L’estate di Cutrone

Da luglio a settembre ha segnato sempre, ma Patrick Cutrone può farlo ancora e ancora, a differenza di molti predecessori.

L’estate di Patrick Cutrone era iniziata con una doppietta al Bayern Monaco, dopo il test con il Lugano (e altro timbro) in un periodo trascurabile, anche se non esattamente trascurabile era il tenore dell’avversario. Capita che possa impressionare più il poker al Bayern di Ancelotti del neonato Milan di Fassone e Mirabelli, che non la doppietta di quel giovane, accolta con inevitabile buonumore ma con aria di sufficienza: del resto una trentina d’anni fa in rossonero anche Lupetto Mannari aveva impressionato tutti in una notte d’amichevole al Bernabeu. Poi erano rimasti solo l’impressione, il rimpianto, e un paragrafo nella letteratura del Milan sacchiano.

Ma che in Cutrone ci sia qualcosa in più dell’effervescenza che porta in dote ogni flirt estivo lo si intuisce quasi subito, nel giro di pochi giorni, tanto ci mette la sufficienza a dileguarsi. Più che la rete contro il Craiova, al ritorno del preliminare di Europa League, più che quella con cui si ripete al turno successivo, sempre a San Siro, contro lo Shkendja, rintuzzando la gara vissuta in panchina all’andata da sostituto di André Silva, a far pensare è il fatto che passino le partite, si cominci a far sul serio, e l’ex Primavera non sparisca dai radar. Fino all’alba del campionato, e all’alba di una faccenda seria: perché il Cutrone di Crotone è faccenda seria, altro che scioglilingua. Allo Scida rigore procurato, rosso procurato, prima rete in Serie A e assist da pelle d’oca, tutto in un tempo. «Eh, ma arriva Kalinic», sussurrano tattici e fantacalcisti. Sarà, ma quella che è nel frattempo è diventata l’estate di Cutrone non vuol saperne di finire: il ragazzo di Como non smette di giocare e segnare, e quello nel 2-1 con il Cagliari è un gol pesante, oltre a sembrare una seduta di laurea in inserimento offensivo, facoltà di fiuto del gol. Arriva Kalinic ma Cutrone non la smette. Senza impressionare, con pochissimo clamore e tantissima continuità. E a lui parrebbe andare bene così: del resto, in rossonero, per le giovani punte il clamore non è mai stato un grande alleato.

Quanta fiducia ci vuole nell’andare così verso il pallone

Sembra ieri ma non lo è. La corsa verso il primo pallone toccato, a prendere quel lancio no-look di Seedorf, la conclusione sul secondo palo, l’urlo che non viene fuori, perché entrato da venti secondi nella tua prima partita in Serie A, è sacrosanto che tu non abbia ancora rotto il fiato. La montagna umana alla bandierina assieme a quelli che hai visto solo in tv, mentre Ancelotti ride come un pazzo: nell’inizio della storia di Alberto Paloschi in rossonero, per esempio, di clamore ce n’è fin troppo. Venti secondi e poi in gol, roba da fare il giro del mondo e ritorno. Un paio di settimane prima, contro il Livorno, il ginocchio di Ronaldo ha alzato l’ultima bandiera bianca, e il Milan ha bisogno di belle storie da raccontare e da raccontarsi. Il Fenomeno in maglia rossonera il campo non lo vedrà più, ma Paloschino ha davanti a sé pur sempre giocatori del calibro di Inzaghi, Gilardino, e Pato, solo un anno più grande. Teoricamente, nel reparto, ci sarebbe anche Willy Aubameyang, fratello di quel Pierre-Emerick ancora lungi dall’essere rimpianto, e corteggiato a più riprese. Ma questa è un’altra storia.

