Madeleine – Corrado Grabbi

Ritorna la rubrica sugli amori calcistici giovanili con Corrado Grabbi: un predestinato fermato dal fisico fragile e dai troppi infortuni.

Mi mancano i Ramones. Un loro vinile sotto l’albero era la mia tradizione natalizia. Con loro andavo a scatola chiusa, senza bisogno di esercitare tutte quelle attività da simil-archeologo che nell’era pre-internet costituivano il pane quotidiano di un’adolescente alle prese con qualsivoglia passione – musicale, sportiva, (video)ludica. C’erano le riviste specializzate, qualche raro programma tv e stop. Un’informazione approfondita poteva costare mesi di ricerche. Lo stesso valeva per il calcio, soprattutto per chi desiderava guardare oltre l’orticello della Serie A. Agli inizi degli anni 90 nella mia fede calcistica iniziarono a comparire le prime crepe. Piccole fessure che nel tempo avrebbero portato al crollo dell’intero edificio trasformandomi in un ateo del calcio, estraneo a riti e codici del tifo, privo del dogma della Squadra con la S maiuscola.

E’ stato un processo lento, graduale e inconscio, perché non si decide di perdere la fede a tavolino. Accade, punto. Da ragazzino adoravo la Juventus. Tappe di crescita costellate di bianconero. L’addio di Platini contro il Brescia, la notte insonne per la finale dell’Intercontinentale a Tokyo contro l’Argentinos Juniors, la strage di palle-gol di Marco Pacione contro il Barcellona (ci punì lo scozzese Archibald), l’umiliante pomeriggio in compagnia di amici rigorosamente anti-juventini nel quale un manipolo di carneadi rumeni sconfisse la Juve (rigore di Profir), e poi è vero che al ritorno quell’Otetul Galati sarebbe stato distrutto 5-0, ma si giocava di sera e io non avevo nessuno a cui rinfacciare quel risultato.

Michel Platini (R) of Juventus is fighting for the ball against Claudio Borghi (L) of Argentinos Juniors during the 6th Toyoto European/South American Cup held in Tokyo 08 December 1985. The Juventus from Italy got the title 4-3 in a match decided by penalty shots after fulltime and extra-time left the both teams tied 2-2.(FILM) AFP PHOTO (Photo credit should read /AFP/Getty Images)
Michel Platini affronta Claudio Borghi durante un Juventus – Argentinos Juniors giocato a Tokyo nel 1985 (Afp/Getty Images)

Corrado Grabbi per me non è una, ma tante Madeleine. Sportiva, sentimentale, professionale. L’ho conosciuto, come quasi tutti, la sera dell’11 dicembre 1994, Lazio-Juventus, Stadio Olimpico, in una delle partite più belle mai viste in Serie A. Specialmente il primo tempo, che a rivederlo oggi su You Tube viene quasi da piangere se confrontato con la misera realtà odierna. Un’intensità incredibile, palle-gol a getto continuo per entrambe le squadre e due portieri, Marchegiani e Peruzzi, in stato di grazia. 1-1 al riposo, ma se fosse finita 4-4 nessuno si sarebbe stupito. Grabbi era entrato grazie a Cravero, che dopo meno di mezzora si era preso due ammonizioni, e Zeman ci aveva impiegato cinque minuti a comprendere che giocare con un tridente senza un centrale a quei ritmi folli era troppo anche per lui, e quindi fuori Signori – che non la prese molto bene – e dentro Bergodi.

Lippi fece l’opposto, togliendo un difensore (Carrera) per una punta (Grabbi). Amando da sempre le storie e i personaggi minori, non potevo rimanere insensibile di fronte al debutto di questo torinese nipote d’arte (il nonno vinse lo scudetto con la Juve nel 1926) cresciuto a un tiro di fucile dal Comunale, e smazzatosi l’intera lunga trafila delle giovanili bianconere. Entrò nel gol del 2-1, chiudendo bene un triangolo con Conte, che poi crossò basso per il tap-in di Marocchi, ma se ne accorsero in pochi. Fino a quando prese palla a metà campo, si fece venti metri palla al piede nelle praterie della retroguardia laziale, ignorò Ravanelli liberissimo al suo fianco e infilò la palla nel sacco. 4-1. «Questo ne segnerà a caterve in Serie A». Qualcuno lo ha scritto, tantissimi lo hanno pensato. Anche perché quel gol si sarebbe rivelato solo in apparenza inutile ai fini del risultato, visto che il calo di tensione finale della Juve aveva permesso alla Lazio di riportarsi sotto con Casiraghi e Fuser.

