che lo inseguono. Potrebbe tirare. Guardando al rallentatore il video, direi: dovrebbe tirare. Lui invece esegue una sterzata, un rollio acrobatico tagliando l’area verso il centro, praticamente parallelo alla linea di porta. I difensori non riescono a frenare e virare, anche il portiere è in ritardo. A questo punto, davanti a Dybala, la porta è davvero vuota, e può appoggiare la palla. Più di cento parole per cercare di spiegare tre secondi di gioco. Fine della pausa narrativa. Dybala continua: «Per esempio nel gol con la Fiore il portiere stava uscendo, ma io sapevo che il difensore non riusciva a fermarsi se io gli facevo la finta di andare sul mio piede. E lui avrebbe sicuramente sbattuto contro il portiere, oppure andava dentro la porta. Invece di calciare addosso al portiere, subito, ho pensato di liberarmi un po’ e calciare più facile». Credo che il novanta percento di calciatori avrebbe risposto qualcosa come: «Non lo so, mi è venuto d’istinto». Dybala ha preso un gesto all’apparenza istintivo e lo ha scomposto in un’implicazione logica.

Al primo anno alla Juventus ha segnato in media più di un gol ogni due partite, e ha superato il suo record di 13 gol stabilito a Palermo nel 2013/14. Quando esulta Paulo lo fa in due modi: alza le braccia e gli indici con gli occhi chiusi, verso il cielo; oppure fa una specie di uno-due come due pugni verso l’alto, un modo che mi ricorda Schumacher quando vinceva con la Ferrari, anche se Dybala salta, e urla, e non ha un casco che nasconde la faccia. La faccia è sempre contratta, ha gli occhi strizzati e la bocca che urla «gol». Un’intensità che molti altri attaccanti non hanno: sembra che ogni gol sia la liberazione da qualcosa. Non azzardo spiegazioni retoriche, del tipo “vivere ancora il calcio con emozione”, ma gli chiedo cosa pensa. Dice: «È logico, segnare è bellissimo. Però io personalmente a volte sono più contento se faccio una partita perfetta o quasi perfetta e non segno, piuttosto che se faccio un gol e ho sbagliato troppi passaggi. Perché da ragazzino il mio ruolo non è stato fare l’attaccante, è stato il trequartista, dare l’ultimo passaggio giusto, e quella cosa mi è rimasta. Per cui non è un’ossessione. Quando passano due o tre partite senza segnare non mi viene l’ansia perché non sto segnando».

Gli domando se si aspettava di fare una stagione così buona, alla prima esperienza in una grande squadra (io, ad esempio, non me lo aspettavo; ma guardandolo mi sto rendendo conto di quanto sia stato miope prima: Dybala ha qualità sensibilmente fuori dal comune). Lui risponde in un modo che trovo molto maturo: «In tutti i posti in cui sono andato non è stato mai facile. Andare a Palermo a 18 anni non era facile, venire alla Juventus per niente, e sarà così anche in Nazionale. Ma tanto non pensavo di fare dieci gol nelle prime cinque partite, quindi stavo tranquillo». Poi aggiunge un dettaglio non scontato da pensare, e ancora meno scontato da ammettere: «Penso che il gol in Supercoppa mi abbia aiutato tantissimo, perché poi inizi da subito ad avere la fiducia dei compagni».

Il primo gol con la maglia 2016/17, segnato al Tottenham

Guardando gli highlights della doppietta contro la Lazio, quando ha raggiunto la quota di 16 gol, il benchmark della prima stagione di Platini, le telecamere inquadrano un allegro quadro familiare in tribuna, con Antonella e la madre che esultano in un modo che mi viene da definire “tenero” e salutano Paulo in campo. Della sua vita privata Dybala mi dice semplicemente che è una cosa molto rilassata. Lo dice sempre con quella sincerità di uno che non sembra far parte del jet set cafone del calcio, ed esprime bene una continua ricerca di normalità: «Mi piace stare a casa, sto con la mia famiglia, mia mamma, la mia fidanzata. Mi piace guardare un film, farmi un mate sdraiato sul divano. È una cosa che riesco a fare così poco».

