Il mestiere del gol

David Villa e gli infiniti modi di segnare: storia di un attaccante sottovalutato, eppure decisivo ovunque ha giocato.

È il trentacinquesimo del primo tempo della semifinale del Mondiale per club 2011. In campo, all’International Stadium di Yokohama, ci sono Al Sadd e Barcellona, in una partita che, già prima del vantaggio firmato Adriano dieci minuti prima, aveva ben poco da dire. Su un lancio lungo di Iniesta, David Villa, come fa da un’intera vita calcistica, si butta sulla traccia interna tra i due centrali difensivi pericolosamente larghi. Agganciasse come deve quel pallone, sarebbe 2-0: capita, invece, che per un lievissimo errore di misura, il numero 7 perda il tempo di quel tanto che basta da costringerlo a un’affannosa rincorsa alla ricerca della sfera, che gli fa piantare malissimo la gamba sinistra. Che sia un infortunio abbastanza serio lo si capisce ben prima della successiva diagnosi, che racconterà di tibia rotta e di stagione finita prima del tempo.

Eppure, uscendo dal campo in barella, Villa non si contorce dal dolore: testa e sguardo bassi, sembra stia riavvolgendo il nastro dell’esistenza. Tornando, probabilmente, all’età di 4 anni, quando la frattura del femore destro divenne l’occasione per lavorare sul piede sinistro. Quasi per gioco, come accade a tutti i bambini di quell’età, e con una figura di riferimento che si rivelerà fondamentale: «Mio padre è rimasto accanto a me per tutto il tempo della convalescenza, lanciandomi il pallone in continuazione e spronandomi a calciare di sinistro. Da quel momento in poi, in ogni allenamento della mia vita ho ricordato gli insegnamenti di mio padre. Non mi sono mai sentito solo in un campo di calcio».

 

Mucha fuerza, Guaje

Avrebbe segnato di sinistro, proprio su assist di Iniesta, anche al rientro dall’infortunio di Yokohama, in un 5-1 alla Real Sociedad, memorabile per quella frase “impossible senza di voi” stampata sulla maglietta celebrativa. Una sorta di messaggio d’addio, soprattutto alla luce di quel che sarebbe accaduto di lì a pochi mesi: sarebbe stato proprio l’asturiano, infatti, il sacrificato eccellente sull’altare dell’arrivo di Neymar in Catalogna. In piena continuità con una parabola sportiva che ha dell’incredibile.

Perché il destino di David Villa è strano, anzi stranissimo. Sottovalutato per eccellenza, non avrebbe niente dell’underdog tradizionale: ha vinto tutto ciò che c’era da vincere, è il capocannoniere all time nella storia della Nazionale spagnola (59 gol in 97 presenze, nonché primo marcatore delle Furie Rosse nelle fasi finali dei Mondiali), è stato per quattro anni consecutivi, dal 2006 al 2010, il vincitore trofeo Telmo Zarra destinato al giocatore spagnolo che ha segnato di più in una singola stagione di campionato (per un totale di 81 reti: con la maglia del Valencia, non con quella delle grandi tradizionali), in carriera conta 411 gol in 818 partite (tra club, Nazionale e squadre giovanili), con una media realizzativa di poco superiore allo 0,50. Eppure di lui non si parla mai per quel che è, ovvero uno dei primi dieci giocatori della storia del calcio iberico.

Chile v Spain: Group H - 2010 FIFA World Cup

Probabilmente anche in virtù del suo essere l’antipersonaggio per eccellenza: profilo Instagram minimalista, pagina Facebook che si limita a segnalare riconoscimenti individuali (l’ultimo il premio come MVP della Mls 2016), un’evidente idiosincrasia nella diffusione della propria immagine, come si intuisce anche da questo video. Ma il tutto non sembra essere ragione sufficiente a spiegare come mai l’uomo che ha dato concretezza (leggasi gol: tanti, belli e, soprattutto, decisivi) alla grandeur spagnola venga sempre ricordato dopo tanti altri. Eppure staremmo sempre parlando dello sport in cui vince chi segna più dell’avversario: e, nella Roja del triplete euro-mondiale, nessuno ha segnato più di lui.