Il giorno in cui il “nipote d’arte” segna la sua prima rete in A.

Grabbi ha segnato un solo gol in Serie A. Quel gol. Poi è sparito dai radar del grande calcio molto più velocemente dello spegnimento della mia passione juventina. Si è inabissato tra Serie B e C1, ferito nel corpo e nell’anima. Lo hanno colpito due mali: Moggiopoli e il morbo di Ledderhose. Sul primo, il sistema Moggi, la Gea e relativi derivati, si è detto e scritto di tutto e di più, anche in relazione al mobbing (ma all’epoca non si chiamava così) subìto da Grabbi nel suo periodo juventino. È tutto sul web, basta cercare. Il secondo è invece una rara malattia, chiamata anche fibromatosi plantare, che gli ha provocato un ispessimento della pianta del piede, con conseguente fatica persino a camminare, costringendolo a una lunga serie di operazioni nelle quali gli è stato letteralmente ricostruito il piede. Ecco quindi la Lucchese, il Chievo, quindi Modena, Ternana, Ravenna, di nuovo Ternana, una puntata in Inghilterra nel Blackburn, quindi Messina, ancora Blackburn, Ancona, nuovo ritorno alla Ternana, Genoa, Arezzo, Bellinzona. Un girovagare senza fine, così come senza fine sarebbero le opzioni di un what if applicato alla sua carriera se non ci fossero stati quei due macigni che lo hanno costretto a partire, e viaggiare, con due marce in meno. Quelle che nessuno può più darti indietro.

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Ho ritrovato Grabbi sulla parete di una camera di Del Wijnen, piccolo villaggio del Brabante olandese a una manciata di chilometri da ‘s-Hertogenbosch. Case di legno, biciclette, enormi finestre senza imposte, ante o inferriate. La provincia olandese più profonda, che non concede mezze misure: o fuggi dopo qualche ora, oppure ci vivresti per sempre. Alla seconda ipotesi avevo fatto più di un pensierino. Lei si chiamava Janita, figlia di un pastore calvinista, cresciuta con il divieto di accendere radio, tv e computer alla domenica perché giorno da consacrare al Signore, eppure quando arrivavo io in famiglia si faceva un’eccezione.

Mi volevano bene, lei e i suoi fratelli, e mi auguro non fosse solo per lo strappo alla regola che la mia presenza garantiva. Janita adorava il calcio italiano, io per contro mi trovavo in piena fase di rigetto. I suoi idoli erano Pirlo e, appunto, Grabbi. Quest’ultimo non me l’aspettavo. Blackburn a parte, che visibilità internazionale poteva mai avere questo ex enfant prodige bianconero? Eppure il suo poster era lì, in mezzo alla campagna olandese. Grabbi tornava in Serie A nove anni dopo Lazio-Juventus 3-4. Nel dicembre 2003 era approdato ad Ancona dopo aver lasciato Blackburn con l’etichetta di bidone, ma credo non gli importasse granché. Aver trovato un club di Premier League disposto a pagare 22 miliardi delle vecchie lire per un giocatore confinato tra B e “bassa serie C” (così il diretto interessato) era stata la più dolce delle rivincite.

Corrado Grabbi segna di testa contro il Liverpool in Premier.

