Conte, ragione e sentimento

Perché il modo inglese di vivere le partite si adatta perfettamente al carattere di Antonio Conte.

Non so perché, ma pochi giorni fa mi è tornato in mente Héctor Cúper. Mi sono chiesto dove sia finito. Si è ritirato? Sta allenando ancora? Allora l’ho cercato su Google, e ho scoperto che l’Hombre Vertical allena l’Egitto dal marzo del 2015. È la sua seconda panchina internazionale dopo una breve periodo con la Georgia, l’ultima tappa del suo Magical Mystery Tour del mondo calcistico. Mi sarebbe piaciuto molto vedere Cúper in Premier League. Oggi ha 60 anni, gli stessi di Francesco Guidolin, quattro in meno di Claudio Ranieri. Ne dubito, ma un giorno potrebbe ancora succedere. Mi immagino Cúper alla fine del tunnel degli spogliatoi di un posto tipo Turf Moore a Burnley, che aspetta i suoi giocatori e gli dà un colpo con la mano sul petto prima che entrino in campo. La Premier League andrebbe pazza per un gesto simile. Probabilmente proverebbero a brevettarlo, perché va dritto al cuore di tutto ciò che il campionato rappresenta. Questo è un posto in cui, spesso, è il cuore che comanda, e non la testa.

Curiosamente, André Villas-Boas lo aveva capito meglio di chiunque. «Le emozioni qui sono tutto», aveva detto a France Football nel 2012. «C’è un sacco di intensità e passione. Devi preparare la squadra sulla tattica, è chiaro, ma sul piano emotivo puoi essere totalmente vulnerabile. I tifosi possono influenzare la prestazione della squadra, e così anche l’arbitro e gli avversari. In Italia, il calcio è più razionale: devi avere un approccio tattico valido e adattarti di conseguenza». In Inghilterra, al contrario, il gioco è irrazionale e anarchico: è come cavalcare in mezzo a una battaglia, preghi perché la testa ti rimanga attaccata alle spalle mentre quelle dei nemici e compagni volano tutto intorno a te. Arsène Wenger una volta ha detto: «We were a bit hand-brakish today». Era una critica alla squadra: non vuole che l’Arsenal giochi con il freno a mano tirato. In questo contesto, il Fußball a cento all’ora di Jürgen Klopp è disegnato su misura per la Premier League. Il Liverpool è Fast and Furious.

Come squadra rappresenta un microcosmo della Premier League. Prendete, ad esempio, il pre-campionato: un giorno batte il Barcellona e la Msn 4-0. Qualche giorno dopo la stessa squadra perde sempre 4-0, contro il Mainz. Inizia il campionato: vince contro l’Arsenal, si fa battere dal Burnley. AKloppalypse Now sta alla Premier League come Zemanlandia stava alla Serie A negli anni Novanta. È questa la mentalità. Da un lato, questo rende la Premier League il campionato più spettacolare del mondo. Dall’altro è stato, almeno in parte, responsabile dei fallimenti inglesi in Europa. Il Chelsea è stato l’ultimo team inglese a vincere la Champions League, nel 2012, anche con l’aiuto di un po’ di fortuna. Soltanto un anno fa stavamo parlando della possibilità concreta che la Serie A sorpassasse la Premier nella classifica dei coefficienti Uefa. La Liga ha ospitato i vincitori di Champions ed Europa League per tre anni consecutivi: si merita di essere considerato il miglior campionato, anche se una nuova età dell’oro sta sorgendo in Premier. Ma per ora i fatti non hanno importanza. È questa la lezione di Brexit e della campagna di Donald Trump. Quello che conta sono le emozioni.

Sono stato onestamente sorpreso quando la Premier League ha seguito l’esempio della Serie A, commissionando un nuovo pezzo musicale per rimpiazzare l’attuale canzone suonata prima di ogni partita. Quello che mi chiedo è: perché? Non si poteva semplicemente suonare “The Way You Make Me Feel” di Michael Jackson? È la colonna sonora perfetta per un campionato come la Premier. Alan Pardew, il manager del Crystal Palace, avrebbe potuto ballare come ha fatto dopo il gol di Puncheon in FA Cup, senza vergogna. Le partite non dovrebbero più iniziare con un fischietto, ma con il suono di una campana: dilly-ding, dilly-dong. A proposito di Michael Jackson, la cui statua fuori da Craven Cottage è stata purtroppo abbattuta: una delle prime cose che Pep Guardiola ha detto dopo essere arrivato al Manchester City aveva a che fare con l’anima. «Per costruire qualcosa abbiamo bisogno di tempo. Ma per giocare con l’anima, con qualcosa dentro, non possiamo aspettare». Gli inglesi vogliono spirito. Vogliono passione. Guardando agli anni in cui Sven Goran Eriksson era allenatore della Nazionale, è incredibile ripensare a quanto si infuriassero giornalisti e tifosi di fronte a questo svedese che sedeva placidamente in panchina come una statua di ghiaccio – mi viene in mente la sconfitta del 2002 contro il Brasile – anziché marciare avanti e indietro nella sua area tecnica, urlando e imprecando.

