Il calcio in Corea del Nord

Com'è allenare nel Paese più controverso del mondo? Lo abbiamo chiesto a Jorn Andersen, ct della Nazionale maggiore.

«Sepp, this is for North Korea in 2026». Così, nel luglio del 2015, Simon Brodkin. A Zurigo era in corso la riunione dell’Esecutivo Fifa e, davanti alle telecamere, il comico e performer britannico innaffiava l’allora numero uno del calcio internazionale Blatter con una iconica pioggia di dollari finti. Le cose non sono andate esattamente così. Lo svizzero è fuori gioco e, assegnati tra mille polemiche i prossimi tornei a Russia e Qatar, non dovrebbero più essere palline raffreddate né mazzette transoceaniche a decretare i Paesi organizzatori dei Mondiali di calcio. Ma soprattutto, e qui sta il gusto della provocazione messa in scena dall’attore, la Corea del Nord continua a mancare dei requisiti per prendersi carico di un grande evento. O anche solo per sedersi al tavolo con gli altri membri della comunità internazionale, fingendo per un istante sia interessata a farlo.

A settanta anni dalla separazione con Seoul e a più di venti dalla morte dell’eterno presidente Kim Il-sung, Pyongyang vive ancora nel più cristallizzato isolamento. Difficilmente lo spezzerà l’avvicendamento alla Casa Bianca tra Obama e Trump, nonostante quest’ultimo si sia detto disponibile a invitare il leader Kim Jong-un negli Stati Uniti per un hamburger e abbia derubricato la questione nordcoreana a «problema di Pechino». Un atteggiamento assolutamente inedito per un Presidente degli Stati Uniti, che non può bastare a levare il vestito da Paria a un dittatore capace di condurre svariati test atomici negli ultimi anni.

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Tutto il resto è folklore, o meglio rischia di esserlo. Dal Paese più sigillato del pianeta le informazioni fluiscono con il contagocce e il controcanto alle verità di regime, che reinterpretano l’attualità alla luce dell’ideologia Juche su cui tutto il sistema nazionale si regge, è molto spesso rappresentato da colossali bufale. Ecco che Kim Jong-un ha fatto “giustiziare” a colpi di cannone il suo ministro della Difesa, reo di essersi appisolato durante una cerimonia, oppure sbranare un parente da 120 cani affamati. O magari, ancora più brutale, ha imposto che tutti gli studenti universitari nordcoreani portino i capelli come lui. Nessuno nega o tollera condanne a morte e metodi efferati, ma sui dettagli degli episodi, è ormai accertato, parecchia fiction viene montata.

Cosa dire del pallone? Anche in questo caso si brancola nel vuoto, tra l’assenza di fonti attendibili e la naturale tendenza ad assecondare il folklore. Qualche tempo fa i giornali britannici diedero ampio risalto alla notizia secondo cui Kim Jong-un fosse un accanito sostenitore del Manchester United e di Wayne Rooney. Certa è la sua passione per il basket, come dimostra la «fraterna amicizia» con Dennis Rodman. L’ex Bulls, uno dei personaggi più straordinari del circo Nba, andò più volte in visita in Nord Corea e organizzò un match di esibizione accanto alle ex stelle Kenny Anderson, Cliff Robinson, Vin Baker, Craig Hodges e Doug Christie.

I recenti investimenti della Corea del Nord nello sport sono stati documentati da Curtis Melvin, ricercatore al US-Korea Institute di Washington DC. Dal 2012 il budget delle diverse discipline è aumentato del 6-7% ogni anno, fino a un picco del 17% nel 2014. Nel Paese sono state realizzate nuove strutture per il pattinaggio e impianti sciistici, un centro per l’equitazione e uno per il surf lungo la costa vicino alla città orientale di Hamhung. Nella maggior parte dei casi sono stati usati capitali provenienti dalla Cina, con cui il rapporto è peggiorato negli ultimi anni. Da Pechino Kim Jong-un e i suoi hanno mutuato anche l’idea di puntare forte sul settore giovanile. Una grande accademia calcistica è stata finanziata con 800 mila dollari del programma di sviluppo Fifa, precedente alle ultime draconiane sanzioni internazionali. Si allenano 200 ragazzi tra i 9 e i 15 anni. «Cresceremo giocatori più forti di Messi» pare abbia promesso il capo della nazione. La struttura si trova nella capitale, a pochi passi dal Rungrado May Day Stadium. È l’impianto più capiente al mondo, capace di ospitare fino a 150 mila spettatori. Inaugurato nel 1989 e abbellito da gigantesche arcate che danno vita ad una struttura a forma di petalo, è stato creato per ospitare i Giochi di Massa di Arirang. L’evento rappresenta la massima espressione dell’autocelebrazione del regime e ogni estate chiama a raccolta migliaia di persone per dare vita a coreografie ed esibizioni.

