La soluzione Thiago Alcantara

Come talento e senso tattico convivono nel centrocampista del Bayern, che con Ancelotti sta trovando una definitiva affermazione.

Pep Guardiola fu chiarissimo con la dirigenza fin dal suo primo giorno al Bayern Monaco: «Thiago oder nichts». Ovvero o si acquistava Thiago Alcantara in rotta con il Barcellona, oppure tanto valeva restare con i giocatori ereditati dalla trionfale gestione di Jupp Heynckes. Il motivo era semplice: nello scacchiere tattico ideale della sua nuova squadra, il figlio di Mazinho avrebbe dovuto essere il centro di gravità permanente nel ruolo di pivote, con Lahm e Toni Kroos ai suoi lati a portare equilibrio in non possesso e creatività in prima costruzione e il trio offensivo Ribery-Gotze-Robben (con Muller primo ricambio) ad agire negli spazi senza dare punti di riferimento alla retroguardia avversaria.

Eppure, quello che Karl Heinz Rumenigge ha definito a più riprese come «il più grande desiderio di Guardiola» sta trovando la definitiva consacrazione con un allenatore diverso (Carlo Ancelotti) e in un ruolo diverso (trequartista atipico alle spalle di Lewandowski): 29 presenze tra Bundesliga e Champions League (una continuità che gli aveva fatto difetto nelle tre precedenti stagioni in Baviera a causa dei frequenti problemi fisici), sei reti, sette assist, 43 passaggi chiave, 129 intercetti complessivi in poco più di quattro azioni difensive di media a partita (e oltre il 50% dei recuperi avviene nella metà campo offensiva: nessuno meglio di lui in Europa). E la partita perfetta disputata lo scorso 15 febbraio in occasione dell’andata degli ottavi di Champions contro l’Arsenal: doppietta, l’assist per la rete del 5-1 di Muller, altre due occasioni create, 93% di pass accuracy, tre contrasti vinti, 83 passaggi completati rispetto ai 69 del trio Xhaka-Ozil-Chamberlain. Lo specchio di un dominio completo e totale esercitato in mezzo al campo:

Thiago Alcantara è la dimostrazione vivente di come la multidimensionalità debba essere una delle caratteristiche principali del centrocampista moderno: nel corso della sua carriera, il brasiliano naturalizzato spagnolo ha ricoperto tutti i ruoli della mediana, agendo indifferentemente da mezzala, trequartista, regista o seconda punta, in un processo di maturazione che deve ancora compiersi del tutto. In effetti, quello che il 17 luglio 2013 sbarca a Monaco è un giocatore che, benché reduce dalla tripletta all’Italia nella finale dell’Europeo Under 21, deve ancora essere sgrezzato del tutto, soprattutto per quel che riguarda la lettura delle singole situazioni in fase di non possesso: primo dello sbarco in Germania, infatti, erano due le azioni difensive di media a partita (dato che manterrà nel triennio successivo) corredate, però, da qualche errore di troppe nelle scalate e nelle coperture preventive sulle contro-transizioni avversarie.

Memorie dell’ultimo anno a Barcellona

Lo ribadisce anche il diretto interessato nelle sue prime dichiarazioni da bavarese («Voglio usare tutto quello che Pep ha già aggiunto al mio gioco e allo stesso tempo affermarmi come calciatore di altissimo livello») e in una successiva intervista a FourFourTwo del gennaio 2014, in cui confermerà che l’idea di Guardiola era quella di rendere il Bayern una “macchina perfetta” con lui a fare da tramite verso «l’idea del gioco del nuovo allenatore, attraverso la ricerca continua della superiorità numerica e del dominio del gioco». E, per fare questo, era necessario schierarlo da centrocampista puro «in una zona dove posso controllare tutto e decidere come e quando influenzare i ritmi della manovra». Progetto che naufraga a causa dei ripetuti problemi al legamento collaterale mediale, operato ben tre volte nel giro di due stagioni: saranno appena 31 le gare complessivamente disputate a fronte delle 53 saltate, con l’unico lampo costituito dalla splendida sforbiciata da tre punti nel 2-1 allo Stoccarda il 29 gennaio 2014.

Venuto a mancare nella versione 1.0 del Bayern guardiolano, quello, cioè, improntato al gioco posizionale puro da svilupparsi con continui cambi di campo e sovrapposizioni tra gli esterni durante la formazione della “piramide rovesciata”, Thiago Alcantara ha (ri)cominciato a far parlare di sé in quella 2.0, l’ultima dell’allenatore catalano, costruita intorno al concetto di moltiplicazione esponenziale delle occasioni da gol, magari sacrificando qualcosa a livello di possesso palla e predominio territoriale. Di fatto l’unica direzione possibile, in considerazione dell’acquisto di Lewandowski (e conseguente rinuncia ad impiegare Gotze e/o Muller nel ruolo di falso nueve) e degli arrivi, ad un anno di distanza, di Xabi Alonso prima e Arturo Vidal poi: con il primo impiegato nel ruolo di pivote classico e il secondo a garantire il giusto rapporto tra quantità e qualità in entrambe le fasi, l’ex Barça ha potuto avanzare di buoni venti metri il proprio raggio d’azione, godendo della libertà di muoversi a piacimento nella trequarti offensiva, agendo molto più vicino alla porta e in particolare sul centro-sinistra, andando a formare un triangolo con Douglas Costa e Alaba che diventa, rapidamente, la prima opzione offensiva esplorata dai campioni di Germania.

