Trouble on the terraces

L’evoluzione degli stadi britannici è sempre stata legata a momenti tragici. Pregi, difetti e futuro del modello inglese.

È il 5 aprile del 1902 e all’Ibrox di Glasgow si sta disputando l’incontro tra Scozia e Inghilterra. Sugli spalti ci sono oltre 68mila spettatori, quando ad un certo punto la West Stand, interamente costruita in legno, crolla a causa del peso eccessivo. Muoiono 25 persone, altre 500 restano ferite. È la prima, grande tragedia in uno stadio britannico. Ne seguiranno altre, in un climax che raggiungerà l’apice nel disastro di Hillsborough del 1989. Variabili le dinamiche, spesso identiche le cause: il sovraffollamento, la gestione dell’ordine pubblico e la fatiscenza degli impianti. La loro evoluzione non è mai stata un processo naturale, dettato cioè dall’uso di nuove tecnologie o da interventi di ristrutturazione volutamente compiuti dalle società. Al contrario, sono spesso “servite” tragedie per indurre al cambiamento e sdoganare la duratura riluttanza del calcio inglese ad investire in strutture di qualità.
Quella di Ibrox è il primissimo segnale: il legno della West Stand è inadatto a contenere folle di quelle proporzioni. Lo stadio viene risistemato e le tribune sostituite da spalti di cemento armato. Compaiono per la prima volta le terraces, settori nei quali gli spettatori assistono esclusivamente in piedi alla partita, ammassati gli uni agli altri e protetti da una serie di crash barriers per attenuarne i movimenti.

Il crollo di Ibrox (Hulton Archive/Getty Images)
Il crollo di Ibrox (Hulton Archive/Getty Images)

La stragrande maggioranza degli stadi viene costruita tra il 1890 e il 1914. Sono gli anni della seconda Rivoluzione industriale, che mette a disposizione delle società numerosi capitali e nuovi materiali. Molti progetti sono opera dell’architetto Archibald Leitch e il loro layout è pressoché identico: forma rettangolare, con i lati completamente chiusi e una tribuna centrale con posti a sedere realizzata su due piani, sovrastata da un tetto spiovente in ferro ondulato. Il resto è improntato all’essenzialità. L’importante, all’epoca, è soddisfare la fame di calcio. Una costante che si ripeterà fino alla seconda metà degli anni Quaranta. Rappresentano un periodo di transizione per la Gran Bretagna e per il mondo: la guerra è appena finita e la gente vede nel calcio lo svago ideale per dimenticare gli orrori del conflitto. I biglietti a prezzi irrisori agevolano la presenza massiccia della working class, con la conseguenza che molte squadre registrano la miglior media spettatori della storia, anche a costo di superare la capienza massima dell’impianto. È esattamente quanto accade a Burnden Park il 9 marzo 1946, durante la partita di Fa Cup tra Bolton e Stoke City. A dispetto delle 50mila persone previste alla vigilia, quel giorno ce ne sono 35mila in più. Lo stadio è troppo piccolo per contenerle. I tifosi che premono per entrare schiacciano quelli già dentro, crollano due crash barriers e centinaia di spettatori sono travolti da una valanga umana. Il bilancio è di 33 vittime e oltre 500 feriti.

C’è un ulteriore problema da risolvere: trovare il modo per contare quanta gente accede agli impianti, superando il sistema dei tornelli azionati da un inserviente con un pedale. In seguito all’inchiesta, vengono introdotti dei contatori automatici che registrano quanti spettatori entrano in un determinato settore, bloccandone l’ingresso una volta raggiunto il limite. Per la prima volta si forniscono indicazioni specifiche per la salvaguardia e la gestione della folla. Ma sono misure ancora insufficienti, perché nel 1971 succede qualcosa ancora a Ibrox. Cambia il conteggio delle vittime, che tocca quota 66, ma la dinamica resta pressoché la stessa: un cedimento strutturale, innescato dal gran numero di persone che stavano ormai lasciando l’impianto, poi tornate in massa sulle gradinate per esultare al pareggio a tempo scaduto dei Rangers contro il Celtic.