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Alle Olimpiadi Pyongyang vanta 16 ori. Arrivano dal sollevamento pesi, dagli sport di combattimento e dalla ginnastica. A Rio il medagliere si è fermato a quota sette, circostanza che avrebbe indispettito Kim. «I vincitori saranno ricompensato con un alloggio migliore, assegni più alti, una macchina; chi ha deluso rischia la miniera» aveva pronosticato Toshimitsu Shigemura, professore alla Waseda University di Tokyo e studioso degli affari nordcoreani. Ancora una volta capire quanto ci sia di vero è pressoché impossibile.

Motivo di orgoglio sono di certo le prestazioni sul campo da calcio delle ragazze nordcoreane. Tutto è accaduto in autunno, tra ottobre e novembre. Prima l’Under 17 ha conquistato il Mondiale di categoria in Giordania grazie alla vittoria ai rigori sul Giappone. In cinque edizioni è il secondo titolo per le atlete: come loro nessun altro sul pianeta. Poche settimane dopo in Papua Nuova Guinea, con un sonoro 3 a 1 alla Francia in finale, giungeva la doppietta con il Mondiale Under 20 al cielo. Insomma, le giovani di Pyongyang col pallone ci sanno fare per davvero.

I colleghi maschi vantano in tutto due qualificazioni ai Mondiali. La prima risale al 1966 ed è avvolta dalla leggenda. Una squadra composta da sconosciuti dilettanti eliminò durante i gironi l’Italia di Mondino Fabbri, che poteva contare sul talento di Giacinto Facchetti, Gianni Rivera e Sandro Mazzola. Il match, passato nefastamente alla storia per gli azzurri, finì uno a zero per gli asiatici con gol del caporale Pak Doo-Ik. La corsa terminò ai quarti per via della sconfitta per 3 a 1 con il Portogallo di Eusebio, ma l’impresa fu grande. Oggi è stata digitalizzata e resa disponibile su Youtube nel documentario The Game of their Lives.

 

La Corea del Nord tornò a qualificarsi 44 anni dopo, in occasione della Coppa del Mondo in Sud Africa. Nel girone arrivarono tre sconfitte e le solite voci per cui tutti i membri della squadra erano stati spediti ai lavori forzati. Le accuse furono presto smentite dalle autorità locali e dalla Fifa, che avviò un’indagine, ma trovarono ampio risalto sui giornali. L’ex allenatore Kim Jong-hun ammise che a dettare la tattica durante le partite fu il quasi omonimo dittatore via smartphone. Alcuni degli elementi di quel collettivo non sono ancora usciti dal gruppo. Tra i pali oggi come allora c’è Ri Myong-guk, che fece tremare il Brasile all’esordio e poi incassò sette sberloni dal Portogallo. Classe 1986, è il capitano della squadra e il giocatore con più presenze nella storia della Nord Corea. Sia il padre che il fratello hanno difeso i pali della madrepatria prima di lui. Qualche anno fa fu intervistato dal Guardian, cui confidò la sua stima per Van der Sar e il suo «orgoglio di contribuire alla lotta del popolo coreano verso la vittoria».

L’articolo raccontava l’esperienza di assistere dal vivo a una partita in uno stadio riempito per metà da soldati e per l’altra da civili vestiti tutti uguali, istruiti a dovere sul modo in cui applaudire, mai troppo eccessivo, e sventolare le bandierine. Più o meno la stessa sensazione che aveva descritto Tim Hartley per BBC, quasi scosso dal silenzio e dalla compostezza dei 50 mila spettatori dello stadio Kim Il-Sung di Pyongyang durante una sfida di campionato. «La più bizzarra partita a cui ho mai assistito. Voglio pensare che quella folla abbia lasciato il campo felice, ma, dato che i volti non facevano trapelare alcuna emozione, non ne ho idea», scrisse il cronista. Il secondo reduce dell’esperienza sudafricana è Ri Chol-myong, centrocampista nato nel 1988. Ha accumulato una cinquantina di caps con la selezione ed è uno dei punti di forza del Pyongyang City Sports Club, il club più titolato del Paese dopo il concittadino April 25 Sports Club, nome che celebra il giorno in cui Kim Il-sung stabilì la sua armata di guerriglieri.

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Reperire informazioni più dettagliate sulla competizione non è semplice, persino l’ineffabile Soccerways abdica alla missione. Fino a poco fa le formazioni nordcoreane erano estromesse per motivi politici dalle coppe asiatiche, negli ultimi anni è invece giunto l’invito alla AFC President’s Cup. Il movimento, in attesa della maturazione dei prospetti coltivati in accademia, non è in un momento di salute particolarmente florida. Occupa la 125esima piazza del ranking Fifa, subito prima c’è il Kyrgyzstan e subito dopo la Thailandia. Senza risalire ai tempi di Pak Doo-Ik, la nazionale raggiunse il 60esimo posto in classifica nel 1993 e ha scollinato più volte quota 100 nel corso dell’ultimo decennio.

