L’essenza di Shevchenko

Cosa è stato Andriy Shevchenko: uno degli attaccanti più completi di sempre, spietato, intelligente, genuino. Con una carriera troppo corta.

La prima volta che vidi dal vivo Andriy Shevchenko era il 23 ottobre del 1999, in un Inter-Milan. Rievocando il ricordo, penso al nero del cielo sopra lo stadio di San Siro, il giallo dei riflettori, sento il freddo dell’inverno milanese, anche se il 23 ottobre è soltanto alla metà dell’autunno, ma forse a quasi vent’anni di distanza le cose sono cambiate, e un tempo faceva più freddo, chissà. Naturalmente, non ricordavo la data esatta. Non sono una di quelle persone. Ricordavo i marcatori, Ronaldo, Shevchenko, Weah, e allora ho scritto su Google questi nomi e sono arrivato a un articolo dell’archivio di Repubblica sulla partita. Leggo le prime righe: «Il Milan fatica, raggiunge il pareggio con il jolly Shevchenko…».

Il jolly Shevchenko. Andriy era arrivato al Milan per un bel po’ di miliardi di lire, ma era in Italia soltanto da qualche settimana e il giornalismo, senza Youtube, doveva essere più faticoso. Leggere la definizione “jolly” per un attaccante che realizzerà 175 gol, oggi, fa sorridere. Va bene così. Sono moltissime le cose che mi fanno sorridere, quando penso ad Andriy Shevchenko. Riguardando i suoi primi cento gol con la maglia del Milan, contenuti in un Vhs della Gazzetta dello Sport intitolato, in modo poco felice, ShevCento, si intravede il repertorio totale dell’attaccante. Eppure questa frase non basta, a dare l’idea della totalità di Sheva. Raramente, negli ultimi trent’anni, è esistito un attaccante più completo di lui. Capace di saltare l’avversario in velocità, di difendere palla come un nove, di colpire di testa, di colpire “di opportunità”, di calciare punizioni e calci di rigore, del dribbling in spazi stretti, di tirare potente e preciso da venticinque metri.

In un’intervista in quel Vhs, Shevchenko parla della sua prima stagione al Milan, quella dei 24 gol in 34 partite di campionato, quella in cui, alla settima giornata, dopo sette gol, venne chiamato «jolly». Dice: «È stato un primo anno importante perché arrivavo in Italia, stavano aspettando tanto il mio arrivo, qualcuno aveva dubbi su di me, dovevo contestare per un posto di attaccante che non è bravo solo di altre cose, ma anche bravo in area». Shevchenko ha sempre dato l’idea di giocatore intelligente, sul campo per i movimenti – possedeva un’eccezionale capacità di smarcamento, in verticale e orizzontale – e in quel bagliore di vita che si vede dalle presenze televisive fuori dal campo.

Ma nemmeno questo riesce a comprimere l’essenza di Shevchenko. I gol, pure tantissimi, non bastano. Ogni partita in cui Andriy Shevchenko scendeva in campo era avvolta da un sentimento di ineluttabilità, un presagio oscuro. Shevchenko poteva segnare, sempre. Ci sono attaccanti fortissimi che sono adatti a certe partite, ma che in altre potrebbero non trovarsi altrettanto bene. Shevchenko era un giocatore per tutte le stagioni. C’entra la sua capacità di interpretare ogni ruolo dalla trequarti offensiva in avanti. C’entra una furbizia rara e preziosa nei calciatori, fatta di intelligenza e intuito. C’entra un modo di giocare che doveva essere necessariamente sorretto da una fisicità esplosiva. È anche per questo che una parte della carriera di Shevchenko è andata perduta: la vera carriera di Sheva è praticamente finita prima dei 30 anni, con il trasferimento al Chelsea.

Ricordo il ritorno al Milan. La maglia numero 76, come il suo anno di nascita, come i calciatori arrivati troppo tardi e troppo poco importanti. L’incitamento esagerato del pubblico, a ogni ingresso in campo – raramente Sheva partì tra i titolari, quell’anno – o passaggio riuscito era un graffio sulla fotografia del suo passato prossimo. L’inarrestabile attaccante era ora rassicurato della sua improvvisa incapacità, come un vecchio moribondo, con più pietismo che speranza. Shevchenko, nei suoi precedenti otto anni al Milan, è stato il contrario: è stato potenza esuberanza allegria. Era quasi infantile nel sorridere o nel ridere nelle esultanze dopo i gol, così poco programmatico e sincero che un modo suo di festeggiare, un marchio di fabbrica, non l’ha mai pensato né avuto, ed è strano per uno così abituato a fare gol: a volte portava la maglia a coprire il volto come Ravanelli un decennio prima, a volte quella maglia la tirava fuori dai pantaloncini e ne agitava la parte inferiore, a volte rideva con un compagno, a volte correva.

Andriy Shevchenko aveva un che di fanciullesco, nei suoi anni felici, un’innocenza senza peccato e senza ferite che oggi mi ricorda la purezza dell’Eden del Nabokov bambino in Parla, ricordo. L’espressione più vicina al Nirvana della gioia è sempre sua, si è materializzata nella finale di Manchester del 2003, in quel famoso ultimo rigore decisivo. C’è la concentrazione esagerata (ancora: la faccia di un bambino che si volta verso la porta e verso l’arbitro e verso la porta e verso l’arbitro) ma soprattutto la corsa dopo aver spiazzato Buffon, una corsa generosa perché è diretta all’altro protagonista di quella partita, Nelson Dida, è una corsa sguaiata, con le braccia larghe e tese che si agitano, e dopo il primo abbraccio si lascia cadere a terra e ancora stringe a sé il portiere più timido che sia mai apparso nel calcio.

Shevchenko era questo e sembra passato moltissimo tempo, guardando a questi giorni in cui Francesco Totti, suo coetaneo, sta giocando la sua – forse – penultima stagione da calciatore quasi titolare. Però circondato da polemiche, da strappi di orgoglio, da un’epica che appesantisce inevitabilmente il presente e che ne appesantirà il ricordo, perché l’epica è un genere troppo carico di guerre per essere impermeabile alla tristezza. Shevchenko era così leggero che il suo declino fulmineo e il suo ritiro sono stati accolti con un’alzata di spalle, ma è meglio così del suo contrario, almeno per quello che ha rappresentato. È finito presto ed è durato poco come molte tra le cose migliori. Shevchenko avrebbe potuto essere di più, ma probabilmente, in quelle otto stagioni, è stato migliore di chiunque altro.