La metamorfosi di Ibra

Ovunque decida di andare, è un Ibrahimovic diverso quello che giocherà nella prossima stagione.

Molti dei protagonisti delle serie tv sono personaggi in qualche modo danneggiati: si portano dietro una ferita che condiziona la loro esistenza: Don Draper, Walter White, Frank Underwood, Naz Khan. Quello che ci piace, da spettatori, è guardare dentro le loro ferite, accarezzarne i lembi, riconoscere qualcosa di nostro nel loro fatal flaw. Nel corso della sua carriera, stagione dopo stagione, Zlatan Ibrahimovic si è spinto oltre i limiti dell’umano. Non c’entrano solo i gol fantascientifici, come quello segnato in rovesciata contro l’Inghilterra, o gli avvitamenti che mandano in vacca tutto quello che sapevamo sulla fisica e ci fanno dubitare di quelli che credevamo fossero i limiti del corpo umano. C’è stata una costante in questi anni di peregrinazioni di Ibrahimovic: un senso di grandezza assoluta e irrimediabile, al di là delle ombre catalane e dei dubbi parigini. Zlatan ha progressivamente lasciato il campo in cui si dibattono i comuni mortali per entrare in quello del mito.

Il suo grande fatal flaw è stata la Champions League. La ferita che ha condizionato e guidato l’intera carriera di Ibra è stata quella coppa inseguita, di casacca in casacca, oltre e contro l’attaccamento dei tifosi, attirando su di sé antipatie e, allo stesso tempo, amore incondizionato. Il paradosso di Ibra è che, nonostante le fughe di vittoria in vittoria, ha sempre lasciato schiere di tifosi innamorati di lui. In fondo, è così disprezzabile la voglia di vincere? Non è quello che vorremmo tutti?

FBL-FRA-SUPERCUP-PARIS SAINT-GERMAIN-TRAINING

L’amore per Zlatan Ibrahimović nasce ed è alimentato anche da quel modo arrogante di stare in campo, dalla sicurezza con cui si muove: ogni volta che entra in relazione con il pallone o con gli avversari ha un’aura di epicità che amplifica il suo dominio sul piano fisico e tecnico. La strafottenza di inizio carriera si è trasformata, nel corso degli anni, in regalità, in un certo distacco dalle cose terrene. Ibra adesso è al di là del bene e del male, gioca a un livello che non è più quello degli esseri umani comuni. Può rimanere in attesa per una partita intera, imbrigliato nella noia di certi catenacci, per poi toccare anche un solo pallone e imprimere la sua forza mostruosa non solo a novanta minuti ma anche a campionati interi.

Zlatan non ha vissuto da umano nemmeno un infortunio gravissimo come la rottura del crociato. Rispetto a Ronaldo (il suo è il Grande Infortunio che ha segnato la mia adolescenza), Ibra ha avuto una reazione più composta: resta a terra come un animale ferito e si copre gli occhi con una mano. Non c’è l’urlo di dolore del Fenomeno, lo strazio della bocca spalancata e le mani strette attorno a quel ginocchio percepito come un corpo estraneo. L’unica cosa in comune è l’assenza di uno scontro di gioco: Ibra atterra male dopo aver saltato per raccogliere un lancio lungo, Ronaldo si accartoccia sul suo marchio di fabbrica, il doppio passo.

Il 23 aprile, tre giorni dopo l’infortunio, Zlatan posta una foto su Instagram. «One thing is for sure, I decide when it’s time to stop and nothing else. Giving up is not an option»: queste parole, scritte da lui, si spogliano della retorica tipica delle dichiarazioni pubbliche dei calciatori e assumono perentorietà e risolutezza brutali. A poco più di un mese dall’infortunio, la situazione di Zlatan era questa.

The touch will never disappear. Lions dont recover like humans. @azsportswear #itsnotaboutthegear

Un post condiviso da IAmZlatan (@iamzlatanibrahimovic) in data:

«Lions don’t recover like humans»: anche nella narrazione che Ibra fa di sé, è ben chiaro lo scarto tra lui e i comuni mortali. Nel suo universo non è contemplata la debolezza. Forse è questo uno dei motivi per cui ci affascina, oltre alle prodezze in campo e alla tecnica mostruosa: una volontà adamantina capace di superare tutto (o di escludere deliberatamente) dolore, fragilità, debolezza, infortuni, mancati rinnovi contrattuali. Mentre noi ci abbattiamo dopo una giornata dura in ufficio o dopo aver urtato il piede contro lo spigolo del comodino, Ibra resta in piedi, con la schiena ben dritta e lo sguardo fiero di un eroe omerico.

La volontà di Ibra non è stata scalfita nemmeno da una lesione al ginocchio, figuriamoci se il mancato rinnovo del contratto con il Manchester United può piegarla. Anzi, quello che per un calciatore qualsiasi sarebbe un intoppo, per lui diventa un’occasione: può scegliere in totale libertà dove giocare e il 99% delle squadre del pianeta lo accoglierebbe a braccia aperte. Potenzialmente, Ibra potrebbe andare dappertutto. Come un anno fa, è lui a tenere in mano le redini del gioco. Ci sono due strade, adesso. La prima è quella nostalgica. Un ritorno a Malmö sembra improbabile: se il campionato svedese stava stretto all’Ibra ventenne, figuriamoci ora; ma avrebbe un impatto emotivo pazzesco. Sarebbe un po’ come il ritorno di un re. La statua è già pronta.

Leicester City v Manchester United - The FA Community Shield

L’altro ritorno strappalacrime sarebbe all’Ajax, la prima tappa importante di una carriera costellata di successi, il primo grande turning point della vita di Zlatan. A Milano tornerebbe invece nei panni del messia. Sia per l’Inter che per il Milan interpreterebbe di nuovo il ruolo che Ibra preferisce: quello che fa la differenza. I rossoneri avrebbero un motivo in più per ingaggiarlo: sono ancora alla ricerca di un centravanti.

L’altra strada è quella esotica. E le opzioni sarebbero due: il sole di Los Angeles o i contratti milionari  in Cina. Due campionati minori con una fame costante di stelle a fine carriera, in un tentativo reiterato di autolegittimarsi attraverso frammenti di storia del calcio europeo e sudamericano. Il problema, però, è che tutto questo non collima con l’idea che Ibra ha di sé stesso. E nemmeno con l’immagine che ha dato finora: una creatura mitologica come lui soffrirebbe a stare lontano dalle battaglie che contano davvero, non si sentirebbe a suo agio sotto i riflettori posticci di due campionati alla periferie dell’impero.

Nella scelta questa volta non ci sarà in ballo l’ossessione di una vita, quella coppa capricciosa che ha assunto i contorni sfumati di un miraggio. Se i trasferimenti passati sono stati condizionati dall’ostinato inseguimento dell’ultimo tassello di una carriera perfetta, questo cambio di maglia (l’ultimo, probabilmente) è libero dal peso della Champions. Forse nella testa e nell’ego di Zlatan si è fatta strada una sorta di accettazione della mancanza. Gli è chiaro di aver mutato statuto, di essere diventato un altro tipo di calciatore: ha trasceso la Storia, diventando leggenda incarnata. Lui è Zlatan, voi chi siete?