Il motivo, probabilmente, va cercato nell’unico elemento della carriera di Villa che richiami la narrativa dell’underdog: la lotta contro la diffidenza altrui. Nel caso di specie, diffidenza sulle sue qualità fisiche. Le perplessità che hanno accompagnato Villa durante l’arco della sua carriera sono state le stesse di quando, a 14 anni, si sentì dire dai responsabili del settore giovanile dell’Oviedo di non avere «abbastanza potenziale fisico per esprimere le sue qualità tecniche». E, se fate fatica a credere che anche nella Spagna del tiqui taka, un giocatore possa essere scartato perché fisicamente non all’altezza, considerate che il primo contratto da professionista Villa l’ha strappato a 17 anni con una squadra di Segunda División (lo Sporting Gijón) e che la definitiva consacrazione è avvenuta a cavallo dei 25: in entrambi i casi, quindi, notevolmente in ritardo rispetto alla normale tabella di marcia di un calciatore di livello medio-alto.

CORRECTING NAME OF OPPONENT CLUB Valenci

Eppure la sua unicità è una diretta conseguenza proprio di questo particolare: l’essersi saputo adattare a due diverse epoche del calcio spagnolo, diventando il prototipo dell’attaccante moderno e giovandosi di una fisicità (1.75 per 75 chili, non a caso lo chiamano El Guaje, il bambino) che gli ha permesso di interpretare perfettamente il ruolo di finalizzatore ideale per quella specifica filosofia di gioco. Non è un caso che, nel 2009, uno come Emilio Butragueño dichiarasse a El País: «Fisicamente Villa non è un portento, ma è un giocatore completissimo: può giocare sia da prima che da seconda punta, è in possesso di visione di gioco, di tecnica, e in area è distruttivo».

Ancora oggi risulta difficile stabilire dove e quando Villa abbia dato il meglio di sé, avendo giocato (bene) e segnato (tanto) da seconda punta, da esterno d’attacco e da centravanti. Più semplice, invece, notare come ciascuno di questi ruoli sia coinciso con una fase specifica della carriera, quasi a testimonianza di un’evoluzione continua culminata nella stagione 2013/14 disputata con l’Atlético Madrid. Non la migliore dal punto di vista realizzativo (13 reti in 36 presenze nella Liga), ma quella in cui sfrutta l’intero bagaglio tecnico arricchito dall’aver giocato in sistemi offensivi molto diversi tra loro. Con il primo gol in maglia colchonera che è paradigmatico. Non tanto perché lo segna proprio al Barcellona (nella gara d’andata della Supercoppa spagnola) che lo aveva scaricato senza tanti complimenti qualche mese prima, quanto, piuttosto, per la completezza dell’intero gesto tecnico: c’è il venire incontro alla palla per dare ad Arda Turan la sponda ideale per un triangolo di 30 metri, c’è l’attacco della profondità della punta agile che capisce in anticipo dove arriverà il passaggio e c’è, naturalmente, la conclusione al volo, splendida, del bomber di razza.