Poi l’esperienza non fu memorabile, ma ricordo bene uno dei suoi due unici gol in Premier, un colpo di testa a sette dalla fine che permise al Blackburn di riagguantare il Liverpool di Houllier, che mi fece sfumare un discreto gruzzolo alla Snai. “Ma contro i Reds segnano proprio tutti?”, mi ritrovai a pensare. Mi rifeci su Janita, e ancora oggi un po’ me ne vergogno. Scommisi che Grabbi nell’Ancona non avrebbe segnato nemmeno una rete. Mi guardò come se le avessi proposto un tour notturno al De Wallen di Amsterdam, e accettò. Quello che ignorava erano le condizioni dell’Ancona 2003/04, un’accozzaglia come nemmeno certe maggioranze parlamentari. Il presidente Ermanno Pieroni, dopo un disastroso mercato all’insegna dell’usato (in)sicuro, nel tentativo di retrocedere con stile (parole sue, da mandare ai posteri) aveva cambiato 18 giocatori nel mercato invernale, portando sotto il Conero dei reduci ormai agli sgoccioli di una pur gloriosa carriera (Dino Baggio), fratelli d’arte scarsi (Luis Helguera), pingui controfigure di ex grandi giocatori (Mário Jardel), più altri nomi minori, tutti accomunati dal rendimento impalpabile. Per il ritorno di Grabbi non poteva esistere momento né luogo più sbagliato. Non potevo sbagliare, non lo feci e passai all’incasso (non ricordo cosa c’era in palio, ma non erano soldi).

Ho conosciuto Corrado Grabbi allo Stadio Comunale di Bellinzona, in una magica sera ai piedi dei castelli illuminati. L’origine di tale magia derivava da quelle stupende fortificazioni, non a caso incluse nella lista dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco, perché la Serie B svizzera era un affare esclusivamente riservato a tifosi locali, scout e maniaci di calcio minore. Ero finito lì per seguire un attaccante camerunense, Christian Pouga, mi imbattei in un allenatore con ottime idee e in un esterno bosniaco di caratura decisamente superiore al livello in cui giocava. I nomi? Vlado Petkovic e Senad Lulic.

BLACKBURN, ENGLAND - SEPTEMBER 28: Junichi Inamoto of Fulham battles with Ciccio Grabbi of Blackburn during the FA Barclaycard Premiership match between Blackburn Rovers and Fulham at Ewood Park on September 28, 2003 in Blackburn, England. (Photo by Laurence Griffiths/Getty Images)
Junichi Inamoto del Fulham affronta Ciccio Grabbi in maglia Blackburn during un match di Fa Barclaycard Premiership (Laurence Griffiths/Getty Images)

Essendo passato da poco dall’altra parte della barricata, ovvero da lettore a giornalista, chiesi un’intervista a Grabbi. Era la mia seconda in assoluto. Mi accolse a bordo campo in felpa e jeans. Non giocava per infortunio. Qualche settimana prima aveva interrotto un digiuno di gol ufficiali che durava da oltre un anno, da un Genoa-Sambenedettese di C1 del 23 aprile 2006, segnando in coppa di Svizzera al Gossau. Aveva ricevuto palla spalle alla porta, si era girato alla propria sinistra e aveva incrociato sul palo lontano. Il tutto al rallentatore, perché il suo corpo pieno di cicatrici e dolore non gli permetteva di più.

Una rete da Challenge League, la serie cadetta elvetica. Sapendo che per un attaccante il gol è tutto, gli chiesi se interrompere quel lungo digiuno fosse stata una liberazione. «Assolutamente no», fu la risposta. «Per me la liberazione sarà quando non sentirò più dolore. Sono anni che soffro di vari problemi fisici, su di me la gente ha sperimentato parecchio. Prima di curare una persona bisognerebbe capire quali sono i problemi di cui questa soffre, e ciò non è successo. Oggi la mia più grande gioia sarebbe quella di potermi sentire fisicamente integro al cento per cento». Parlammo di Moggi e mi colpirono le sue risposte decise ma prive di rancore. «Alla fine se uno è bravo emerge comunque», mi disse. Non rividi più Grabbi in campo. Giocò ancora poche partite, il Bellinzona fu promosso e arrivò sino alla finale di coppa (poi persa contro il Basilea, ma quell’impresa varrà comunque ai granata la qualificazione alla Coppa Uefa), però il ruolo di attore protagonista toccherà ad altri. A fine stagione, Grabbi chiuse con il calcio giocato. L’ultima domanda che gli sottoposi riguardava gli infortuni. «Da uno a dieci, quanto hanno pesato sulla tua carriera?». Non mi fece nemmeno finire. «Dieci». Deciso, diretto, senza fronzoli. Come un album dei Ramones.