La crescita di Dries Mertens

Su di lui nessuno voleva scommettere: troppo basso, troppo gracile. Com'è stata la costruzione della carriera del belga, fino al presente di Napoli.

L’unico libro in circolazione che parla di Dries Mertens è un romanzo a metà tra la rievocazione e l’opera di fantasia intitolato Zo werden wij wereldkampioenCosì siamo diventati campioni del mondo. Nel testo gli autori Joost Houtman e Patrick Bernhart ripercorrono l’avventura della Nazionale belga al Mondiale brasiliano del 2014, cambiando però l’epilogo e immaginando che i Diavoli Rossi, dopo aver sconfitto ai supplementari l’Argentina nei quarti, escano vincenti dal derby dei Paesi Bassi contro l’Olanda in semifinale, per poi sollevare la coppa al termine di un tiratissimo match contro i padroni di casa del Brasile. Lo strappo tra realtà e fantasia lo produce una super prestazione di Mertens, inafferrabile per qualunque giocatore dell’Albiceleste lungo i centoventi minuti di gioco. In quest’opera bizzarra ma tutt’altro che memorabile, quella dell’attaccante del Napoli è la figura più a fuoco, forse perché la più aderente alla morale del libro, ben riassunta dalla frase iniziale: Niet is onmogelijk voor hen die willen. In Italia diremmo, traducendo liberamente, volere è potere. Se dai calciatori si può imparare qualcosa che esuli dall’ambito del campo (un gesto tecnico, una lettura di gioco), allora varrebbe davvero la pena dedicare un po’ di tempo a Mertens, autentico self-made man del pallone, capace di costruirsi la carriera passo dopo passo, partendo dal fondo senza saltare nemmeno uno scalino. Più forte di tutto e di tutti, pregiudizi inclusi.

Una volta Roberto Saviano ha scritto di Lionel Messi: «Si dice che il calabrone non potrebbe volare perché il suo corpo è sproporzionato alle ali. Ma il calabrone non lo sa e vola. Messi, con quel suo corpicino e i problemi di crescita, non potrebbe giocare nel calcio moderno tutto muscoli e potenza. Solo che Messi non lo sa. Ed è per questo che è il più grande di tutti». Un’altra cosa che Messi ha fatto a sua insaputa è stata quella di aver cambiato una certa cultura del calcio, secondo la quale i mingherlini era meglio lasciarli dov’erano, perché ad alti livelli sarebbero rimasti schiacciati. Senza Messi, con tutta probabilità Mertens una chance nemmeno l’avrebbe avuta. Sarebbe rimasto il “nano da guardino” etichettato dal capo scout del Nec Nijmegen Henk Grim dopo che lo vide sui campi della Eerste Divisie, la seconda divisione olandese, e lo depennò dalla propria wish list perché tanto in Eredivisie non avrebbe mai potuto farcela. Grim era in buona compagnia; prima di lui, sia l’Anderlecht che il Gent – o meglio, i loro vivai – lo avevano messo alla porta. Ragazzino di talento, nessuno lo negava, tocco veloce, sinistra, destra, tunnel, gli avversari non ci capivano nulla quando il piccolo Dries aveva la palla tra i piedi. Ma era un kleine muis, un topolino, e lo sanno tutti che fine fanno quelle bestiole.

Il 2012/13 di Mertens, con la maglia del Psv

Uno scricciolo di un metro e sessantanove centimetri, Dries Mertens. Stessa altezza di Messi, quarantotto giorni di differenza all’anagrafe ma, al crepuscolo dell’adolescenza, una voragine tra le carriere dei due. Nel giugno del 2006, mentre Messi disputava il Mondiale in Germania, Mertens correva nei boschi di Apeldoorn per prepararsi alla sua prima stagione da professionista, nell’Agovv, serie B olandese. Alle spalle, solo 14 presenze nell’Eendracht Aalst, terza divisione belga. Nel suo paese, sembrava che nessuno fosse disposto a offrirgli di più.