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Bradford, nel 1985 (Allsport Uk/Getty Images)

Viene avviata una nuova indagine, che porta nel 1975 all’emanazione della Safety of Sports Grounds Act, una legge che prevede l’obbligatorietà delle licenze per l’agibilità degli stadi, più una serie di misure volontarie che possono essere attuate dai club. Il decreto riprende quanto già inserito due anni prima all’interno della Green Guide (dal colore verde presente sulla copertina), un fascicolo nel quale si esortano le squadre a considerare l’incolumità degli spettatori un «aspetto di primaria importanza», specificando che «la responsabilità della loro sicurezza è sempre a carico di chi gestisce l’impianto». Il limite di questi provvedimenti rimane la discrezionalità con cui possono essere applicati, con la conseguenza che molti restano ignorati dalle dirigenze di parecchie squadre.

Le terraces e, più in generale, gli impianti inglesi cambiano aspetto tra gli anni Settanta e Ottanta, quelli caratterizzati dall’esplosione dello hooliganism. Nascono le prime firm, e questo porta a uno spostamento della percezione del tifoso: gli spettatori delle end, i settori dietro le porte, non sono più visti come clienti cui viene offerto un servizio, ma come criminali da confinare in spazi strettissimi per essere resi innocui. Le autorità decidono di innalzare una serie di recinzioni metalliche e pens, ovvero gabbie, all’interno di molte terraces. Gli stadi smettono di essere un luogo di svago e divertimento. Diventano, al contrario, un territorio insicuro. Criticità che diventano mortali al Valley Parade di Bradford nel 1985, quando il contatto tra un mozzicone di sigaretta e i rifiuti sotto la tribuna centrale innesca un incendio che uccide 56 persone. L’inchiesta, il Popplewell Report, riprende alcuni tratti della Green Guide, stabilendo che la polizia ha de facto la responsabilità di gestione degli spettatori e di messa in sicurezza dell’impianto, essendo l’unico organo competente in grado di fronteggiare situazioni pericolose. Rimane tuttavia un problema di fondo: non viene fatta una chiara distinzione tra il problema dello hooliganism e quello dell’obsolescenza degli impianti sportivi, ovvero la confusione tra i concetti di crowd disorder e stadium safety. Ristrutturare gli stadi più vecchi del mondo non risponde infatti solo all’esigenza di salvaguardare i tifosi, ma costituisce anche uno degli ingredienti essenziali per migliorare il controllo sulle terraces.

1971: Supporters of Liverpool FC on the terraces during a semi-final match against Everton in the FA cup. (Photo by Aubrey Hart/Express/Getty Images)
Terraces a Liverpool nel 1971 (Aubrey Hart/Express/Getty Images)

Nonostante i precedenti, manca ancora una severa legislazione sulla manutenzione degli stadi. Il 15 aprile 1989, a Hillsborough, si contano 96 morti: è il punto di non ritorno del calcio inglese. La polizia sbaglia a controllare il flusso di tifosi del Liverpool che si avvicinano al settore loro riservato, contribuendo alla formazione di una pericolosa ressa davanti ai tornelli. Per alleviare la calca, ed evitare il degenerare della situazione, viene aperto il Gate C, un grosso cancello d’acciaio, che porta a un tunnel lungo e stretto dove entrano migliaia di persone. Molti vengono calpestati, altri sono schiacciati contro le recinzioni del campo. Parte l’ennesima inchiesta, affidata al giudice Peter Taylor: per la nona volta nella storia del calcio britannico viene creato un organismo ad hoc per indagare sulle cause di un incidente durante una partita di calcio. Se i precedenti otto hanno dato effetti limitati, stavolta l’impatto è differente. Il primo provvedimento porta all’introduzione di soli posti a sedere in tutti gli impianti britannici. È la svolta: alla base del Taylor Report, emanato nella sua versione finale nel 1990 e tuttora in vigore, c’è l’impossibilità di garantire un adeguato controllo sugli spettatori che stanno in piedi. Viene così sancita la fine di oltre cent’anni di cultura delle terraces, sostituite dall’avvento degli all seater stadium. Il ragionamento è semplice: a ogni tifoso è assegnato un posto, stampato sul biglietto, che permette, attraverso l’uso delle telecamere, di monitorarne i movimenti.

L’eredità di quel pomeriggio di Sheffield porta così alla rivalutazione di stadi che sono attualmente tra i più lodati al mondo in termini di comfort e sicurezza e nell’utilizzo di massicce dosi di prevenzione. Le società, per esempio, vengono obbligate a rimuovere entro tre anni inferriate e barriere di separazione tra campo e tribuna, così come le gabbie poste all’interno delle curve, pena la mancata iscrizione al campionato. La capacità minima degli stadi delle prime due divisioni viene fissata a 20mila unità e i club diventano responsabili della gestione del servizio di sicurezza interno, operato dagli steward e non più dalla polizia che, negli anni, ha ridotto in media la propria presenza dell’80%. L’ottimo lavoro viene premiato dall’assegnazione degli Europei del 1996 all’Inghilterra, che si rivelano uno spettacolo per organizzazione e sicurezza.

