Lapadula, finalmente

Ha scoperto la Serie A tardi, dopo una carriera passata nei campionati più spietati. Ma il passato è un bagaglio che Gianluca Lapadula ha imparato a usare al meglio.

Gianluca Lapadula ha un volto da attore, con gli occhi dolci e contornati di nero, la pelle mandorlata né scura né chiara. I baffi tradiscono un’origine difficile da rintracciare se non sapessi che ha sangue italiano e peruviano, diviso in parti uguali, paterne, rispettivamente, e materne. È nato a Torino da una famiglia di fioristi, vicino allo stadio Filadelfia, nella parte meridionale della città. È particolarmente rilassato, affatto intimidito quando entra nella stanza e si presenta, poi si siede, e racconta della sua infanzia all’ombra dell’impianto forse più simbolico della storia del Torino, indossando la maglia della Juventus: «Quello stadio lo vedevo tutti i giorni, è stato una specie di fonte di ispirazione, mi motivava. Mi allenavo lì davanti perché mandavano i ragazzini della Juve a cambiarsi negli spogliatoi, poi si attraversava via Filadelfia per giocare». Mentre ricorda, Lapadula fa delle pause e guarda un punto nella stanza, mi sembra per concentrarsi, o per orientarsi dentro il passato.

È arrivato in Serie A, firmando con il Milan, nell’estate 2016 a 26 anni, un’età matura per un calciatore, dopo aver girato per molte città diverse, in Italia ma non soltanto. Non ha avuto una carriera semplice: prima di farsi conoscere con il Pescara, segnando 30 gol in 46 partite e portando la squadra in Serie A per la seconda volta negli anni Dieci, aveva cambiato dieci squadre in otto anni. Ha dovuto imparare – e l’ha fatto – dai suoi errori e da quelli degli altri. Il primo, e uno dei più importanti, è stato probabilmente suo, quando si è fatto scaricare dalla Juventus per gli scarsi risultati scolastici. Mi dice: «Quella cosa lì la rimpiango, perché mi ricordo che la Juve guardava molto la scuola, la pagella, e la mia non era delle migliori. Però è stata una fonte di motivazione, una cosa che mi ha segnato. Erano otto anni, ormai era casa mia la Juventus. Mi era dispiaciuto tanto».

Prova a giustificarsi dicendo che aveva testa soltanto per il calcio. Inizia a giocare come portiere, poi lo spostano a centrocampo, in mezzo, «a fare lo spaccagambe», dice sorridendo: «Ero un numero 5, mettevo i parastinchi quelli con le cavigliere, le scarpe nere, quando mi arrivava la palla la passavo al più vicino e faceva lui, io dovevo solo difendere». Gli chiedo se, da bambino, aveva intuito di avere qualcosa in più degli altri. «No, in realtà non me ne sono mai accorto», spiega, calmo. «Però», e fa un’espressione più concentrata, «avevo una cosa che io non riuscivo a spiegarmi. Non so se era voglia, avevo qualcosa dentro. Poi con il passare degli anni ho capito cos’era, era consapevolezza che potevo farcela». La determinazione è una caratteristica su cui a Lapadula piace tornare, e guardando nella sua biografia le piccole odissee dall’Emilia al Lazio alla Romagna, esperienze con poche presenze e ancora meno successi, è naturale: dev’essere stato un appiglio, forse a volte l’unico, a cui tenersi mentre la corrente passava di sotto rischiando di trascinarlo via. Si nota, chiaramente, anche quando gli domando che giocatori lo hanno colpito di più durante l’infanzia, e risponde: «Seedorf, che se sbagliava un passaggio, la giocata dopo era sempre una giocata complicata. E se sbagliava anche quella la rifaceva ancora».

