Dejan Lovren ha raccontato la sua esperienza da rifugiato

Un documentario da 22 minuti in cui il difensore del Liverpool entra nei dettagli della sua difficile infanzia, tormentata dal conflitto balcanico.

«Quando vedo quello che sta accadendo oggi ai rifugiati, mi viene in mente la mia esperienza, la mia famiglia, la gente che non ci voleva. Capisco che le persone vogliano proteggere se stesse, ma c’è chi non ha una casa, e non è colpa loro. Stanno combattendo per le loro vite, per salvare i loro bambini. Vogliono un posto sicuro per loro, per il loro futuro. Ho vissuto sulla mia pelle tutto questo, so cosa sta accadendo a queste famiglie. Dategli un’occasione, dategli un’occasione». Dejan Lovren, difensore del Liverpool e della Nazionale croata, ha raccontato la sua esperienza da rifugiato in un documentario di 22 minuti apparso sui canali ufficiali del club. Lovren, oggi ventisettenne, ha dovuto abbandonare il piccolo villaggio di Kraljeva Sutjeska, dove viveva, per sfuggire al conflitto balcanico. «Nei piccoli villaggi accadevano le cose più terribili. La gente veniva uccisa brutalmente. Il fratello di mio zio fu ucciso con un coltello davanti ad altra gente. È come se la guerra fosse accaduta ieri. È un tema molto delicato, perciò la gente cerca di non parlarne, è molto triste. Prima di realizzare questo documentario, mia madre mi ha detto: “Non dire nulla”. E io ho detto che invece l’avrei fatto, e lei si è messa a piangere. Lei ricorda tutto di quel periodo».

maxresdefault

«Non abbiamo mai avuto problemi, andavamo d’accordo con tutti i vicini, che fossero musulmani, serbi, si parlava con tutti. E poi arrivò la guerra. Vorrei spiegare perché, ma nessuno lo sa. Successe e basta. Cambiò tutto in una notte, la gente stessa cambiò. Mi ricordo il suono delle sirene. Ero così spaventato che pensavo fossero bombe. Ricordo che mia madre mi prese e andammo nello scantinato, e non so quanto tempo rimanemmo lì seduti, rimanemmo fino a quando le sirene non smisero di suonare. Dopo, con mia madre, mio zio e sua moglie, salimmo in macchina e ci dirigemmo verso la Germania. Lasciammo tutto, la casa, il piccolo negozio alimentare che avevano. Presero una valigia e dissero semplicemente “andiamo in Germania”».

Dopo 17 ore di viaggio arrivarono a Monaco di Baviera. «Siamo stati fortunati. Io e la mia famiglia. Mio nonno lavorava in Germania, aveva documenti regolari. Senza, non so cosa avremmo fatto, e non so cosa sarebbe accaduto. Uno dei miei migliori amici, ricordo, piangeva ogni giorno. “Perché”, mi domandai. Suo padre era un soldato. “Mio padre è morto”, disse. Sarebbe potuto essere il mio».

hd-dejan-lovren_z5796ozkxclz17vn5e1nat0yu

Dopo sette anni trascorsi in Germania, la famiglia di Lovren fu costretta a lasciare il Paese. «Le autorità dicevano che, a guerra finita, saremmo dovuti tornare. Ogni sei mesi, i miei genitori dovevano preparare le valige. Era davvero dura non poter avere un futuro in Germania. Così un giorno vennero e ci dissero: “Avete due mesi per andarvene”. Per me fu molto complicato perché i miei amici erano tutti in Germania, la mia vita, di fatto, era iniziata lì. Avevo tutto, ero felice, giocavo in una piccola squadra, con mio padre a fare da allenatore, era semplicemente bellissimo. Mia madre disse che la Germania era la nostra seconda casa, ed è vero. La Germania ci aprì le braccia. Non so quale Paese avrebbe potuto fare questo con i rifugiati dalla Bosnia, in quel periodo».

La famiglia Lovren, costretta a lasciare la Germania, si stabilì in Croazia, a cinquanta chilometri da Zagabria. «Mia madre lavorava da Walmart per 350 euro al mese. Mio padre era un imbianchino. Avevamo problemi economici. Ricordo quando mio padre prese i miei pattini da ghiaccio. Un giorno chiesi: “Dove sono i mei pattini?”. Adoravo andarci d’inverno. E mia madre, piangendo, mi disse: “Papà li ha venduti. Non abbiamo soldi questa settimana”. In quel momento pensai: “Non voglio sentire più una cosa del genere”. Quei pattini li vendette per circa 40 sterline. I miei pattini, venduti. Fu una cosa difficile per i miei genitori. Spero che per le prossime generazioni sarà tutto molto più facile, per mia figlia e mio figlio, forse dimenticheremo e andremo avanti. Non so se capiranno mai la mia vita, la mia situazione, cosa ho passato, perché vivono in un mondo totalmente diverso. Quando mia figlia mi chiede un giocattolo, a volte le dico: “Non ho soldi”. È complicato da capire perché lo faccia, ma lo faccio per farle capire che niente si ottiene facilmente».