Il rinascimento degli attaccanti italiani

Domenico Berardi, Leonardo Pavoletti e Andrea Belotti: chi sono i tre giocatori offensivi della Nazionale del futuro.

Una cosa che siamo portati a fare, con Berardi, è immagazzinarne le qualità: cristallizzarle in gesti tecnici sconvolgenti (il destro al volo contro la Lituania, in Under 21, o la prontezza d’esecuzione di un gol all’Empoli), isolarle in giocate da clip (l’assist a palombella contro il Napoli), o sintetizzarle in caratteri cubitali (dopo le quattro reti al Milan, nel 2014, la percezione è cambiata per sempre). Il risultato è stato appiattirne la consistenza, umana e calcistica: il ragazzo venuto dalla Calabria, scoperto per caso, che diventa in poco tempo il ribelle dai troppi cartellini, fortissimo ma dai tratti caratteriali acuminati.

La visuale che ci perdiamo è l’aspetto più rilevante di Domenico Berardi: l’essere diventato, a 22 anni, il leader tecnico del Sassuolo, stella in ascesa di una squadra in ascesa. Il calo realizzativo che si è verificato nella scorsa stagione rispetto a quella del debutto in Serie A (16 gol del 2013/2014 contro i 7 del 2015/2016) è stato analizzato come un calo generale di rendimento del giocatore: invece, in questi due anni, Berardi ha aumentato le proprie responsabilità, verso sé e verso la squadra, diventando in via definitiva il fattore più determinante nella pericolosità offensiva del Sassuolo. Una specie di regista decentrato, «un uomo squadra di straordinario valore», per dirla con Arrigo Sacchi.

La stagione 2015/16 è stata quella della maturazione tecnica e carismatica per Berardi

Berardi non è il giocatore puramente estroso, da cui ci si aspetta semplicemente la giocata isolata per spaccare la partita. È un calciatore moderno nel senso più vero del termine, collante di qualità tra i vari reparti. Non vuole essere servito per tentare il numero a sensazione, non è un innamorato cronico del pallone e dell’azione in solitaria: quando riceve la sfera, o si appoggia a un giocatore smarcato o va immediatamente alla ricerca della profondità. Tiene palla solo quando c’è spazio per attaccare, dove può far valere le sue qualità nell’uno contro uno. Perciò non è né un 10 classico, né un’ala a tutto tondo, né una seconda punta: non è nessuna di queste cose, è tutte queste cose insieme.

Il miglioramento è visibile anche nei numeri. Le qualità tecniche, Berardi le ha sempre esibite: nell’arco delle prime tre stagioni in Serie A, il numero di tiri e dribbling è rimasto pressoché lo stesso (35 tiri del 2013/2014 contro i 31 della scorsa stagione i tiri, 31-27 i dribbling, dati Opta). È nel Berardi calato nel contesto di squadra che vanno individuati i miglioramenti: più passaggi lunghi (da 35 a 54 quelli riusciti), più verticalizzazioni (da 228 a 343), più cross (da 45 a 69). Senza contare il costante lavoro di ripiegamento: l’ultima stagione segna 3,59 palle recuperate a partita, quando la media del ruolo in A è di 2,03. L’universalità delle giocate, raggiunta in così breve tempo anche grazie al sapiente lavoro di Di Francesco, indica come Berardi sia uno degli esempi italiani più riusciti nel mix tra talento, intelligenze e applicazione.

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Pavoletti segna, e dice: «Potevo essere pompiere o meccanico, non pensavo di diventare un calciatore professionista. Il mio carattere è questo, e sarebbe rimasto tale anche se avessi fatto qualcos’altro». È un ragazzo ventisettenne qualunque nel corpo di un formidabile attaccante, anzi, del miglior attaccante italiano, numeri alla mano: lo scorso anno, tra i giocatori che hanno segnato almeno sei volte, è il terzo per media gol/minuto (uno ogni 136, dietro solo Higuaín e Dybala). Fanno 24 in 39 partite con il Genoa, e prima erano stati 16 a Lanciano (poi promosso in B), 11 a Sassuolo (poi promosso in A), 24 a Varese. Qualche tempo fa diceva: «Non ho qualità eccelse, per questo sono sempre stato uno che metteva più carattere degli altri». Il gol è un suo personale terreno di conquista: per ogni dribbling non riuscito, ha saltato tre centimetri più in alto, per ogni palla non controllata, ha messo in conto uno sprint in più nell’arco della gara.