O forse no. Perché un mesetto prima di quel pomeriggio in cui Paloschi fa urlare al miracolo contro il Siena, Pierre-Emerick Aubameyang ha iniziato a giocare nella Primavera del Milan. Nell’estate sarà capocannoniere di quello che è il primo esperimento della Youth League, in Malesia. Per il Milan, che è molto diverso da quello attuale nell’attenzione ai giovani, quell’exploit malese non è sufficiente: Aubameyang va in prestito in Francia, quattro squadre in quattro stagioni. Un’enormità, a quell’età. Alla fine, nel dicembre del 2011, i rossoneri prendono e portano a casa il milione che serve al Saint-Etienne per riscattare l’attaccante gabonese: il resto è storia, oggettivamente poco edificante per la vecchia dirigenza milanista.

Ancelotti ride

Tornando a Paloschi, sono gli stessi anni che vedono progressivamente sfiorire anche la sua promessa, per lo meno quella a tinte rossonere. Sono gli anni di Parma, iniziati in maniera incoraggiante con i 12 gol in Serie B, l’esordio in Under 21 a 18 anni, il Premio Silvio Piola vinto l’anno successivo come miglior attaccante Under 21. Ma il piccolo Paloschi cresce, letteralmente, e iniziano i guai: i muscoli fanno fatica a reggere il veloce sviluppo in altezza di 5 centimetri, e lui entra in una spirale di infortuni e recidive che convincono i ducali a risolvere la comproprietà con il Milan, che ne apre una meno fruttuosa con il Genoa. Dopo, gli anni con il Chievo sono quelli in cui l’attaccante di Chiari tenta di (ri)costruirsi in una nuova dimensione, fino a brillare particolarmente, per continuità e reti, nel 2013/14. Le 13 marcature non si ripetono più, per Paloschi ci sono anche i sei mesi allo Swansea in Premier, prima del ritorno in Italia, all’Atalanta. Dove, con Gasperini in panchina, tutti ne annusano un’abbagliante rinascita, e dove invece finisce alle spalle di Petagna, altro ragazzo che sembra poter far credere alla storia che, se sei un attaccante italiano esploso nel Milan, sei destinato a consacrarti lontano dal Milan. Quando ti va bene.

E quella di “Pignatone”, come lo chiama Berlusconi poco prima del gol decisivo nella finale del Torneo di Viareggio vinto dai rossoneri di Inzaghi, è un’altra storia di inizi fragorosi in rossonero rimasti poi tali: inizi, e basta. Perché dopo tre esperienze in B a farsi le ossa tra Latina, Vicenza e Ascoli, oggi Petagna è alla guida dell’attacco dell’Atalanta (in squadra con il golden boy di quella edizione del Viareggio, Bryan Cristante), che lo ha comprato per un milione. Peraltro, pensare all’Atalanta chiamerebbe in causa anche il decano delle promesse rossonere, quel Marco Borriello rimasto imploso a due riprese in rossonero, prima di diventare eroe in provincia, con qualche cameo di gloria tra Roma e Juventus. Alla fine, in attesa del capitolo ambientato a Ferrara, per Borriello il taccuino dice 127 gol in carriera, e solo 21 di questi in rossonero: facile credere che quel ventunenne con la maglia numero 18 del Milan fresco campione d’Europa a Manchester, di ritorno da Treviso e con 10 reti nella sacca, avesse sogni un po’ diversi. Ma a questo punto, esaurito il riassunto degli episodi precedenti, vanno elencati almeno tre buoni motivi per i quali quella di Patrick Cutrone promette di essere, finalmente, una storia diversa.

AC Milan v Borussia Dortmund - 2017 International Champions Cup China

La struttura

Il metro e ottantatré di statura lascerebbe presagire che lui difficilmente svilupperà altri centimetri in altezza, e questa già di per sé pare un’ottima premessa. Amenità a parte, ad essere faccenda più seria è soprattutto lo sviluppo muscolare di Cutrone, già evidentemente alle spalle nei dieci anni di giovanili rossonere (perché in rossonero Cutrone ci arriva a otto anni): massiccio, elastico, potente e di buona corsa, l’attaccante di Como ha tutto per bypassare la fase di potenziamento muscolare che, in casi come quelli di El Shaarawy e soprattutto di Pato, ha lasciato ben più che un’ombra di rimpianto su ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Per farla breve, la crescita come atleta di questo ragazzone di diciannove anni sembra ormai pienamente compiuta: e non è un dettaglio, affatto.