Allora parliamo di emozioni, e gli chiedo qual è stata la più grande, in questa breve carriera in ascesa fulminea. Dice: «Penso sia stato il debutto in Champions. A Manchester, in uno stadio bellissimo, è un sogno. Quando ero in Argentina mi ascoltavo l’inno della Champions, ti mette la pelle d’oca. Poi, quando l’ho sentito a Manchester, mi sono venute tantissime cose in mente, da quando giocavo nel campetto davanti a casa a quando giocavo nell’Instituto che magari non c’erano neanche le curve. Tu arrivi in quei posti e li confronti con i ricordi, ti fanno ricordare tantissime cose».

Paulo Dybala

Però, quando vince lo Scudetto, pochi giorni dopo il nostro incontro, Paulo mi manda un messaggio vocale su Whatsapp e capisco: non sa fare una graduatoria delle emozioni. È positivo, penso: il fatto è che è ancora tutto nuovo, tutto così eccitante. L’immagine che mi viene in mente è quella di un bambino al luna park. Dice: «Sono stati, sono ancora giorni bellissimi. È il mio primo scudetto, spero sia il primo di tanti. Poi una rimonta così, con una rimonta che nessuno si aspettava, ha un sapore ancora più bello. Ho trovato delle emozioni che non avevo mai avuto».

Non c’è soltanto l’inno della Champions League o quello italiano: le orecchie di Paulo Dybala hanno ascoltato anche quello dell’Argentina, in tempi recenti, e lo ascolteranno in tempi molto vicini. Per aspettare la chiamata argentina Paulo ha rifiutato quella italiana e, forse con meno incertezze, quella polacca. Lui ha spiegato che quei parenti europei non li ha mai conosciuti, e il dubbio su che Paese rappresentare non l’ha mai sfiorato. Perché non ha parlato delle prime convocazioni in Argentina, quando ha parlato di emozioni? Perché, mi dice, l’Argentina è su un piano unico: «Non c’è niente di paragonabile. Forse l’unica più forte potrebbe essere giocare il Mondiale. Non è solo la Nazionale, è la Nazionale argentina, con tutti i giocatori che ci sono», e poi riaffiora, spontanea, quella bella ingenuità puerile, e continua: «Sei in spogliatoio e ti guardi intorno e vedi Messi, Di María, Mascherano, Agüero, ti dici “guarda dove sei!” e ti gira la testa».

«In tutti i posti in cui sono andato non è stato mai facile. Andare a Palermo a 18 anni non era facile, venire alla Juventus per niente, e sarà così anche in Nazionale»

Se dovessi azzardare un giudizio su cosa sta vivendo Paulo Dybala, su cosa sta pensando di tutto questo successo, userei l’espressione “se lo sta godendo”. Ha 22 anni (dice: «Mi sento ancora molto giovane, sto iniziando adesso a crescere») e nessuna fretta di vivere le vite assurde e parallele di certi giocatori già adulti in certe forme, come la paternità, quando non dovrebbero esserlo. È pienamente inserito in questo mondo e in questo tempo, anche da un punto di vista estetico. Ed è il motivo per cui questa intervista invecchierà in fretta, perché Paulo Dybala è un ragazzo, e lo è totalmente, e prima o poi non lo sarà più: questo articolo è uno spaccato di giovinezza, è una fotografia di qualcosa che è appena fiorito ma che, per forza, si trasformerà e cambierà e crescerà a dismisura. E più lo guardo, più sono convinto che è destinato a diventare uno dei giocatori più forti del mondo, ma per ora, quando lo rivedo al campo in cui scattiamo le fotografie, e palleggia, segue le istruzioni, e non si annoia, non si lamenta del sole o del caldo, ma tira in porta e saluta i bambini delle scuole calcio che gli urlano «Ciao Dybala!», penso che potrei andare da lui e salutarlo con l’affetto che si dà a un fratello piccolo, a uno di famiglia, di sicuro a un “essere umano” prima che a un “calciatore”.

 

L’intervista è uscita originariamente sul numero 10 di Undici