Cambio ruolo, cambio vita

Oltre Mertens: chi sono i giocatori che beneficerebbero di una nuova collocazione in campo?

L’idea per cui arrivare a possedere una coscienza definita delle proprie caratteristiche sia un fondamento dell’arte di migliorarsi è dimostrata e condivisibile. Padroneggiare la conoscenza di se stessi, i propri limiti e le proprie qualità è importante tanto quanto saperla applicare sul campo. Nel corso di una carriera, tuttavia, è possibile trovarsi di fronte a un violento cambio di scenario la cui conseguenza è la perdita apparente delle certezze che sono sempre state date per scontate. Cambiare ruolo in modo più o meno stabile, come in molti hanno fatto negli anni e molti ancora faranno in futuro, rappresenta un crocevia netto per un calciatore. È un passaggio dimensionale che trasforma e ridefinisce, e può farlo sia portandosi dietro risultati positivi, sia causando veri e propri downgrade. Dipende da svariati fattori esterni alla volontà del calciatore, richiede doti che non tutti possiedono e per questo è estremamente elitario. Il caso di Dries Mertens, che da ormai quasi un anno possiamo annoverare tra le migliori punte centrali del nostro campionato, è solo l’ultimo di una lunga serie comprendente giocatori che, nel corso degli anni, sono stati in grado di rielaborare se stessi e le proprie priorità sul campo nell’ottica di progredire. Naturalmente ci sono anche casi in cui chi è stato sottoposto ad un cambio di ruolo più o meno definitivo non ha saputo trarne vantaggio. E anzi, è stato addirittura penalizzato. Si tratta di un banale rischio del mestiere, e come in tutte le cose è anche la casualità a incidere, a spostare l’ago della bilancia. Senza tener conto dell’influenza esercitata dall’allenatore che il cambio di ruolo lo propone, o quella del sistema di gioco in cui serve calarsi: tutte dinamiche che deviano la traiettoria del miglioramento.

È il 2015 e Mertens gioca alla sinistra di Higuaín, ma sa già anticipare i difensori come un attaccante d’area

Il caso Mertens è esplicativo

L’abilità richiesta al giocatore preso in questione è inizialmente di carattere emotivo, mentale: una resistenza all’urto provocato dal crollo delle certezze. È naturale che in questa prima fase sia centrale l’esperienza di giocatori che hanno cambiato ruolo nella fase medio-discendente della propria carriera – come Mertens, appunto. Immaginiamo cosa possa passare per la testa di un calciatore che da circa quindici anni fa l’esterno d’attacco o la seconda punta, e lo fa tutto sommato con risultati soddisfacenti, al sentirsi proporre un cambiamento tanto radicale. Certo, Sarri è un allenatore che come pochi altri ispira fiducia e sicurezza nei propri mezzi, ma sentirsi messo in discussione alla soglia dei trent’anni non può essere facile. Umiltà, spirito di sacrificio e volontà di apprendimento sono le chiavi per attutire il colpo, e questo vale a prescindere da quanto l’idea dell’allenatore possa essere condivisa dal giocatore su cui deve essere sviluppata. Per rimanere sul caso di Mertens, ad esempio, c’è sempre stata grande complicità: Sarri ha più volte ammesso di essere stato costretto dalle assenze a schierarlo in quella posizione per la prima volta, ma il belga di contro non ha mai negato di essersi trovato a suo agio. Da lì in avanti il feeling con i compagni (di reparto ma non solo) e l’effettivo miglioramento sia individuale che di squadra hanno fatto il resto. Occorre tenere bene a mente però quanto forte sia stata l’influenza del contesto in cui questo cambio di ruolo si è concretizzato: uno estremamente associativo, dove la palla viene toccata tanto da tutti e nessun elemento della squadra viene isolato nel corso della manovra. Mertens è diventato un attaccante di assoluto livello in questo Napoli, con Sarri in panchina, con Insigne e Callejon ai suoi lati e con Zielinski e Hamsik appena dietro. Lo è diventato in un momento storico particolare del campionato italiano, in cui sempre più squadre approcciano le partite secondo una filosofia proattiva, e in cui quelle che non sono in grado di farlo subiscono quattro, cinque o più reti a partita. Tutto questo per chiedersi: siamo sicuri che in altre condizioni le conseguenze del cambio di ruolo di Mertens – che pure ci ha messo del suo, in termini di disciplina – sarebbero state le stesse? Da un lato abbiamo una risposta complicata da dare, dall’altro una certezza: oggi, a trent’anni compiuti, il belga ha raggiunto la propria versione migliore grazie a un’intuizione e al lavoro che ne è derivato.