Nell’ultimo decennio il calcio belga è cresciuto a livello esponenziale sotto ogni profilo, grazie al lavoro di numerose persone – George Leekens, Michel Sablon, Dick Advocaat, Marc Wilmots – che, in tempi e con modalità diverse, hanno modernizzato e professionalizzato l’intero sistema, riuscendo anche a tradurre tale processo innovativo in risultati concreti sul campo. Quando però a metà degli anni Duemila il giovane Mertens si arrabattava alla ricerca del pertugio giusto in cui infilarsi per far decollare la propria carriera, il Belgio era in piena fase di lavori in corso, con il retaggio di quel calcio fisico e atletico che aveva permesso ai Diavoli Rossi di scrivere le pagine più belle della loro storia (dalla finale di Euro ’80 al quarto posto di Mexico ’86, senza dimenticare, a livello di club, il Brugge finalista della Coppa Campioni ‘78 e il Mechelen vincitore di Coppa Coppe e Supercoppa Europea nell’88) ancora ben lontano dall’essere archiviato.

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Dries Mertens si esibisce in una rovesciata durante un allenamento con la Nazionale belga (Martin Bureau/Afp/Getty Images)

Il 9 febbraio 2005, esattamente sei anni prima dell’esordio di Mertens in Nazionale, i Rode Duivels travolti 4-0 in amichevole dall’Egitto schieravano in attacco i fratelli Mpenza, un concentrato di muscoli, e delegavano la fantasia ai guizzi di Thomas Buffel in fascia e alle geometrie di Walter Baseggio in mezzo. Nel ranking FIFA galleggivano tra la 50esima e la 60esima posizione, e non è difficile capire perché. Erano anni nei quali lo stesso Baseggio rappresentava il prodotto di esportazione belga in Italia, assieme a Mudingayi, Vanden Borre e Sergeant (quest’ultimo autentica chicca al contrario del mercato minore italico, visto che tre anni prima di firmare con il Bari lavorava ancora come assicuratore part-time, ma qualcuno riuscì lo stesso a stupirsi perché fu un flop). Già a 18 anni Mertens era tecnicamente due o tre spanne sopra ai colleghi citati, ma non esistevano (ancora) le premesse culturali e ambientali per permettergli di emergere. Per questo ha fatto le valigie e se ne è andato.

La storia di molti giocatori inizia sull’asfalto di strade, piazze e marciapiedi. Quella di Mertens affonda nel fango. Leuven, nel cuore delle Fiandre, è una delle città di cultura del Belgio, grazie alle sue numerose università. La famiglia Mertens ha però sempre propeso più per l’aspetto sportivo, e non a torto visto che papà Herman è stato un ginnasta di successo, con diversi titoli messi in bacheca. Dries però sceglie il calcio, e non quello a cinque che gli consigliava uno specialista di Anversa interpellato dai genitori in merito all’eccessiva gracilità del figlio. Dries vuole giocare a undici, e prima della nascita nel 2002 dell’Oud-Heverlee Leuven, club nel quale si sono fuse le tre società calcistiche locali, ciò significava calcare terreni sui quali già a ottobre non si vedeva più un filo di erba, perché venivano utilizzati da tutte le squadre del club, partendo dai Duveltjes (Diavoletti, età 5-6 anni) fino alla prima squadra. Dall’autunno fino a tarda primavera, piscine di fango più che campi da calcio.

Il Mondiale 2014 di Mertens

Oggi non esistono più: il primo terreno di gioco calcato da Mertens è diventato un campo da rugby, il secondo un parcheggio dietro allo stadio dell’Ohl. Non esiste più nemmeno l’Agovv di Apeldoorn, altra location tutta boschi, pioggia e fango che per un breve periodo ha agito da pista di decollo per alcune ottime carriere. Lì Klaas-Jan Huntelaar è stato capocannoniere di B (26 gol in 35 partite) e si è visto intitolare, a 24 anni di età, una tribuna dello Sportpark Berg & Bos. Poi sono arrivati Nacer Chadli e, appunto, Mertens. Per lui tre stagioni, 44 gol e il Gouden Stier (Toro d’oro) 2009, premio conferito al miglior giocatore del campionato.

Mertens è lo sleeper per eccellenza del calcio. Ha debuttato da pro a 19 anni (11 agosto 2006, Agovv-Cambuur 3-1), in Eredivisie a 22 (1 agosto 2009, Rkc-Utrecht 0-1), in Nazionale a 23 abbondanti (9 febbraio 2011, Belgio-Finlandia 1-1), in Champions League a 26 (Napoli-Borussia Dortmund 2-1). Dai bassifondi alla provincia fino all’élite del calcio olandese, poi ancora più su, in Serie A. Tre stagioni all’Agovv, due all’Utrecht, due al Psv, quattro al Napoli, per una carriera che non ha mai bruciato le tappe, tenendo però sempre la freccia puntata verso l’alto. Ogni stagione meglio della precedente. Il primo anno all’Utrecht finisce secondo dietro a Luis Suárez (Ajax) come mvp della Eredivisie, in quello successivo stabilisce il suo primato di assist (24), due dei quali regalati in un pirotecnico 3-3 in Europa League contro il Napoli di uno scatenato Cavani, match che segna il suo debutto in una manifestazione europea.