Penso alla frase “il peggio è passato”, mentre penso a Gianluca Lapadula a Milanello mentre sorride con la tuta del Milan, e addosso un ruolo da protagonista nella squadra che Montella sta ricostruendo dopo i brutti anni del post-Allegri. Una sintesi felice di moltissime antitesi, di mesi complicati passati senza scendere in campo per scelte tecniche, caratteriali o mediche. Mentre mi racconta il suo passato Lapadula ha ancora la fronte concentrata nel ricordarsi ogni nomi, ogni evento. Dopo la Juventus, a 18 anni, cammina con poca fortuna per i terreni più accidentati del calcio italiano, quelli della Lega Pro. «Nel 2007 andai alla Pro Vercelli in C2, feci qualche partita, poi la Pro Vercelli fallì. Andai all’Ivrea, e avevo diciotto anni, sempre in C2, feci più partite, facevo l’esterno, ci salvammo, ma quell’estate l’Ivrea fallì». Finalmente viene notato da Francesco Palmieri, responsabile del settore giovanile del Parma, e nel 2009 firma con il Parma. Quel Parma, che verrà di lì a poco rilevato da Leonardi, conta però più di 250 tesserati, distribuiti in tutto il mondo. Lo mandano in prestito all’Atletico Roma, dove si trova male, poi a Ravenna, ma il Ravenna fallisce, allora a San Marino, di nuovo in Lega Pro Divisione 2, dove finalmente gioca e segna, schierato da seconda punta («mi ha cambiato giocare in quel ruolo, mi calzava a pennello»). Lo chiama il Cesena, per la prima volta in Serie B, ma gioca pochissimo anche lì, allora a metà anno cambia ancora e scende di categoria, al Frosinone, «però stavo male» dice, e anche in Ciociaria finisce con 6 partite e 0 gol. A questo punto Lapadula ha 23 anni e rischia un anonimato precoce, quello di migliaia di calciatori ogni anno: nel calcio c’è spazio per pochissimi. Mi dice, e sembra soffrire ancora adesso, che «arrivata l’estate ero stufo di queste categorie, in cui rischi di perdere soldi, ti pagano l’affitto ma non ti danno i soldi, ti danno l’indennità di trasferta…», sbuffa, stremato. «Non ne potevo più. In più il Parma continuava a mancare gli stipendi». A questo punto gli chiedo se ha mai accettato quello che sembrava essere un destino scritto: diventare un giocatore di categoria. La voce si fa di nuovo convinta: «No, non l’ho mai accettato. Mai, mai, nemmeno pensato. Mi è sempre piaciuto allenarmi da morire perché potevo migliorare il destro, lo stop, alzare di due o tre chilometri la velocità, non potevo fermarmi. E poi per anni ho fatto tutto il giorno solo questo, il calciatore, almeno dovevo farlo bene».

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C’entra ancora la determinazione: in estate passa, sempre in prestito, al Nova Gorica, con cui segna 14 gol e vince la Coppa nazionale. Poi torna in Lega Pro, da svincolato – nel frattempo anche il Parma è fallito – e sceglie il Teramo. «Avevo più potere contrattuale, ma guardavo al progetto tecnico. Il direttore del Teramo mi chiamò e mi disse: “Lapadula, so che hai avuto dei problemi fisici, ma in società abbiamo un osteopata che ti può seguire per ogni cosa. So anche che non sei un esterno, ma una seconda punta, infatti ti offriamo un posto da seconda punta». Il Teramo vinse, «fu un anno eccezionale» ricorda lui, con 25 gol e la Serie B guadagnata. Ma ci fu anche il calcioscommesse, e a portarlo in Serie B ci pensò il Pescara. Oddo, però, dopo poche partite lo schiera prima punta, lui va in gol quasi a ogni partita e di Lapadula si inizia a parlare in tutta l’Italia calcistica. Sono ormai tre anni che supera i 10 gol a stagione, e questa volta ha l’opportunità di andare in Serie A. Con la promozione, si apre un nuovo panorama davanti agli occhi di Gianluca. Come arrivare sulla cima di una montagna, sapendo che il percorso non è finito, ma quantomeno, beh, che il peggio è passato.

«Non avevo paura, però era strano: mi chiamavano il Genoa, il Sassuolo, il Napoli. Mi dicevo: fino a due anni fa ero a Nova Gorica, ma che sta succedendo? Il Milan arrivò dopo, ero già in fase d’arrivo con altre trattative. Io ho detto: Milan? Ma ci devo anche pensare? Fatemi firmare subito». Ma al Milan arriva dopo quasi 50 partite giocate fino a luglio, saltando completamente il ritiro perché, per due mesi, non riesce ad allenarsi. Montella lo sa, infatti lo fa riposare, i giornalisti lo sanno meno o forse lo sanno e lo ignorano, e Lapadula si arrabbia. Segna il primo gol in Serie A contro il Palermo il 6 novembre: «Il più bello. Sia per tutta la gavetta che ho fatto, sia per il momento che stavo vivendo. Per tutti quel giorno non ero da Milan. Non ero all’altezza, non reggevo la pressione. Dopo il gol ho detto: “Ora si inizia a dimostrare tutto”».

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Come prima cosa, appena arrivato al Milan, Gianluca è andato a vedere il museo a San Siro. Ha 26 anni e ha imparato a saper soppesare le cose nel modo giusto: «Dopo aver giocato in serie in cui venivano a vederti in 50, scendere adesso in campo a San Siro ti fa capire che devi fare di tutto per rimanere qui. È un’occasione che non so se mi ricapiterà più». Il punto più alto di una scalata lenta e testarda arriva quando arriva la Nazionale. Il passato è prezioso, soprattutto se hai imparato come portarlo. Gli chiedo cosa ha pensato, quando Ventura lo ha chiamato. Lapadula annuisce piano, pensa bene a cosa dire, si guarda i piedi, curvo con i gomiti sulle ginocchia, poi alza la testa e, calmo, inizia: «In sei anni ho dovuto vincere tutte le categorie in cui ho giocato per arrivare in Serie A. Quando sono arrivato in Nazionale ero felice. Però più che felice mi sentivo sereno. La serenità è diversa, non vuol dire non avere problemi, ma essere riuscito a superarli. Allora la acquisisci. In quel momento l’ho percepita davvero».

 

Fotografie di Fabrizio Vatieri
Articolo originariamente apparso sul numero 14 di Undici