Il nuovo tennis di Roger Federer

Come la vittoria di Miami, ma soprattutto la semifinale contro Kyrgios, mostrano una mutazione nel gioco del Re: meno eleganza, più intensità.

La semifinale del Miami Open Itaú 2017 fra Nick Kyrgios e Roger Federer è stata, semplicemente, il tennis: al suo meglio. C’erano tutte le condizioni, beninteso: un grande torneo decaduto, costretto per ragioni di sopravvivenza a lasciar cadere un nome che ancora sapeva di mangrovie e alligatori,  Key Biscayne, e a presentarsi con un toponimo tristemente associato al nome del main sponsor; un re al ritorno da un lunghissimo viaggio – un ologramma di se stesso o un’allucinazione altrui, ancora non è chiaro – costretto ad affrontare il più temibile e insolente fra i pretendenti al trono; due stili di gioco speculari, che si prestano a qualsiasi opposizione lo spettatore decida di proiettare sul campo: grazia contro violenza, disegno contro caos, persino, in mancanza di meglio, Apollo contro Dioniso.

Il match ha offerto tutto questo, ma anche il suo continuo e sconcertante rovesciamento: si è visto Kyrgios andare a punto con un tweener in risposta a un drop shot quasi irraggiungibile, e Federer cacciare Kyrgios dal campo con lungolinea o incrociati che non si saprebbe come definire, se non brutali. È stata una partita entusiasmante, ma al tempo stesso solo la parte in chiaro di uno scontro molto più complesso. Per come è stato giocato, e prima ancora pensato.

Sulla carta, infatti, il dito di ferro fra due virtuosi – ciascuno a suo modo – del servizio avrebbe potuto condurre allo stesso risultato (7/6, 6/7, 7/6) per una strada molto più lineare, con ciascuno concentrato sul proprio turno di battuta, in attesa del tie break. Solo che in campo Federer, per la prima volta con questa chiarezza, ha introdotto una delle variazioni che stanno trasformando il suo 2017: non nella passerella celebrativa di una carriera, ma nella sneak preview di un tennis a venire.

C’è qualcosa di cristallino e al tempo stesso di criptato, nel nuovo gioco di Federer, e non si tratta né del rovescio in slice, né dell’anticipo estremo con cui oggi colpisce la palla. La mutazione, più sottile e più profonda, non è facile da definire. Ma il linguaggio del corpo di Roger, anch’esso nuovo, qualche indizio lo offre.

Per anni, Federer ha ripetuto spesso una frase che avrebbe dovuto essere presa più sul serio: non capisco perché non si possa giocare una partita perfetta. È una fantasia – una formazione delirante, se vogliamo usare un termine tecnico – che infesta la mente di chiunque tenga una racchetta in mano, ma di cui in genere ci si sbarazza dopo il primo scambio, quando ne diventa ovvia l’irrealizzabilità. Bene, a inseguire quella stessa fantasia Roger ha dedicato gran parte della sua carriera, e sacrificato una parte dei risultati che avrebbe potuto ottenere. Senza l’ossessione di battere gli avversari più duri – Nadal, ma anche Djokovic – giocando il loro gioco all’estremo, oggi le discussioni su chi è stato il tennista più grande di sempre non avrebbero un pretesto da cui cominciare. E a ogni stecca presa, a ogni dritto lungo, a ogni drop shot sul nastro, il suo sguardo, per quindici anni, è stato quello di chi non si perdona la rinuncia a un sogno. Oggi, nelle stesse circostanze, il suo sguardo è talmente diverso da portare chi lo incrocia a chiedersi che cosa gli sia successo, nell’autunno che ha appena attraversato.

Probabilmente, una cosa molto semplice. Fin dall’inizio, Federer ha avuto una capacità di cui non si è mai parlato abbastanza, quella di guardare dal di fuori l’incontro che si sta giocando. Dal tennis, Roger si lascia ancora oggi irretire: gli è sempre piaciuto studiarlo, leggerlo, modificarlo – se non ne subisse a quel punto la fascinazione non dichiarerebbe, alla fine di un incontro massacrante come quello con Kyrgios, che sarebbe valsa la pena di andare avanti ancora un po’.  E in un qualche passaggio recente di questa analisi interminabile deve avere deciso di sostituire al delirio di onnipotenza di cui è spesso stato vittima quello di onniscienza, che dall’inizio dell’anno sembra invece rendergli piuttosto bene. Come? Per la via più immediata, spostando il fuoco dall’aspetto che fin qui lo aveva quasi ipnotizzato – i colpi, i punti, lo spettacolo – a quello che, fedele alla sua cifra e alla sua stardom, aveva sempre trattato con un sottile disprezzo: l’andamento del match.

E infatti. Per tornare allo sguardo, quello del Federer 2017 ha un bagliore satanico, ed emette un singolo messaggio, ossessionante: qualunque cosa stia succedendo in campo, fa parte di un copione scritto da me. È un messaggio che arriva forte e chiaro, al di là della rete, ed è ancora più letale del nuovo gioco di Federer, basato su un’aggressività senza pause.

In tutto il torneo, ma soprattutto contro Kyrgios, Federer ha combattuto punto su punto anche nei game già persi, quelli che per quindici anni aveva, sensatamente, lasciato. È stato come se sotto il match giocato ne stesse ogni volta scavando un altro, come usasse ogni minima insicurezza dell’avversario per preparare la voragine che da un momento all’altro, senza preavviso, lo avrebbe inghiottito. Può essere un’immagine troppo cruenta, ma il tennis non è gentile. Sia Berdych che Kyrgios, d’altronde, hanno perso due partite quasi vinte allo stesso modo: con un doppio fallo, l’equivalente più immediato di una resa senza condizioni. Non sarebbe successo, probabilmente, senza l’oppressione di una minaccia incombente, e finora sconosciuta.