È questo il motivo per cui Diego Simeone è così popolare in Inghilterra, nonostante la sua furbizia contribuì all’espulsione di David Backham nel 1998. Quando Mourinho fu esonerato dal Chelsea, i media speravano nell’arrivo del Cholismo a Stamford Bridge. L’assenza della Serie A dalla tv via cavo, su cui invece era stata trasmessa dal 1992 al 2001, ha fatto sì che il profilo di Antonio Conte non sia stato valutato in modo altrettanto lusinghiero. Nonostante i risultati straordinari raggiunti con la Juventus in Serie A, la stagione dei record, i 102 punti. A differenza di Klopp e Simeone non aveva brillato abbastanza in Champions League per catturare l’attenzione e l’immaginazione degli inglesi. Considerate che siamo un popolo assurdamente difficile da accontentare. La gente si chiede ancora oggi: Messi farebbe il Messi anche in una serata di vento e pioggia a Stoke-on-Trent? I nostri tabloid si sono accorti in ritardo anche dei numeri di Ibracadabra. Ci vollero 4 gol segnati all’Inghilterra nel 2012 per far sì che il Telegraph si rendesse conto che è qualcosa di più di un Peter Crouch svedese. In questo senso, gli Europei francesi hanno cambiato completamente la percezione di Conte in Inghilterra. Annunciato come prossimo allenatore del Chelsea ad aprile, i giornali hanno iniziato a seguirlo con più attenzione. E lui li ha esaltati.

Conte ha generato lo stesso livello di eccitazione che generò Van Gaal agli ultimi Mondiali, prima che si unisse al Manchester United. A differenza di Van Gaal, tuttavia, non è stata la sua competenza tattica a impressionare. Era quanto Conte riuscisse a comunicare emozioni. Il taglio procuratosi esultando con Zaza dopo che Pellè diede il colpo di grazia al Belgio. Calciare via il pallone contro la Spagna, e quasi scavalcare la panchina con i pugni in aria a esultare per la vittoria. La reazione, qui in Inghilterra, fu come quella di scoprire un album seminale cinque anni dopo la sua uscita. Ci aspettavamo il Mourinho italiano, ma l’unico punto in comune sembra, per ora, con lo “Happy One”. Così almeno si definì José quando tornò al Chelsea tre anni fa. Una definizione che non ha resistito molto, e forse non lo farà nemmeno per Conte, quando si renderà conto di essere passato da Leonardo Bonucci a David Luiz, o quando Diego Costa sarà squalificato per un cartellino rosso inutile. Per ora, comunque, è tutto sorrisi. Amichevole e cordiale, non c’è niente di agghiacciante nel Conte inglese.

Alla sua presentazione, ha parlato di «una fiammella tremolante che potrebbe trasformarsi in un gigantesco inferno». La miccia è stato il gol di Diego Costa al minuto 89, decisivo per battere il West Ham all’esordio. Conte ha corso fino alla linea di fondo, praticamente saltando in mezzo al pubblico, abbracciando e dando il cinque ai tifosi. Anche sua moglie Elisabetta e la figlia Vittoria celebravano, da dietro la panchina. Prima della partita, i tifosi avevano organizzato una coreografia per dargli il benvenuto. Hanno tenuto in alto i colori verde, bianco e rosso della bandiera italiana nel Matthew Harding stand. «Mi sono un po’ emozionato», ha detto Conte poco dopo. Eccola, ancora quella parola: emozione. I tabloid hanno dipinto Villas Boas come un nerd, il “laptop manager”, il Napoleon Dynamite del calcio. Si sbagliavano. Era acculturato, sofisticato e profondo. Una sera, a cena con Franco Baldini, l’ex dirigente della Roma citò un verso di Amleto: «Se sia più nobile nella mente soffrire», e AVB lo terminò: «i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna». Villas Boas aveva ragione sulla Premier League. Conte ci si trova perfettamente a suo agio. In Inghilterra, «le emozioni sono tutto».

 

Articolo originariamente apparso sul numero 12 di Undici