E il risultato, nella scorsa stagione, è questo

Un adeguamento tattico che ha pagato grossi dividendi soprattutto in Champions League: a fronte di una precisione nei tocchi oscillante costantemente tra l’88% e il 91% (con un’ovvia predilezione per la dimensione verticale: 60.5% in campionato, 63.9% in Coppa), sono state 40 le occasioni create (otto assist e 32 passaggi chiave), tre in più rispetto a quanto fatto in campionato con 16 presenze in meno. Paradigmatica, in tal senso, la partita con la Juventus nel ritorno degli ottavi: con i bavaresi in difficoltà nello scardinare il solido 4-5-1 dei bianconeri (che diventava un 4-3-3 in fase di possesso quando si trattava di risalire il campo con gli esterni Cuadrado e Alex Sandro), Guardiola spacca la gara ai supplementari inserendo il suo pupillo al posto di uno stanco Ribery. La rete del 3-2 è, paradossalmente, il dettaglio meno importante: a fare la differenza è la sua capacità di galleggiare tra le linee avversarie, con movimenti che mandano completamente fuori giri l’approccio difensivo della squadra di Allegri, incapace di proporre qualcosa di diverso alla grande densità in mezzo al campo.

La heatmap del centro-sinistra del Bayern Monaco contro la Juventus prima (a sinistra) e dopo (a destra) l’ingresso in campo di Thiago Alcantara: ovvero come fare la differenza aumentando le zone d’influenza e le soluzioni offensive toccando venti palloni in altrettanti minuti di impiego

La nuova posizione di Thiago è uno dei pochi lasciti implementati da Ancelotti nel suo sistema, seppur con le dovute variazioni: una volta abbandonato il 4-3-3 per l’attuale 4-2-3-1, il tecnico gli consegna le chiavi della squadra, le cui sorti offensive dipendono ora dalla sua capacità di muoversi da un lato all’altro del campo per creare i presupposti della sovrapposizione tra gli esterni (non a caso quasi l’80% delle azioni del Bayern si sviluppano sulle fasce) alla ricerca della superiorità numerica. Il tutto unito ad una capacità di agire anche per vie centrali che si va affinando gara dopo gara, magari sfruttando l’inserimento nello spazio alle spalle di un Lewandowski mai così coinvolto nello sviluppo della manovra. Principi dei gioco che, nella già menzionata partita contro l’Arsenal, sono stati applicati alla perfezione.

La heatmap (a sinistra) e la grafica relativa ai passaggi completati contro l’Arsenal, spiegano l’assoluta centralità di Thiago Alcantara nel Bayern di Ancelotti. Ogni singola azione offensiva passa, necessariamente, dai suoi piedi

Che si sia al cospetto della stagione del definitivo salto di qualità, poi, ci viene detto anche da un altro dato statistico: nella speciale classifica dei giocatori che, in Champions League, hanno completato il maggior numero di passaggi, Thiago è il terzo a quota 502, con Julian Weigl (505) e Marco Verratti (512) nel mirino. Non male per chi, sovente, lascia i compiti di prima costruzione a Xabi Alonso ed è secondo (dietro Nzonzi del Siviglia) per rendimento complessivo su entrambi i lati del campo. Del resto già nello scorso novembre, nel corso di una lunga intervista a Goal.com, il giocatore aveva intuito di essere giunto al momento di svolta, posto al centro di un progetto tattico che prevede il dominio di campo e avversari senza soluzione di contunuità: «Ci sono momenti nei quali ti rendi conto che gli avversari non possono fare nulla, che è impossibile. È impossibile perché stiamo controllando ogni cosa. Vedi che tu ed i tuoi compagni siete in una buona posizione con un sacco di energia e che stanno facendo i giusti passaggi. Alcuni momenti ti senti meglio rispetto agli altri giocatori e superiore rispetto all’altra squadra. Quando tu hai la palla è impossibile che gli avversari possano creare delle occasioni»Era solo questione di tempo, quindi. E che sia avvenuto con Ancelotti e non con Guardiola, che lo lanciò a 18 anni nella prima squadra del Barcellona, è stato solo per una mera questione di infortuni e coincidenze sfortunate che hanno rallentato, senza però arrestarla, la sua scalata ai vertici del calcio mondiale.