Segna perché ha accorciato le distanze e dilatato lo spazio dove muoversi. Prendete il gol al Torino, lo scorso anno: gli arriva un pallone in profondità, servito da Gakpé, ma è un po’ troppo forte e non può controllarlo. Allora, per anticipare l’uscita bassa del portiere, si sdraia, letteralmente, schiena a terra, arpionando il pallone e scagliandolo verso l’alto, come se l’avesse colpito con un’enorme mazza da golf. La padronanza dello spazio è il suo punto di forza: Pavoletti è un classico nove da area di rigore, di quelli che pensi non nascono più. E invece no: difende palla, svetta nei duelli arei (l’anno scorso ne ha messi insieme 4,6 a partita, il migliore dell’intera Serie A), scambia con i compagni che si inseriscono, detta loro il passaggio con un cenno quasi impercettibile, il braccio disteso verso la macchia d’erba e l’attimo in cui colpirà. Nell’anticipo è superbo: i primi due gol in questa A, al Crotone, sono arrivati così, prima di testa e poi con un’estirada prepotente, come se stesse azionando un braccio meccanico.

La prima doppietta di Pavoletti nella stagione in corso, contro il Crotone

Diceva di bloccarsi quando le cose non giravano per il verso giusto, e forse questo gli ha impedito di imporsi fino in fondo a Sassuolo, che nel gennaio 2015 lo ha girato al Genoa. Qui Pavoletti ha scoperto una sua nuova versione: ha imparato a convivere con gli errori, con la concorrenza, con la panchina. Il primo gol in rossoblù, contro il Parma, non è un capolavoro di tecnica, ma di concentrazione, perché poco prima, nella stessa partita, aveva sbagliato due facili occasioni, e anche in modo grossolano. Non farsi condizionare dalle avversità è stato il primo passo per una crescita personale, ancor prima che tecnica. Oggi Pavoletti assorbe solo le cose buone, come il boato dello stadio dopo un suo gol che echeggia dentro di lui, anche a ore di distanza: del Genoa è diventato non solo un punto di riferimento in campo, ma anche un leader, tecnico ed emotivo.

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C’è un gol che, in qualche modo, racchiude le qualità di Belotti e, insieme, le sue aspirazioni. Lo ha segnato a Udine, lo scorso aprile, in una larga vittoria del Toro: l’azione parte da un calcio d’angolo dei friulani, con la palla spazzata fuori e Belotti che, portandosela avanti con il petto, supera di slancio un avversario, facendo partire una pazza corsa di 70 metri, proseguita con la prepotenza nel saltare un difensore e la freddezza nel concludere a rete con il destro. Una rete molto simile l’aveva segnata Shevchenko nel 2000, contro il Bari, con una dinamica un po’ diversa (conclude con il sinistro invece che con il destro e aggira, anziché superarlo sullo slancio, l’ultimo difensore), ma con tanti punti in comune: progressione, esplosività, tecnica. Se chiedete a Belotti chi è il giocatore a cui si ispira, risponderà: «Shevchenko, attaccante fantastico in campo, umile nella vita di tutti i giorni, uomo completo». E Gattuso, che lo aveva allenato per un breve periodo a Palermo, ha detto: «Dopo Sheva, ho visto solo Belotti tirare quindici-venti volte in porta ad ogni allenamento e centrare sempre la porta. Ha un veleno addosso incredibile».

Il gran gol nella scorsa stagione contro l’Udinese

Tanto timido e mansueto nella vita privata, quanto feroce in campo: «Nel calcio sono pronto a tutto: la partita è come una battaglia». Per il calcio ha affrontato, a soli diciannove anni, una sfida personale che non era sicuro di vincere: partire per Palermo, piazza, stimoli e pressioni diverse dal familiare Albinoleffe, a due passi da casa. La notte non dormiva, e allora telefonava a casa o al suo amico Juri Gallo, quello che sarà l’ispiratore della sua classica esultanza. Poi sono arrivate le reti, 16 in due anni, a svelare un segreto che segreto non era, l’abilità di Belotti di colpire in tutti i modi, con una straordinaria rapidità di esecuzione. Dal 2013, quando diceva di prediligere il ruolo di «seconda punta a sinistra», a oggi, Belotti si è progressivamente avvicinato alla porta, facendo così risaltare la sua pericolosità negli ultimi metri. Il Belotti granata, al secondo anno giocato in Serie A, tira e segna il doppio rispetto alla versione palermitana: gli 1,2 tiri a partita sono diventati 2,1, i gol sono stati 12 dopo i 6 di un anno prima. Alla crescita fisiologica di un giocatore di soli 22 anni, sta corrispondendo una precisazione del ruolo: se in passato, con Iachini e Ventura, Belotti aveva giocato in un attacco a due punte, Mihajlovic quest’anno gli ha ritagliato un ruolo da punta centrale nel 4-3-3. E lui ha risposto: sono già sei i gol otto partite. La diversa collocazione tattica non annacqua, al più rende affascinante il lavoro di ricamo offensivo eseguito da Belotti: un movimento a mo’ di elastico, che si accorcia e si allunga in previsione dei movimenti della difesa avversaria, in modo da assicurare sempre profondità e agevolare l’inserimento in area dei compagni.

 

Tratto dal numero 12 di Undici. Nell’immagine in evidenza, Andrea Belotti esulta dopo un gol al Bologna, lo scorso 28 agosto (Valerio Pennicino/Getty Images)