NAPLES, ITALY - OCTOBER 26: Dries Mertens and Piotr Zielinski of Napoli celebrates a goal 1-0 scored by Dries Mertens during the Serie A match between SSC Napoli and Empoli FC at Stadio San Paolo on October 26, 2016 in Naples, Italy. (Photo by Francesco Pecoraro/Getty Images)
Dries Mertens e Piotr Zielinski, abbracciati, dopo il gol del belga contro l’Empoli lo scorso 26 ottobre (Francesco Pecoraro/Getty Images)

Il Psv lo prende per sostituire l’ungherese Dszudszak, lui si presenta con 11 gol nelle prime 8 giornate e chiude a quota 27 complessivi, colonna portante di un attacco atomico da 130 reti stagionali, anche se incredibilmente il titolo non arriva. In squadra ci sono Wijnaldum e Strootman, quest’ultimo già compagno di Mertens nell’Utrecht e suo autentico opposto, non solo a livello fisico, visto che in meno di dodici mesi passa dalla B con lo Sparta Rotterdam alla maglia della Nazionale. L’anno successivo Mertens trova ancora il Napoli in Europa e gli piazza una combo di gol più assist nel 3-0 finale. Le sue statistiche continuano a mantenere un formato over-size, chiaro segnale che Eindhoven, e l’Olanda, iniziamo a diventare ambienti troppo limita(n)ti. Poco prima di andarsene, uno degli opinionisti più velenosi dei Paesi Bassi, Johan Derksen, gli chiede pubblicamente scusa per averlo chiamato kabouter, gnomo. Aveva capito – disse – che la grandezza di un calciatore non era determinata dai centimetri.

La freccia verso l’alto Mertens l’ha mantenuta anche a Napoli, nonostante per la prima volta si sia trovato a vestire i panni della riserva di lusso, quantomeno a livello di club, visto che in Belgio, tra Hazard, De Bruyne, Fellaini (almeno quello periodo Everton) e Ferreira Carrasco, lo spazio è sempre stato esiguo. Non c’è voluto molto per appiccicargli l’etichetta di dodicesimo uomo per eccellenza, capace di rendere meglio da subentrato piuttosto che da titolare. È stato così con Rafa Benítez, ancora di più nel primo anno di Maurizio Sarri: 57% di presenze da titolare (considerate tutte le competizioni) nel 2013/14, 63% nel 2014/15, solo il 33% la passata stagione con Sarri, quando il turnover si è fatto meno “scientifico” rispetto alle rotazioni di Benítez. Tuttavia un esame più approfondito mostra come Mertens sia risultato più efficace sotto la guida del tecnico toscano, andando a segno una volta ogni 152,91 minuti, mentre nelle precedenti stagioni la media si attestava rispettivamente a 200,00 e 305,70.

Lo scoppiettante inizio di stagione di Mertens

Come già visto, però, in casa Mertens vige il detto volere è potere, che non è stato abbandonato nemmeno alle pendici del Vesuvio, quindi eccolo iniziare la sua quarta stagione in azzurro con i migliori numeri della sua carriera: 6 gol e altrettanti assist in 906 minuti disputati, per una media di uno ogni 51 minuti, mai avuta nemmeno nei suoi anni d’oro olandesi (il suo top a livello di gol è stato 152,48 nella stagione 11/12, e come assist 153,33 nella stagione 12/13). Ha scavalcato nelle gerarchie Lorenzo Insigne, giocatore dalle caratteristiche molto simili al belga ma circondato da un hype ben differente, e si è scoperto anche valido interprete del ruolo di prima punta dopo l’infortunio di Arek Milik. Falso nove è il termine che va di moda, ma contro l’Empoli Mertens ha totalizzato 11 conclusioni verso la porta avversaria, un record per un giocatore in una singola partita dell’attuale Serie A. Un falso nove fin troppo vero. Un giocatore che si è da solo, mattone dopo mattone. Dal fango di Leuven all’oro di Napoli.

 

Nell’immagine in evidenza, Dries Mertens durante la gara di Champions dello scorso primo novembre contro il Besiktas (Ozan Kose/Afp/Getty Images)