I cancelli di Upton Park (Mark Thompson/Allsport
I cancelli di Upton Park (Mark Thompson/Allsport)

Il costo dell’intervento per attuare le direttive di Taylor è di 750 milioni di sterline – di cui quasi la metà destinati alla ristrutturazione degli stadi – in gran parte coperto dalle società calcistiche, proprietarie degli impianti. Taylor raccomanda di mantenere i biglietti a prezzi popolari, ma le autorità fanno l’esatto contrario. Credono che sia un deterrente efficace per allontanare gli hooligan, prevalentemente appartenenti alla working class. L’iniziativa si rivela efficace, ma colpisce in maniera indiretta anche una larga fetta di tifosi che resta tagliata fuori a causa di un’inflazione sui ticket che negli ultimi 5 anni, per esempio, ha toccato il 13%. Il problema non riguarda solo la Premier League, ma anche le serie minori: in Championship i prezzi sono aumentati in media del 31,7%, in League One del 19%.

Oltre alle proteste per il caro biglietti, l’ultima avvenuta contro l’aumento dei ticket per la nuova Main Stand di Anfield, oggi sono sempre più numerosi i tifosi che lamentano l’impossibilità di seguire le partite in piedi, con la conseguente perdita di quell’atmosfera frizzante e un po’ anarchica. Dal 2002 si è tornato a parlare della possibilità di introdurre le safe standing area, diffuse in Germania, Austria, Svezia e adottate per la prima volta in Gran Bretagna l’anno scorso al Celtic Park. Si tratta di settori nei quali gli spettatori possono assistere anche in piedi alle partite. I seggiolini sono infatti retrattili e protetti da due file di sbarre di metallo, una davanti e una dietro, poste all’altezza del bacino. Si basano sul principio che ad ogni posto corrisponda uno spazio occupato da una sola persona. Le stesse società si sono dimostrate favorevoli all’iniziativa: nel 2013, per esempio, 19 club sui 20 della Premier League hanno detto di voler introdurre le safe standing area, con i vertici del campionato che hanno assicurato di considerare le loro richieste di primaria importanza.

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Un murale che copre i lavori della North Stand a Highbury, nel 1992 (Allsport/Getty Images)

L’ultima è arrivata dal West Ham, che all’inizio della stagione si è trasferito nel London Stadium. David Gold, uno dei due proprietari, ha elogiato le direttive di Taylor, ma ha spiegato che «si tratta di un provvedimento preso quasi trent’anni fa, quando la tecnologia e il controllo sugli spettatori non erano ai livelli attuali». Il West Ham è una squadra particolare con un bagaglio di problemi quasi unico: molti spettatori infatti, abituati a stare in piedi nelle end del Boleyn Ground, hanno mantenuto questa abitudine anche al London Stadium, causando il malcontento di altri spettatori che si vedono la visuale ostruita. Gli steward hanno allontanato diverse persone a causa del loro persistent standing, mentre il club ha promesso che i responsabili saranno puniti con la revoca dell’abbonamento. È vero che il Taylor Report obbliga i tifosi a restare seduti, ma guardando con attenzione certi settori degli stadi inglesi si nota come spesso alcune società adottino un atteggiamento tollerante verso chi non segue questa regola.

Alla trasformazione architettonica degli stadi ne è corrisposta una antropologica di chi li frequenta. Meno working class, e di conseguenza meno hooligan, più famiglie e, al tempo stesso, turisti. Resta un’ultima questione da risolvere: trovare il giusto compromesso tra la vecchia generazione di tifosi pro terraces e quella nuova, tra chi vuole stare in piedi e chi seduto, senza che un particolare tipo di comportamento danneggi l’altra parte. Una nuova legislazione in materia, che parta dal Taylor Report per contestualizzarlo in un’epoca moderna e più sicura, prendendo spunto dal modello delle safe standing area, potrebbe essere la soluzione migliore.

Nell’immagine in evidenza, una gabbia a Old Trafford (Duncan Raban/Allsport/Getty Images)