Il primo gol in maglia Atlético

Attaccare lo spazio, attaccare la porta

Quando viene acquistato dal Saragozza, nell’estate del 2003, la fama di Villa è quella di una seconda punta dai grandi mezzi tecnici che, per esprimersi al meglio, necessita di un compagno che gli porti via uomini e marcature, lasciandogli quanto più campo possibile da attaccare in velocità. Il reparto offensivo della squadra di Francisco Flores è abbastanza variegato proprio per garantire un’ampia varietà di soluzioni: oltre a Villa ci sono il brevilineo Luciano Galletti, e i due pivot Garcia Lara e Jordi a garantire sponde, muscoli e centimetri. El Guaje è l’unico punto fermo (94 le presenze tra campionato e coppe nelle due stagioni in Aragona), perché riesce a integrarsi alla perfezione con ciascuno di loro. Partendo rigorosamente da lontano e attaccando prevalentemente il centro sinistra, tagliando dall’esterno verso l’interno e sfruttando lo spazio alle spalle del centravanti. C’è un gol realizzato al Real Madrid al Bernabéu che spiega meglio di tante parole il Villa degli esordi in Liga: istintivo nella lettura della singola situazione di gioco, letale quando viene lanciato in campo aperto, freddo nell’istante di concludere a rete. Samuel ed Helguera vengono saltati con una facilità quasi disarmante e persino uno come Casillas può fare poco quando il numero 9 si presenta al suo cospetto.

Un saggio delle qualità di Villa ai tempi del Saragozza

Come ha ricordato Pepe Acerbal, dirigente di lungo corso dello Sporting Gijón, in un’intervista di qualche tempo fa al Guardian, «Villa ha sempre avuto grandi qualità tecniche, nonostante non fossi sicuro sarebbe riuscito a esprimerle del tutto. La sua capacità migliore era quella di correre in diagonale per eludere la marcatura dei difensori più grossi di lui, prendendo sempre la decisione giusta in un lasso di tempo brevissimo. È sempre stato uno molto intuitivo».

Da qualche parte, intanto, Luis Aragonés sta prendendo appunti. È da tempo che sta pensando alla spalla ideale di Fernando Torres nella Selección e con Villa la ricerca può dirsi finalmente conclusa. Dopo le prove generali ai Mondiali del 2006 (tre reti a testa), il dinamico duo trova la consacrazione agli Europei di Austria e Svizzera: le caratteristiche tecniche dei due si sposano a meraviglia e rappresentano l’ideale per il 4-4-2 (che diventa 4-3-1-2 quando Iniesta si alza ad agire tra le due linee di centrocampo e attacco) della Spagna che ha già implementato il principio del palleggio alla ricerca dello spazio da attaccare dal lato debole. Villa e Torres sono semplicemente perfetti nell’alternarsi nel ruolo di prima punta a chiamar fuori la difesa avversaria, lasciando ampie fette di campo aggredibili dalle mezzali. Dichiarerà qualche tempo dopo lo stesso Guaje: «Con Fernando ci completiamo alla perfezione sul terreno di gioco, perché lavoriamo in coppia e siamo in grado di creare occasioni l’uno per l’altro». La dimostrazione pratica arriva nella seconda partita del torneo, contro la Svezia di Ibrahimovic. Al minuto 89, con le squadre sull’1-1, un rilancio di Capdevila trova Villa lesto ad inserirsi alle spalle del primo centrale e a saltare il secondo con un pregevole tocco a seguire.

Si tratta di una rete la cui importanza è stata troppo spesso sottovalutata. Con quel gol il dilettevole viene piegato all’utile, la filosofia di Aragonés trova applicazione pratica e la mole di gioco delle Furie Rosse vede finalmente due finalizzatori degni di questo nome. E il fatto che sia Torres a segnare la rete decisiva nella finale di Vienna contro la Germania non cancella il fatto che sia stato David Villa il capocannoniere di Euro 2008 con quattro reti.

Centravanti (non) di sfondamento

Nemmeno quando, considerando il peso specifico dei gol, porta praticamente da solo la Spagna alla vittoria del titolo mondiale due anni dopo. Perché se è vero che tutti ricordano il lampo di Iniesta nella notte di Johannesburg, è altrettanto vero che, con il “gemello diverso” Torres  già entrato in una fase involutiva, il peso dell’attacco di Del Bosque ricade interamente sulle spalle del numero 7. La risposta si sostanzia in cinque marcature, una più decisiva dell’altra, che raccontano di come Villa sia il perfetto terminale offensivo di una squadra che prima controlla il ritmo delle partite con una fase di palleggio impareggiabile, e poi le risolve con accelerazioni improvvise: c’è la sintesi tra capacità tecniche e qualità di calcio nella rete all’Honduras, l’istinto e l’immediatezza della giocata in quella contro il Cile, l’opportunismo del grande centravanti in quelle contro Portogallo e Paraguay.