Le occasioni

Ovvero, quelle che tutti i casi precedenti non hanno realmente avuto. Semplice, ma non scontato. Perché tra André Silva, luminoso prospetto che, in realtà, è solo venticinque mesi più vecchio di Cutrone, e l’affidabile Kalinic, al Milan non è più arrivato quello che per l’opinione pubblica avrebbe incarnato l’ineffabile definizione di “grande attaccante”. E perché, con il dovuto rispetto al talento lusitano e al cecchino croato, pensare che Cutrone non debba automaticamente, immediatamente accomodarsi in panchina può non risultare un’eresia, tutt’altro. Non solo perché vedersela con Inzaghi e Gilardino (o come peggio sarebbe capitato a Aubameyang con Ibrahimovic) poteva apparire un diverso, ma perché, specie se Montella si persuadesse ad approdare al 3-5-2 o comunque a un sistema che preveda due punte, Cutrone è il prospetto su cui l’allenatore potrà maggiormente, e più proficuamente, lavorare tatticamente, perché si compenetri al meglio con il compagno di reparto.

L’inizio di tutto, a luglio

Del resto, a dare il polso immediato di quanto Cutrone sia già, a 19 anni e dopo pochi mesi con Montella, un attaccante dinamico, moderno, capace di lavorare per la squadra e in rapporto alle esigenze tattiche del match, è la distribuzione delle zone di campo nelle quali entra in azione, a Crotone prima (segnando), a Cagliari poi (segnando ancora) nelle due giornate di campionato fin qui disputate. A destra gli areali di gioco di André Silva e Kalinic, che lo sostituiscono rispettivamente in Calabria e contro i sardi: salta all’occhio la capacità del 63 rossonero di agire, e decidere, in più zone del campo. Ma se non bastasse la prima impressione a lasciar intendere quanto  Cutrone sia disposto al movimento e alla ricerca del pallone, probabilmente più dei compagni con cui dividerà il reparto almeno fino a gennaio, c’è il 90% di precisione di passaggio nelle due sfide di campionato, che sale addirittura al 94% nella gara probabilmente più probante, quella di San Siro contro il Cagliari, rispetto a un Crotone immediatamente in inferiorità numerica.

Il contesto

A decretare molto spesso il successo o l’insuccesso di una narrazione, più che la storia in sé, è proprio il contesto, lo sfondo, l’ambientazione: se affascinante, se credibile, sei già a metà dell’opera. Già accennato al fatto che Cutrone metta la maglia rossonera a otto anni d’età e la indossi per tutti le undici primavere successive, è intuibile quanto l’attaccante non impazzisca all’idea di toglierla per un prestito. E va detto che Cutrone non cresce nel Milan: Cutrone cresce con il Milan. Perché della nouvelle vague rossonera che ha progressivamente lanciato Calabria, Donnarumma, Locatelli, lui non è né un caso isolato, né una ghost track: lui di quella new wave è espressione, a pieno titolo. E andare a beccare quei volti imberbi tutti assieme nelle foto delle formazioni delle varie giovanili rossonere delle ultime stagioni, ora a dodici, ora a quindici, ora a diciassette anni, non è semplicemente esercizio ad alto tasso emotivo: spiega, immagine dopo immagine, una formazione e un’appartenenza, in un decennio in cui l’una si è nutrita dell’altra. Ecco perché Cutrone non è né una cattedrale nel deserto, né un’estemporanea epifania: Cutrone è, più semplicemente, l’espressione di un contesto, senza clamore, più sommessa e meno fragorosa. E, per questo, più credibile.

 

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