La politica non di rado è un ostacolo: negli ultimi anni le sfide con la Corea del Sud sono state giocate in campo neutro per il rifiuto di Pyongyang di esporre la bandiera avversaria nel proprio stadio. Una rivalità che non attecchisce molto tra i cittadini, che secondo molti commentatori sotto sotto fanno il tifo per i vicini di penisola. Il Mondiale di Russia è un sogno svanito, causa la sfortunata eliminazione per un punto dal terzo round delle qualificazioni asiatiche, mentre l’accesso alla Coppa d’Asia passerà dal buon esito del girone con Hong Kong, Libano e Malesia al via a marzo.

«Sono molto soddisfatto dei ragazzi, è un team fantastico. Nelle prime otto gare alla guida della squadra ne abbiamo persa soltanto una, siamo in crescita. Il collettivo è di qualità notevole, abbiamo buoni giocatori con importanti doti tecniche. Con un buon lavoro di tattica si può migliorare ancora». A parlare così è Jorn Andersen, ct della Corea del Nord dallo scorso maggio. Negli scorsi giorni ha firmato un nuovo contratto della durata di 15 mesi, che lo terrà a Pyongyang almeno fino all’aprile 2018. Accetta volentieri di fare una chiacchierata con noi, ma sui temi più sensibili della vita sociale la sua reticenza è palese. «Sono qui per fare il mio lavoro da allenatore. Vivo in un hotel e tutto va alla grande. Ho scoperto una nazione organizzata e pulita, non molto diversa dalla Cina. Di certo le cose non sono brutte come si dice l’Europa. Io mi trovo bene, a Pyongyang vivo la vita di una persona normale. Tutti quanti lo fanno», così risponde alla domanda sugli abusi del regime e le restrizioni alle libertà personali.

Cinquantaquattro anni, nato nel sud della Norvegia, ha costruito la sua carriera da centravanti e poi da allenatore tra Germania e Svizzera. Approdò nel 1985 a Norimberga, prima di trasferirsi a Francoforte e poi ancora a Dusseldorf, alla Dinamo Dresda e ad Amburgo. Tutti ricordano l’exploit del 1990, quando, con la maglia dell’Eintracht, realizzò 18 gol e divenne il primo capocannoniere straniero della Bundesliga. «Furono dieci anni sensazionali, in cui ricevetti anche alcune offerte dall’Italia. Era un calcio divertente, non credo troppo diverso da quello attuale. Sono solo tempi più moderni, è la vita che procede». Jorn concluse la carriera in Svizzera, avvicendando le maglie di Zurigo, Lugano e Locarno. Vanta anche 27 presenze e 5 gol con la maglia norvegese.

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Al ritiro subito il primo contratto da allenatore, a Lucerna. È stato al Borussia Monchengladbach e al Mainz, al Larissa in Grecia, al Karlsruher e all’Austria Salisburgo. Prima dell’avventura nordcoreana, che a molti parrà follia. «Ho voluto portare qua il mio calcio moderno, fatto di idee tattiche innovative e grande cura della fase offensiva. Mi piace pressare alto all’inizio dell’azione per favorire la fase difensiva e praticare un gioco veloce e diretto. Amo lavorare duramente con i ragazzi che ho a disposizione e tirare fuori tutto il loro potenziale. Sono contento di farlo qui oggi». Secondo Andersen in Corea del Nord ci sono tutte le condizioni per pianificare un futuro di soddisfazioni. «Le infrastrutture sono ottime e i campi su cui ci alleniamo sono moderni, abbiamo due stadi di primo livello come il May Day Stadium, il più grande al mondo, e il Kim Song Il, dove giochiamo le partite casalinghe. Ospita 50 mila persone ed è stato completamente rinnovato di recente. Qualcosa inoltre si muove per quanto riguarda i club: nel 2017 il torneo locale ha lasciato il posto a una nuova lega a 14 squadre e intanto le società hanno iniziato a giocare fuori dai confini nelle competizioni asiatiche. Questo è molto importante».

L’ultima domanda è sulla figura che, per ciascuno di noi, rappresenta il principale motivo di interesse verso ciò che succede in Corea del Nord. Chi è Kim Jong-un, personaggio indecifrabile che le lenti a nostra disposizione deformano di volta in volta nel più brutale dei dittatori o in una macchietta da commedia americana? Come incide sulla sua professione un datore di lavoro così ingombrante? I suoi cani sono davvero così affamati? E chi è il suo parrucchiere? «Non posso rispondere a nessuna di queste domande, semplicemente perché non lo conosco. Non si è mai fatto sentire, non l’ho mai incontrato e non vedo perché dovrei farlo».

 

 

Tutte le foto scattate alla Pyongyang International Football Academy (Ed Jones/AFP/Getty Images)