La rete contro l’Honduras

Il termine centravanti non è utilizzato per caso. Da quando, nell’estate del 2005, è stato acquistato dal Valencia per 12 milioni di euro, David Villa ha cominciato ad agire da primo (e, spesso, unico) terminale offensivo. Da Quique Sánchez Flores a Unai Emery, passando per Ronald Koeman, ogni allenatore che passa per la Comunitat Valenciana parte da un principio inderogabile: si gioca con Villa e per Villa, in un 4-2-3-1 tutto corsa, tecnica e attacco dello spazio, nel quale il ruolo dell’attaccante centrale viene interpretato alla spagnola. Muovendosi, quindi, tanto in ampiezza quanto in profondità sull’intero fronte offensivo e partecipando attivamente alla costruzione di una manovra in cui i protagonisti della giostra offensiva si scambiano continuamente di posizione, evitando di fornire punti di riferimento alla difesa avversaria. Nel 2008/09, la sua stagione in cui segna di più (31 reti in 43 presenze complessive tra Liga e coppe varie), Villa è il vertice alto di un quadrilatero d’attacco completato da Silva, Mata e Joaquín. In teoria, il primo sarebbe il trequartista alle spalle dell’unica punta e i secondi i due esterni a tutta fascia; in pratica, invece, non ci sono posizioni fisse e gli incroci e gli inserimenti senza palla sono il dogma da seguire in un sistema in cui tutti fanno tutto. E nessuno, meglio del numero 7 riesce a coniugare quantità e qualità in fase di sponda e rifinitura ad una strepitosa continuità realizzativa.

Valencia, stagione 2008/09

Non c’è Mista o Kluivert o Morientes o Zigic che tenga. Giocando da prima punta, il repertorio di Villa diventa più completo che mai: ottimo tiratore di punizioni, tempista anche di testa soprattutto quando si tratta di trovare l’anticipo sul primo palo, praticamente infallibile quando può calciare in diagonale sul palo lungo e/o tagliare alle spalle dei difensori per trovarsi a tu per tu con il portiere. L’innato senso del gol, intuibile già nella prima stagione valenciana nel giorno della tripletta in cinque minuti all’Athletic Bilbao, si giova della nuova posizione più vicina all’area di rigore e la capacità di leggere gli spazi partendo da lontano rendono i suoi movimenti di difficile lettura per i suoi marcatori. Il resto lo fanno la rara facilità di calcio con entrambi i piedi e la capacità di “sentire” la porta indipendentemente dalla zona di campo che occupa.

Ne sa qualcosa il Deportivo

Ritorno al passato, ritorno al futuro

Un centravanti con il fisico della seconda punta e la tecnica del trequartista. Uno che lo spazio lo aggredisce e se lo va a cercare con il movimento piuttosto che occuparlo staticamente. Lo vorrebbe l’Arsenal («David è un giocatore fantastico: è mobile, ha coraggio, non sbaglia mai. Sarebbe perfetto per noi e la Premier League», dirà Fàbregas), ma, nel 2010, se lo prende il Barcellona dietro imprimatur di Johan Cruyff: «Villa non è qui solo per finalizzare le azioni. Lui è sinonimo di profondità, di difese avversarie allargate per favorire le linee di passaggio e aprire gli spazi per gli inserimenti dei compagni». Il vero motivo va letto tra le righe: con Ibrahimovic il Barça aveva provato a percorrere una strada nuova, diversa da quella battuta fino ad allora. Una strada in cui fosse possibile derogare al gioco palla a terra e agli scambi stretti e rapidi in favore della fisicità abbinata alla superiore tecnica di base, soprattutto contro avversari attenti a chiudere ogni possibile linea di passaggio. L’esperimento era fallito in occasione della semifinale di Champions League contro l’Inter mourinhana con Ibra che, da valore aggiunto, si era trasformato nel granello di sabbia in grado di inceppare un meccanismo altrimenti perfetto. Serviva tornare alle origini, alla costruzione antropologica di un tridente offensivo in cui si tornasse a parlare il blaugrana classico: tecnica, velocità, inserimenti senza palla, interscambiabilità di ruoli e posizioni. E, in quel momento, David Villa è il meglio su piazza per tornare a dominare lo spazio e non a subirlo.