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Chi può cambiare oggi

Anche oggi, in un contesto dove il calcio si evolve in maniera velocissima – Zygmunt Bauman direbbe «liquido» – e ai giocatori è richiesta una sempre maggiore versatilità, le ipotesi di cambiamenti di ruolo che ci si prospettano sono numerosissime. Moltissime delle ispirazioni in tal senso non possono che derivare da Pep Guardiola e dai giocatori con cui ha (o ha avuto) a che fare: Kimmich che oggi al Bayern fa il terzino ma che non sfigurerebbe affatto come interno di centrocampo, o David Silva che è lecito immaginarsi come regista (magari non in Premier) negli ultimi anni della carriera. Tutti i calciatori più intelligenti con cui il catalano ha lavorato sono perfettamente in grado di dare continuità alla serie che oggi finisce con Mertens, ma uno in particolare merita attenzione: David Alaba. Era difficile che un tecnico piuttosto conservativo come Ancelotti potesse spostarlo dalla linea difensiva, ma nel caso in cui il futuro dell’austriaco dovesse proiettarlo verso un contesto più innovativo sarebbe pensabile vederlo a centrocampo, come mediano o come mezzala sinistra. Ha grande intelligenza tattica e il fisico lo sosterrebbe, mentre la sua qualità nel tocco e nel passaggio è tema già appurato da tempo. Discorso simile, quasi sovrapponibile, è quello che riguarda Dani Alves. L’età avanzata del brasiliano rappresenta un ostacolo non da poco in termini di futuribilità (nel 2018 compirà 35 anni), ma se dovesse presentarsi l’occasione per testarlo in una zona di campo più accentrante Emery dovrebbe coglierla: ha un’astuzia innata, e la sua visione di gioco merita una possibilità. Senza tenere conto del fatto che i suoi numeri, comparati con quelli dei centrocampisti di ruolo, non sfigurano affatto.

Anche uno youngster di livello come Marco Asensio potrebbe subire un’evoluzione totalizzante, ed essere definitivamente spostato nella fascia centrale del campo. È vero che oggi il ruolo di centrocampista offensivo nel 4-3-1-2 di Zidane è stabilmente occupato da Isco, ma se vorrà raggiungere la massima espressione delle proprie qualità associative Asensio dovrà imporsi in quella zona di campo. Alternativamente, se crescendo dovesse manifestare quantomeno una sottile attitudine difensiva, sarebbe sensato provare a trasformarlo in una mezzala votata alla transizione attiva. Se fino a ora abbiamo più volte sottolineato l’influenza determinante del contesto, farlo nel caso di Asensio è ancora più importante: trovare non solo lo spazio per farsi vedere, ma anche quello necessario a vivere un processo evolutivo senza rimetterci in termini di minutaggio, sarà fondamentale per non ridurre quanto mostrato sin qui. È anche per questo motivo che converrà a entrambe le parti (giocatore e squadra) attendere ancora un paio di anni per spostarlo laddove potrebbe fare ancor di più la differenza.

Tra le ipotesi oggettivamente meno praticabili rientra una categoria, quella degli attaccanti esterni, che sarebbe intrigante veder confluire almeno in parte nel ruolo di regista. Il riferimento è perlopiù a giocatori agili, che spiccano nella gestione della palla più che nel take-on puro e che siamo soliti indicare come intelligenti prima ancora che veloci o potenti: profili come quello di Perotti, ma anche come quello di Eriksen, avrebbero le carte in regola per insediarsi in cabina di regia – a patto di essere affiancati da giocatori in grado di compensare le loro carenze in fase di interdizione (Strootman e Wanyama?). Entrambi sono giocatori dalle evolutissime qualità cerebrali e associative, ed entrambi sono arrivati ad una fase della carriera in cui la retorica sulla discontinuità di rendimento è stata (quasi) definitivamente accantonata. Agendo in posizione più accentrata e qualche decina di metri indietro perderebbero banalmente di incisività in zona gol, ottenendo però in compenso una visione panoramica più ampia in grado di mantenere pressoché intatto il loro assist-istinct. In un discorso di questo genere si può pensare di inserire anche Julian Brandt, che per una mera questione anagrafica è ancora qualche step indietro; parlare di un’evoluzione così netta, nel suo caso, è ancora prematuro, e in ogni caso il suo rendimento attuale dipende troppo dal rapporto con l’avversario che si trova di fronte sulla fascia.

Real Madrid CF v AS Roma - UEFA Champions League Round of 16: Second Leg

Ci sono poi quei giocatori che da una vita vengono impiegati come esterni offensivi, ma che per una ragione o per un’altra nel calcio di domani sarebbero probabilmente più utili partendo da una posizione più arretrata. È il caso di due esterni puri in particolare: Jesus Navas e Lucas. Nessuno dei due è mai stato identificato in modo diverso rispetto al loro ruolo classico, ed è un aspetto che li mette piuttosto in controtendenza con l’attualità. Non sono versatili (lo spagnolo in primis) né danno l’impressione di poterlo diventare – e le loro heatmap, dopo ogni partita, lo testimoniano. Per questo una soluzione per valorizzare maggiormente il loro impiego potrebbe essere quella di arretrarli, di utilizzarli in sostanza come terzini. Se incontrassero sulla loro strada un allenatore particolarmente coraggioso (o meglio: un vero e proprio spregiudicato) questo accorgimento potrebbe aprire una vera e propria nuova dimensione per giocatori con le loro caratteristiche. Certo, il fisico li penalizza e difensivamente potrebbero prospettarsi veri e propri disastri, ma una volta conquistato il possesso far risalire il pallone dalla fascia sarebbe infinitamente più semplice. Probabilmente quando questo tipo di evoluzione relativa ai terzini vivrà il suo periodo d’oro Navas si sarà ritirato e Lucas sarà sul punto di farlo, ed è anche per questo che oggi è di fatto impossibile vederli impiegati in modo diverso. Ma un’ipotesi di questo genere, per quanto apparentemente assurda, non è da sottovalutare. In fondo, come hanno scritto Riccardo Zanola e Mirko Saggiorato in questo recente pezzo su Undici, «non è poi così utopico pensare di vedere un esterno alto partire da dietro e sovrapporsi noncurante dei ripiegamenti, lasciando la fascia scoperta, se si ripensa il modo di difendere dalle ripartenze avversarie». È una questione relativa: dipende esclusivamente da quanto peso si vuole dare all’approccio proattivo.

 

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