Athletic Club v FC Barcelona - Liga BBVA

C’è una partita esemplificativa di come il Barcellona 2010/11 sia cambiato radicalmente rispetto a quello di pochi mesi prima. Il 29 novembre 2010 Mourinho, tornato al Camp Nou da allenatore del Real Madrid, viene letteralmente spazzato via dal campo ben più di quanto racconti la manita finale. La rete del 4-0 è il miglior manifesto possibile del guardiolismo 2.0: recupero palla sulla propria trequarti, break di Messi (liberato dall’ingombrante presenza di Ibra e tornato libero di svariare a piacimento sul fronte offensivo) ad attirare le attenzioni della difesa, e palla a tagliare il campo sull’inserimento di Villa alle spalle di Sergio Ramos. L’attacco dello spazio è perfetto, l’esterno a beffare Casillas in uscita pure.

Il lascito fondamentale dei tre anni del Villa blaugrana non è costituito dai gol o dai trofei, ma dall’idea di calcio da seguire da lì in avanti. Rigorosamente nel solco della tradizione del tridente leggero, tecnico e letale e con lui a fare da trait d’union tra due Barça diversi eppure uguali: da Messi-Eto’o-Henry a Messi-Suárez-Neymar, con quel 2010/11 a fare da spartiacque.

L’ambizione è nei piedi

Per il suo trentacinquesimo compleanno David Villa si è regalato il titolo di miglior giocatore dell’ultima stagione di Mls. Lui che, ad una prevedibile domanda su cosa provasse quando veniva regolarmente snobbato per le liste dei candidati ai premi di fine stagione, replicò: «Non sta a me valutare se il mio rendimento sia stato migliore o peggiore di altri. Mi fa piacere che la gente parli di di me in questi termini, ma davvero non è un’ ossessione. Se mi includono in quelle liste va bene, se non lo fanno va bene lo stesso». Quasi come a voler chiudere uno strano e ideale cerchio, il girare in (semi)anonimato per le strade di New York sembra che lo diverta, anche se è il capitano della squadra locale, il New York City Fc, con cui sta incenerendo ogni record realizzativo. Suo, tra l’altro, il primo gol ufficiale della franchigia, con un’azione che riporta ai tempi del Saragozza: partenza dalla trequarti, accelerazione improvvisa, scambio e destro a giro sul palo lontano.

Il primo gol della sua avventura americana

C’è sempre stato qualcuno o qualcosa contro cui combattere, dagli osservatori perplessi sulle sue qualità fisiche agli addetti ai lavori che parlavano sempre di qualcun altro, ma mai di chi aveva realizzato la rete decisiva. Che, nella maggioranza dei casi, era sempre lui. Alla diffidenza altrui ha risposto con i gol, alle parole ha sempre preferito i fatti. Tranne in un’occasione. Era l’estate del 2008 e, da fresco campione d’Europa, aveva rifiutato il passaggio al Real Madrid. L’allenatore dei blancos Bernd Schuster liquidò la faccenda parlando di un giocatore senza ambizioni. La replica del Villa extra campo, per una volta, fu all’altezza del Villa in campo: «Credo che, nel calcio, l’ambizione si misuri in base ai piedi e non alle parole. Mi si può accusare di tante cose – di aver giocato male, di aver sbagliato qualche gol di troppo – ma non di questo: ho sempre avuto un’ambizione feroce e sempre l’avrò».